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  La fedeltà all’identità cristiana in tempi di confusione ideologica

Data di pubblicazione: Giovedì, 22 Dicembre 2022

TRAGUARDI SOCIALI / n.109 Dicembre 2022 :: La fedeltà all’identità cristiana in tempi di confusione ideologica

Memorie del nostro sottosuolo

Mi è parso immediatamente stimolante ed emblematico sotto vari profili proporre una riflessione sulle nostre origini e senso di appartenenza partendo dal riecheggiare un classico della letteratura russa, tra i quali motivi di fondo spicca anzitutto una dura critica agli ideali del positivismo scientista, cultura all’epoca imperante, per la sua sottovalutazione dell’individuo e del senso del divino.
Dostoevskij, pur nella sua irreligiosità, va poi a sottolineare pure l’irrazionalità della guerra, includendo tra gli esempi tipici di ciò anzitutto la rivoluzione americana e quindi le campagne napoleoniche, demonizzando in un certo senso proprio i pilastri di un liberalismo politico che nel mondo occidentale si era ormai imposto.
Ebbene pure noi siamo nati per il meditato rifiuto ad appiattirsi (come fatto nell’immediato post-Sessantotto dalla cultura dominante con sfaccettature diverse in Europa occidentale e in America settentrionale) su derive materialistiche tra loro molto confuse e spesso contrastanti, ma accomunate ancora una volta a distanza di un secolo dalla sottovalutazione della persona umana e del senso del divino radicato, in un modo o nell’altro nei nostri cuori e nelle nostre menti.
In questo rifiuto per un certo lasso di tempo siamo rimasti soli, rari nantes in gurgite vasto, perché nello stesso variegato mondo cattolico le risposte all’epoca erano state diverse sotto ogni profilo.
Semplificando al massimo c’era stato chi è pervenuto ad aderire Teologia della Liberazione (che poco ha di realmente cattolico e di davvero liberante a 360°, ma è una manipolazione di un ideale di fratellanza che o passa per le coscienze o non è da Dio ), chi sul piano culturale ha percorso vie sincretistiche con le varie versioni di un marxismo alla disperata ricerca di un volto umano oppure talvolta di un liberism , cercando di fargli comprendere che la mano invisibile che tutto osserva e guida è la Provvidenza con la P maiuscola (che la c’è, come scrisse Manzoni in “ quel bel romanzetto ove si parla di promessi sposi”).
Tempi duri quelli di mezzo secolo fa per chi, comunque, non si arrendeva a tale opposto anelito di conformismo, che si profilava soprattutto per i cattolici impegnati nel politico e nel sociale.
Dal primo punto di vista anzitutto fu messa in dubbio l’unità partitica data dall’identificazione del mondo cattolico con quello democristiano (fin dai primi anni postbellici con Rodano ed Ossicini, cui poi per certi versi si appropinquerà pure Dossetti ), poi complice il sistema delle “correnti” - ahimè più di interessi che di pensiero come sarebbe stato opportuno - proponendo diverse vie e risposte alle domande di cambiamento, essendo mancata sostanzialmente la formulazione di una teoria della “democrazia cristiana” preconizzata da Leone XIII sulla scia della Rerum Novarum e delle precedenti e seguenti riflessioni/intuizioni di Toniolo.
Dal punto di vista della presenza nel sociale data per loro dalle ACLI e dalla CISL, la situazione si presentava assai più difficile e complessa, anche per gli allora aperti legami con la Chiesa.
L’auspicata e sbandierata unità sindacale sembrava poter portare le lancette della storia italiana ai primissimi anni della Repubblica (ma recuperando la lezione togliattiana la CGIL ed invece soprassedendo la CISL all’intuizione coraggiosa di Pastore), mentre continuavano a crescere nelle ACLI nocchieri che si facevano abbacinare dal canto delle sirene sbandieranti la possibilità di realizzare insieme vie per un comunismo dal volto umano, ora richiamandosi alla teologia della liberazione, ora a maitres a penser in voga, da Sartre e Lukas a Marcuse e Popper proposti come estreme guide di una new society soprattutto oltreatlantico, mentre in un’Europa ancora divisa dal muro di Berlino si moriva a Praga schiacciati dai carri armati sovietici e ci si scontrava nelle piazze non appena il Sessantotto, variegatissimo di per sé per ispirazioni, motivi e finalità, imboccherà con le sue frange più deliranti ed estremizzate la via del terrorismo. All’epoca poco più che ventenne, ricco di un’esperienza maturata da liceale a Livorno nel Movimento Studenti (affidato ad un gesuita dal Vescovo Mons. Guano assai vicino a Paolo VI), nell’Università della natia Pisa forte del bagaglio così acquisito non ebbi grandi difficoltà ad avvertire per prima la necessità di dare un minimo di contributo a livello politico ad un ideale che fosse anzitutto antitotalitario - e quindi inevitabilmente soprattutto anticomunista - e di per sé popolare, ispirato ad ideali interclassisti, autenticamente democratici e socialmente volti al solidarismo. Insieme ad un caro amico figlio dell’allora Segretario Provinciale della D.C. di Pisa, all’indomani del fallimento dell’esperienza cecoslovacca per un comunismo davvero democratico, fondai a Calci il circolo politico culturale Kennedy e ciò l’anno dopo fu la catapulta per essere eletto a furor di popolo consigliere comunale, terzo nelle preferenze per la DC, dopo il capogruppo uscente ed un medico assai noto. Era il 1970 e ciò fu per me una sorta di trampolino di lancio anche a livello provinciale, dove contribuì alla fondazione del Centro Culturale De Gasperi, che nel suo piccolo è stato una fucina di iniziative e vere amicizie .Cinque anni dopo fui rieletto, nonostante fossi tornato a vivere a Livorno, dopo la laurea e il servizio militare.
A due passi da casa c’era un circolo ACLI ed una sera mi capitò di rendermi conto di persona delle sue divisioni e del fatto che alla loro radice fosse il proporre una diversa concezione del modo di intendere il ruolo delle stesse ed i suoi rapporti con la politica, il mondo sindacale e con la Chiesa, da cristiani “aperti e maturi”, ovvero come a dire che gli oppositori a tale linea erano chiusi ed acerbi e che si prospettava la volontà di rompere gli storici rapporti con la DC e con la CISL e di infornare quanti, all’estrema sinistra, volevano rompere con l’egemonia del PCI e della CGIL, anche per loro da considerarsi cinghia di trasmissione del partito, scontenti di una sua involuzione in senso democratico che la nuova segreteria politica di Berlinguer portava avanti, come nella Spagna postfranchista faceva Santiago Carrillo , aprendo la stagione dell’Eurocomunismo.
Ciò mi spinse a dare una mano a quanti a Pisa avevano fondato il Mo.CLI nella pia convinzione che un successo dell’iniziativa potesse portare o ad un rivolgimento interno delle ACLI o ad una sua forte riduzione di iscritti e di peso nel mondo politico, sindacale ed ecclesiale.
Fui invitato da Roberto Di Paco (che ora giace per sempre in Inghilterra) a venire a Roma per una iniziativa politico-culturale del MoCLI e ciò fu l’inizio di un innamoramento per quanto appena costruito da Borrini con il supporto di Burberi, Celi, Di Mambro, Facondini , Figorilli, Leonetti, Olini, Penza, Valli e di un gruppetto di giovani rampanti tutti destinati ad assumere un ruolo primario nel nostro Movimento.
Solo l’espletamento del servizio militare mi ha impedito di vivere in prima persona l’esperienza del Congresso di Unificazione tra Feder.acli e Mo.cli dell’8 dicembre 1972. Un matrimonio ben riuscito perché le differenze tra queste due analoghe iniziative, guardando coll’inevitabile distacco che la distanza temporale consente, poggiavano essenzialmente sul diverso tipo di coagulo personale che i rispettivi fondatori erano riusciti a realizzare, più popolare il secondo e più legato a personalità di spicco il primo: oltre a Giovanni Bersani, non si può non ricordare Armando Sabatini, la cui legge ancora viene citata col suo nome a tanti anni di distanza, Michelangelo Dall’Armellina e soprattutto Vittoria Rubbi, il cui carteggio con Paolo VI avrei voluto far pubblicare vent’anni fa, venendone sconsigliato per non riaprire vecchie ferite, che almeno oggi sono ampiamente rimarginate e una cui rilettura potrebbe essere utile non per rivendicare un aver avuto ragione, bensì per ricostruire fatti, linee e forse anche prospettive.
Da quel connubio, prima esperienza di un movimento ecclesiale nato per iniziativa propria nel rispetto del nuovo Codice di Diritto Canonico, inserendo una nota personale che ormai sa solo chi ha una lunga militanza nel MCL, nacque di lì a poco quello mio con una grintosa ed attivissima esponente della realtà piacentina incontrata al primo Congresso Giovani tenuto a Bologna nel 1975, poi a Senigallia e sposata a fine 1977, tuttora mio amore ed al contempo stimolo e sfida all’azione ed al pensiero.
Tornando al discorso delle origini rivendicammo da subito un ruolo profetico, che abbiamo assolto indubbiamente guardando ai fatti.
C’è semmai un rimpianto che è comunque un anelito persistente, quello di esserci talvolta limitati a dire “l’avevamo detto” senza spesso ricordare con l’orgoglio che ciò merita quanto abbiamo potuto realizzare nel segno di un popolarismo europeo più attento al solidarismo (donde la nostra adesione ad EZA) e democrazia economica, nonché tramite il CEFA per iniziative concrete di sviluppo in Africa e America Latina.
Nulla sarà di pari soddisfazione per tutti noi come la definizione di diretti eredi del cristianesimo sociale nato dalla Rerum Novarum che ci è venuta da San Giovanni Paolo II in occasione del nostro ventennale e vederla ora ribadita in tempi che possono sembrare tanto difficili, perché guardare agli inciampi e ostacoli interni ed esterni dei primissimi Anni Settanta dà la convinzione che, ancora una volta, chi opera per valori spesso mal incarnati nel corso della storia come pace, giustizia, fratellanza, solidarietà, libertà e democrazia, può trovare nel MCL un’originale forma di loro amalgama capace a legare tali ideali (e quelli nuovi scaturenti dai complessi processi di globalizzazione ancora irrisolti) col collante della Dottrina sociale, scaturita sì nel seno della Chiesa, ma patrimonio culturale e stimolo all’azione per tutti gli uomini di buona volontà.
Che il nostro originario e autentico spirito di pionieri che esploravano vie nuove per pace mondiale, giustizia sociale e libertà vera continui con sempre maggior convinzione, forza e capacità attrattiva specie per le nuove generazioni del terzo millennio alle quali nessuno ricorda che per costruire nuovi edifici servono sempre solide fondamenta.

Vittorio Benedetti
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