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  Il “neodossettismo” di Prodi

Data di pubblicazione: Giovedì, 30 Novembre 2006

Alcide De Gasperi

Alcide De Gasperi

TRAGUARDI SOCIALI / n.23 Novembre / Dicembre 2006 :: Il “neodossettismo” di Prodi

Un commento di Pier Paolo Saleri


Politica e istituzioni


IL “NEODOSSETTISMO” DI PRODI


       Durante la scorsa campagna elettorale si sono potuti, più volte, ascoltare riferimenti al “dossettismo di Prodi”.

       Curioso riferimento, apparentemente dotto, nel corso di un confronto elettorale nient’affatto tranquillo e scontato.

       Una simile incongruenza non può non incuriosire, e non sospingere ad approfondire meglio il senso di questo richiamo: a capire, insomma, come un’esperienza politica conclusa da oltre mezzo secolo, possa risultare tanto importante e influente, da riaffiorare improvvisamente, nel corso di una campagna elettorale estremamente combattuta e polemica.

       Un articolo non è certo la sede per effettuare una analisi compiuta e tentare di offrire una risposta esaustiva a una questione così complessa e controversa, ma è certamente una sede più che idonea per tentare di mettere a fuoco la problematica, accennare alcuni approfondimenti, sollevare alcuni interrogativi e, se possibile, stimolare una riflessione.

       Il primo punto da sottolineare è che il “dossettismo”, che si riallaccia alla leadership carismatica di Giuseppe Dossetti vicesegretario della DC ed antagonista di De Gasperi dalla costituente fino al 1951, anno del suo clamoroso abbandono dell’impegno politico (che lo condusse poi ad abbracciare la vita monastica), è stato realmente un fenomeno politico culturale di primaria grandezza.

       Un fenomeno che ha dato vita a un’influenza forte che non ha investito solo il mondo politico ma anche quello ecclesiale, ed ha avviato un dibattito culturale in cui dimensione politica e dimensione religiosa si intrecciano continuamente.

       Dossetti ebbe un ruolo di primo piano nel concilio come teologo del Cardinal Lercaro, figura preminente dell’ala “progressista” del tempo, assumendo il ruolo di membro della segreteria dei moderatori. Lui stesso, addirittura, ricorda che la sua esperienza assembleare, acquisita nel tempo della politica, “ha capovolto le sorti del Concilio”.

       La cosa, comunque, fuori discussione è che l’esperienza politica dossettiana ha avuto un ruolo di primo piano nel disegnare l’identità della Democrazia Cristiana in Italia, rendendo la sua connotazione molto diversa da quella di tutti gli altri partiti democristiani centroeuropei, “in primis” la Democrazia Cristiana tedesca. Il dossettismo inserisce, infatti, nel contesto della impostazione popolare-degasperiana, che caratterizza in modo primario la storia e l’impegno politico dei cattolici italiani, una forte tensione ideologica, “utopistica”, direi radicale nel senso etimologico del termine.

         L’orizzonte culturale in cui il Dossettismo muove i suoi primi passi (ma che presto Dossetti supererà!) è quello mairitainiano della “nuova cristianità”. Ciò, conferisce alla sua impostazione un utopismo “integralista” carico di aspettative quasi rivoluzionarie, seppure con mezzi pacifici, soprattutto una volta calato nella situazione italiana del dopoguerra. Per Dossetti, infatti, la situazione italiana non consentiva alla DC di avere in se stessa né la capacità strategica, né la forza culturale e politica di perseguire una conseguente politica riformatrice e di progresso, senza la garanzia ed il condizionamento di una stretta alleanza con le forze della sinistra: innanzitutto il Partito Comunista.

       Tale analisi lo porta ad una convergenza oggettiva con i partiti della sinistra PCI e PSI, ad una mitizzazione della resistenza come supremo momento di unità delle forze popolari in funzione antifascista, ed ad una sacralizzazione della costituzione come massimo frutto di questa unità.

       Nulla poteva essere più lontano dalla mentalità di De Gasperi, pur senza dubbio attento ad una logica riformatrice ma saldamente ancorata alla dottrina sociale cristiana, di queste velleità rivoluzionarie di tipo “giacobino”.

       Al momento in cui si arrivò alla crisi del tripartito, alla rottura dell’alleanza con le sinistre ed al vittorioso scontro elettorale del 18 aprile il dossettismo entrò in crisi.

       Quando poi, con l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico la situazione di rottura si consolidò in termini permanenti, con la decisa collocazione dell’Italia nell’alleanza occidentale, Dossetti decise di abbandonare la Democrazia Cristiana e l’impegno politico: più precisamente ritenne esaurita l’esperienza democraticocristiana in Italia.

       Questa convinzione è probabilmente, da un certo momento in poi, la parte più importante e dirompente del suo lascito politico. Non si può, infatti, certo dire che, con l’abbandono del suo leader, il dossettismo abbia cessato la sua influenza sulla vita pubblica italiana. Anzi, tale influenza è stata determinante nell’evoluzione della vicenda e della storia della DC in Italia. E’ fuor di dubbio, infatti, che la classe dirigente democristiana, nei suoi personaggi più significativi, sia stata, significativamente, segnata dall’esperienza dossettiana. Fanfani e Moro, solo per citare i due leaders più importanti, provengono ambedue dal dossettismo; e, anche successivamente all’uscita di scena del leader di “Cronache Sociali”, portarono molto del dossettismo nella loro militanza politica ed esperienza di governo.

       Tutte queste tematiche e queste sensibilità travasate nella vicenda della Democrazia Cristiana direttamente dall’esperienza dossettiana vennero, comunque e sempre, innestate, nel tronco forte dell’impostazione politico-culturale degasperiana, preservando i suoi capisaldi fondamentali: il blocco sociale interclassista che aveva consentito la vittoria del 18 aprile del 1948, e la decisa collocazione dell’Italia e dell’ Europa nell’occidente.

         In altre parole, la componente “giacobina” della originaria impostazione dossettiana, venne, di fatto, espulsa dal “dossettismo” di Iniziativa democratica, cioè di Fanfani e di Moro. Essa è, tuttavia, furiosamente riemersa soprattutto, dopo la tragica scomparsa di Moro.

       Moro, infatti, proprio per la problematicità profonda del suo approccio all’impegno politico, per la sua straordinaria sensibilità che lo portava ad essere, sempre, particolarmente attento e sensibile verso i fermenti nuovi della società e, soprattutto, verso quelli del dibattito religioso ed ecclesiale, aveva dato al suo impegno politico una caratterizzazione più marcatamente di frontiera.

       Questa collocazione lo portava ad essere, alla fin fine, punto di riferimento preferenziale per molte posizioni di “sinistra cattolica” particolarmente influenzate dalla vena “giacobina” del dossettismo. Tali posizioni ideologicamente legate all’esperienza dossettiana più conseguente, venivano, grazie a lui, sì, raccordate al partito, ma, anche, ricondotte in una logica politica non “dirompente” rispetto alla vicenda democristiana.

       In realtà, venivano mantenute nell’ambito di apporti di carattere, prevalentemente, tecnico: si pensi ad Andreatta ed a Prodi – che di Andreatta è allievo all’Università di Bologna - nel campo economico, o ad Elia in quello giuridico.

       Il dossettismo “giacobino” cresceva ai margini del potere democristiano, in centri di elaborazione culturale come il Mulino - della cui omonima casa editrice Prodi fu presidente dal 1974 al 1978 - o, più tardi, l’Arel, dello stesso Andreatta. E’ in questo ambiente che si manifestano le più significative influenze “illuministe” di tipo tecnocratico ed economicista, in un contesto culturale dossettiano: la convinzione dell’esaurimento della DC e del suo ruolo era “la bussola” politica che essi avevano ereditato dall’esperienza dossettiana.

         Proprio l’esaurimento del ruolo storico della DC, allargato alla convinzione che non vi sia in nessun modo spazio per una qualsivoglia organizzazione politico–sociale dei cristiani nella odierna società italiana costituisce l’ulteriore sviluppo del dossettismo più conseguente, dopo la scomparsa di Moro. Tutta questa problematica Dossetti l’aveva già maturata fin dall’inizio degli anni 50, ed è solo in questa luce che diventa comprensibile il suo abbandono dell’impegno politico.

       Con la scomparsa di Moro la cui impostazione poneva, comunque, la Democrazia Cristiana al centro della riflessione politica, seppure in termini di forte problematicità, il dossettismo più conseguente e “giacobino” inizia a farsi esso stesso linea politica: una linea che contemplava il superamento della DC e la fine di qualsivoglia organizzazione politica che, pur nella sua laicità, si qualificasse, comunque, in riferimento alla difesa e riaffermazione di valori cristiani.

       Con la segreteria De Mita, agli inizi degli anni ‘80, la linea e le impostazioni politiche dei gruppi di sinistra cattolica neodossettiani egemonizzano di fatto la stessa Democrazia Cristiana di cui non si prefigura, ancora, la scomparsa ma, certo, un netto mutamento genetico in sintonia con la crescente secolarizzazione del Paese. Nell’ambito di questo gruppo egemone, inizia a configurarsi come primaria, anche pubblicamente, la figura di Romano Prodi che assume l’incarico “tecnico”, ma certo non scevro di enorme rilevanza di potere e di immagine, di presidente dell’IRI.

       Quando, agli inizi degli anni ‘90, il sistema politico italiano entra in crisi, per il radicale mutamento dello scenario internazionale che consente la sistematica eliminazione delle classi dirigenti della DC e del PSI utilizzando gli scandali sul finanziamento dei partiti, il disegno neodossettiano può svilupparsi in tutta la sua pienezza: il blocco sociale degasperiano, finalmente, implode ponendo termine all’esperienza della Democrazia Cristiana in Italia: Martinazzoli, l’ultimo segretario, svolge il ruolo di liquidatore, sostanzialmente, in nome e per conto di questa sinistra cattolica.

       La disgregazione del blocco sociale degasperiano lascia vuoto e senza rappresentanza uno spazio politico enorme che non si riconosce nel disegno dossettiano di liquidazione - in alleanza con gli eredi del vecchio PCI - della Democrazia Cristiana, del Partito Socialista e degli altri partiti centristi.

       Apre, così, le porte all’avvio della avventura politica di Silvio Berlusconi.

       Dopo la breve eclisse del ‘94 il neodossettismo, con Prodi, assume saldamente la leadership della coalizione di sinistra la cui formazione viene, peraltro, facilitata dall’introduzione del sistema maggioritario che favorisce il definitivo smantellamento di quello che resta dei partiti tradizionali.

       Ha scritto recentemente Gianni Baget Bozzo su Il Giornale dello scorso 4 ottobre: “Prodi deve le sue fortune al fatto di esser stato designato da un leader spirituale e politico a un tempo come don Giuseppe Dossetti… Dossetti scelse Prodi come suo esponente politico nella realtà italiana, tenendolo lontano dall'adesione alla Dc. Prodi non ha avuto altro titolo che questa designazione, divenuta formale quando Dossetti attaccò Berlusconi, Fini e Bossi nelle elezioni del '94 e poi, nel '96, quando benedisse l'Ulivo come simbolo di Prodi”.

       La tesi che la fonte della “leadership” di Prodi sulla coalizione di sinistra sia, appunto, il carisma della impostazione dossettiana apre uno squarcio illuminante sulla vicenda politica odierna, rendendo comprensibili molti collegamenti e molte sintonie, altrimenti assolutamente inspiegabili. D’altro canto che Prodi, in quanto designato dallo stesso Dossetti, fosse il personaggio giusto per tale tipo di operazione è confermato da più parti: soprattutto dall’estrema sinistra, la cui partecipazione era ed è indispensabile per la stessa sopravvivenza della coalizione.

       Il segretario dei Comunisti Italiani Diliberto ha più volte espresso questo concetto ed, anche recentemente, in un’intervista, su La Stampa, dello scorso 16 giugno, è tornato a ribadirlo: “Vogliamo continuare ad essere determinanti. E Prodi rappresenta l’equilibrio più avanzato possibile nella situazione attuale. La persona giusta per cimentarsi in un’opera di mediazione. Un moderato, proveniente però dalla cultura del dossettismo che condivide con la sinistra due punti fondamentali: solidarietà e pace.”

       Una dichiarazione molto eloquente che può aiutarci a mettere a fuoco come la cultura del dossettismo sia da considerarsi centrale, addirittura, essenziale per mantenere l’intera coalizione collegata ed attestata “sull’equilibrio più avanzato possibile” consentendo alle sinistre più estreme di risultare determinanti. Anche se questo equilibrio “più avanzato possibile” sbilancia l’intera coalizione sulle posizioni più estreme della sinistra rendendo impossibile la nascita e lo sviluppo, in senso moderato, di un soggetto politico unitario della sinistra.

       Questa è la più profonda ragione dell’evidente antagonismo che si sta determinando tra le posizioni riformiste e quelle massimaliste, trasversalmente, sia nei DS che nella Margherita. Ad oggi comunque il neo-dossettismo resta l’unica posizione capace di tenere in piedi una coalizione tanto eterogenea.

       La cultura dossettiana, infatti, è fortemente insediata all’interno del mondo cattolico italiano e mantiene un indiscusso carisma verso l’intera sinistra cattolica, il che gli conferisce una grande capacità di legittimazione e di leadership nei confronti di una sinistra postcomunista rimasta orfana, dopo il crollo del socialismo reale, di tutti i suoi miti e di tutte le sue certezze. Può vantare una profonda sintonia con una parte significativa dei cosiddetti poteri forti: precisamente quella parte che ha sempre lavorato per far saltare il blocco sociale costruito da De Gasperi intorno alla DC e porre fine ad ogni presenza organizzata dei cristiani in Italia.

       Tale sintonia nasce dal comune orizzonte politico culturale incentrato sull’esaurimento dell’esperienza democristiana in Italia e sulla sua inappellabile condanna morale; dalla comune esecrazione del sistema politico partitico; da indubbie assonanze tecnocratiche e manageriali che trovano, probabilmente, la loro origine nella impostazione keinesiana, d’interventismo economico, già del primo dossettismo; da sintonie di interpretazione ideologica, storica e culturale con lo stesso Azionismo, il cui peso e la cui influenza è, da sempre, assolutamente determinante presso i cosiddetti “poteri forti”.

       Il dossettismo si trova, infine e nello stesso tempo, in concordanza con le velleità rivoluzionarie di tipo “giacobino” dei Comunisti Italiani e di Rifondazione per la sua forte connotazione ideologica pauperista e, larvatamente, antioccidentale. Tutto ciò ha consentito al neodossettismo di Prodi di assumere la guida di una coalizione che si estende a tutta la sinistra, componendo, apparentemente, le contraddizioni più insanabili. Ciò non significa tuttavia che tali contraddizioni non vi siano e non restino esplosive. Fortemente esplosive, soprattutto in considerazione del fatto che non vi sono solo, e sono già comunque molte, le contraddizioni di interessi e politico-culturali ma vi sono anche contraddizioni che attengono direttamente al dibattito religioso, all’etica ed al diritto naturale.

         Anche se Dossetti nel ‘93, pochi anni prima di morire, ha ribadito con forza che “La cristianità è finita. E, non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo ad ogni costo darci da fare per salvare qualche rottame della cristianità” aprendo, nella sostanza, la porta ad ogni accomodamento con le tesi più radicali anche nel campo etico e dei valori, resta comunque il fatto che l’intera sinistra è, ormai egemonizzata dal pensiero del “relativismo etico” cioè da un pensiero che attacca frontalmente non solo la Chiesa ma anche i principi ed i valori più essenziali ed irrinunciabili del diritto naturale.

       Su questo fronte la partita resta tutta da giocare.
       Neppure per il dossettismo, malgrado la sua genetica spregiudicatezza quasi leninista, si preannuncia una partita facile.


Pier Paolo Saleri

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