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  Sussidiarietà fiscale e nuovi diritti

Data di pubblicazione: Venerdì, 1 Dicembre 2006

TRAGUARDI SOCIALI / n.23 Novembre / Dicembre 2006 :: Sussidiarietà fiscale e nuovi diritti

Una riflessione del Prof. Luca Antonini
Vice Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà


SUSSIDIARIETA' FISCALE E NUOVI DIRITTI


Luca Antonini (*)


       “Taking right seriously”: “I diritti presi sul serio”. E’ stato il titolo di un fondamentale volume di Dworkig. Parafrasando quel celebre titolo, si può sostenere che solo quando si arriva alla sussidiarietà fiscale, la sussidiarietà è veramente presa sul serio; e solo allora essa si pone davvero come una frontiera della democrazia. La sussidiarietà, infatti, consente di rivisitare quella forma di governance dove il monopolio statale sulla decisione di spesa sui servizi sociali ha spesso favorito gli interessi dei fornitori anziché quelli dei destinatari. E’ innegabile, infatti, che una rendita di posizione ha protetto i fornitori dei servizi dalla concorrenza, che hanno spesso utilizzato l’apparato a loro vantaggio, mentre i destinatari del servizio non hanno avuto alcuna voce in capitolo. Il cittadino, infatti, si è visto restituire in termini di servizio quello che aveva pagato con l’imposizione fiscale, diminuito però del costo burocratico della gestione di questo transfer. Il servizio pubblico è stato erogato in una situazione di sostanziale monopolio; ha quindi facilmente risentito anche di uno scadimento qualitativo, ma l’opzione per un servizio “privato” diverso da quello offerto dall’ente pubblico (eventualmente ritenuto inefficiente), ha dovuto essere pagata (da chi ne aveva la facoltà) con risorse ulteriori rispetto a quelle già prelevate dall’imposizione fiscale. Questo assetto poteva ancora risultare tollerabile quando il sistema riusciva comunque a garantire protezione sociale. Oggi, di fronte alle nuove, forti esigenze di ridimensionamento della spesa pubblica, quello che allora poteva apparire fisiologico diventa patologico e apre alla necessità di un superamento in nome di una nuova considerazione della sovranità personale del cittadino.

       Da questo punto di vista, la sussidiarietà fiscale, strutturando una forma alternativa di concorso alle spese pubbliche, costituisce un correttivo del modello tradizionale “burocratico impositivo” nato sotto l’ombrello dello Stato nazione. In base ad essa è possibile riconsiderare la questione della democrazia fiscale senza esaurirla nella possibilità di eleggere i parlamentari, ma rivalutando la possibilità che, almeno in parte, il cittadino possa tornare ad essere direttamente “padrone” dell’imposta.

       Le applicazioni della sussidiarietà fiscale possono essere molteplici. Ad esempio, il diritto alla libertà di scelta riguardo alla destinazione di una quota delle proprie imposte ad agenti Non Profit che svolgono servizi sociali meritori potrebbe rivalutare una possibilità di selezione della spesa sociale efficiente strutturata su un diretto esercizio della sovranità popolare da parte del contribuente, riducendo la mediazione del principio rappresentativo tradizionale.

       Si tratta di un’evoluzione auspicabile sotto diversi punti di vista. L’elettore mediano, quello che fa da ago nella bilancia dei risultati elettorali, è ormai consapevole che il beneficio marginale della spesa pubblica è diventato inferiore al sacrificio marginale dell’imposta. Il principio di sussidiarietà, in quest’ottica permette il superamento del sostanziale monopolio statale nell’erogazione dei servizi sociali, i suoi costi, le sue inefficienze che spesso hanno spesso reso più nominali che sostanziali le garanzie universalistiche dei diritti sociali. In questo contesto il Terzo settore, a condizione di adeguare, modernizzandola, la relativa disciplina normativa, si presenta come il nuovo possibile fulcro dell’erogazione delle prestazioni aventi valore sociale: l’origine ideale delle ONP le qualifica, infatti, come soggetti privati attenti ai bisogni delle fasce più deboli.

       La legge sul cd. Più dai, meno versi, il nuovo 5 % per mille a favore del Non Profit, la riformulazione dell’art.118 del testo della riforma costituzionale vanno in questa direzione, favorendo che una parte del controllo sulla spesa pubblica esca dal tradizionale circuito della rappresentanza politica per essere assegnato al contribuente, riconoscendogli una diretta libertà di selezione riguardo ai servizi meritori da finanziare e a quelli invece inefficaci da “tagliare” dal basso.

         “Tacking subsidiarity seriously” si può quindi arrivare a configurare un nuovo catalogo di diritti sociali, diretto a rimediare e a rispondere ai paradossi/“fallimenti” del modello di Welfare State:
1) il diritto all’esenzione fiscale del familienexistenzminimum ;
2) il diritto alla completa esenzione fiscale delle spese che attengono ai bisogni primari dell’esistenza;
3) il diritto alla diretta destinazione di una parte delle imposta;
4) il diritto alla libertà di scelta tra servizio pubblico e servizio privato;
5) il diritto ad un “quasi mercato” dove agenti pubblici e privati non profit possano concorrere in condizione di parità, sotto il controllo pubblico sulle prestazioni erogate.

       Si tratta di un’ipotesi che ovviamente deve essere attentamente sviluppata. Essa non vuole indicare la via di una sostituzione ai tradizionali “diritti sociali”, bensì una loro possibile integrazione e rimodulazione. Da questo punto di vista, la proposta si pone come una traccia che appare utile al tentativo di “democratizzare la democrazia”, tenendo conto delle sfide aperte dalla crisi di legittimazione democratica delle istituzioni portanti su cui era stato costruito il progetto dello Stato nazione.

       Ben poco di questa logica si ritrova invece nella legge finanziaria per il 2007, che ha una portata per entità paragonabile a quella del 1992 (che si era resa necessaria a seguito della crisi valutaria della Lira) o a quella del 1997 (che permise l’avvio di quel processo di risanamento dei conti pubblici che preludeva alla moneta unica), ma alla quale sembra mancare quindi un grande obiettivo a fronte della misura del sacrificio che impone. Secondo alcune stime, infatti, per poco più di un terzo l’attuale finanziaria è giustificata dall’esigenza di sistemare i saldi da garantire a Bruxelles, mentre più della metà della manovra sembra destinata a finanziare una nuova generazione di strumenti centrali d’intervento pubblico, prefigurati ma ancora poco definiti nelle modalità di funzionamento, ma che comunque lasciano spesso trasparire una concezione dirigista. Ne è l’emblema l’istituzione dell’Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, che nell’ossimoro (davvero evidente!) della sua denominazione in realtà prelude ad un disegno dove si intendono restaurare i vecchi provveditorati nella forma degli uffici scolastici provinciali e ridurre le competenze delle direzioni regionali.

       Se fanno eccezione alcune poche misure, come il credito di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo, si tratta di una finanziaria che può essere definita ostile alla sussidiarietà, sia orizzontale che verticale. Il basso tasso di federalismo è dimostrato dal proliferare dei fondi ministeriali: la finanziaria introduce 30 nuovi fondi, contro i 20 della finanziaria precedente. Tra questi alcuni, come il “fondo per l’inserimento sociale degli immigrati”, il “fondo per la promozione e lo sviluppo delle fiere agroenergetiche”, il “fondo per lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile in agricoltura”, etc., ricadono in materie di competenza regionale, nonostante la Corte costituzionale abbia a chiare lettere indicato, fin dalla sentenza n. 320 del 2004 sul fondo per gli asili nido, il divieto che “in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati”. In questo quadro suscitano perplessità anche i nuovi strumenti assegnati alla finanza locale, tra cui l’imposta di soggiorno e quella di scopo: innestati su un vestito vecchio, il dl.lgs. n. 56 del 2000 e nel contesto di ulteriore ritorno di fiamma della finanza da trasferimento, essi da un lato non contribuiscono alla realizzazione di quella maggiore trasparenza ed efficacia che potrebbe essere garantita dal federalismo fiscale e dall’altro, essendo regressivi, non appaiono nemmeno coerenti con l’intenzione di perseguire una maggiore giustizia distributiva.

       Significativa, riguardo alla sussidiarietà orizzontale, è poi l’incerta sorte del 5 per mille: questa è stata una misura emblematica di una nuova filosofia di intervento sociale, perché si sviluppa sulla libera scelta del cittadino che, reso “padrone” di una parte dell’imposta, può distribuirla direttamente per finalità sociali saltando il calderone delle clientele politiche. L’utente del servizio ha avuto voce in capitolo e, dal basso, ha potuto premiare i servizi efficienti e tagliare quelli inefficienti, rovesciando l’impostazione dirigistica dei “fondi”, nella quale si è sempre alimentata la rendita di fornitori, burocrati, sindacati. Non è un caso che le prime stime evidenziano che oltre il 60 % dei contribuenti abbia aderito al 5 per mille, superando nettamente le stime di un’adesione pari a quella dell’8 per mille (41%) e surclassando altre iniziative analoghe tentate in passato (come il 4 per mille per il finanziamento dei partiti, che ottenne un’adesione bassissima). Aderire al 5 per mille ha voluto dire “votare” un certo ente, indicandone in dichiarazione il codice fiscale: una misura quindi di democrazia e trasparenza fiscale, che ha ridato lo spending power in mano al cittadino. Il successo del 5 per mille, pur al suo primo anno di vita, dimostra che gli italiani accettano i sacrifici, purché possano decidere a chi vanno i loro soldi; diffidano, invece, giustamente dei “fondi”. Sarebbe quindi senz’altro utile reintrodurre quella misura, magari creando vari 5 per mille dedicati ognuno ad un comparto specifico: ricerca sanitaria, università, Non Profit; evitando così di mettere in competizione settori eterogenei. Infine, piuttosto inquietante è l’eccessivo tasso di fiscalismo – sicuramente contrario alla sussidiarietà - che traspare dalla recente circolare n. 32 dell’Agenzia delle Entrate, pullulante di misure “poliziesche” di vario genere. Certo forse questo non preoccupa quei grandi imprenditori che trovano saggio di giorno predicare contro l’evasione fiscale, mentre “di notte” lasciano i loro redditi al riparo di società di diritto lussemburghese (si veda p. 2 di Finanza & Mercati del 2.11.06). Ma agli italiani “normali” qualche problema si pone.


(*) Vice Presidente della Fondazione per la sussidiarietà
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