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  Tre domande a Branislav Canak

Data di pubblicazione: Martedì, 3 Maggio 2005

TRAGUARDI SOCIALI / n.15 Marzo / Aprile 2005 :: Tre domande a Branislav Canak

Presidente del sindacato serbo Nezavishost


TRE DOMANDE A BRANISLAV CANAK PRESIDENTE DEL SINDACATO SERBO NEZAVISHOST


       La Serbia del dopo-Milosevic è un Paese che vive una profonda crisi politica, economica e di legittimità. La criminalità la fa da padrona, mentre i tassi di disoccupazione sono spaventosi: il Governo parla del 14 %, includendo fra gli ‘occupati’ anche coloro che lavorano solo un’ora al giorno. Le organizzazioni sindacali denunciano un tasso di disoccupazione intorno al 36-38%. Branislav Canak, Presidente dell’Agenzia nazionale per il lavoro, spiega che la situazione è talmente grave che l’85% del budget dell’Agenzia è impiegato per politiche di sussistenza e solo il 15 % è destinato a incrementare l’occupazione.

Nella Serbia di oggi, esiste un mercato del lavoro? E di che tipo?

       Da noi c’è un sistema ‘misto’, eredità di due regimi diversi: il primo è quello socialista (con mezzi di produzione sostanzialmente in mano allo Stato), l’altro è dato dalla privatizzazione condotta da Milosevic in quattro tappe, delle quali le ultime tre sono servite a finanziare la guerra, mentre solo la prima, dell’81, ha tenuto in qualche considerazione i diritti dei lavoratori che avevano la possibilità di acquistare quote delle aziende privatizzate. Nelle altre tappe invece, nel ‘93 e ‘97, i beni sono stati svenduti solo per far cassa, senza preoccuparsi né di chi comprava (poteva essere chiunque, dallo straniero al criminale), né di porre garanzie per i lavoratori. Così è avvenuto per esempio che una fabbrica tessile, acquistata da due imprenditori, è stata trasformata in un night club e ben 400 persone hanno perso il lavoro. Chiaramente da un punto di vista legale operazioni di questo tipo sono legittime, ma quando un Paese è nel caos, il rischio è che il sistema giuridico sia inquinato da corruzione e crimine. Il problema sta tutto qui: l’ordinamento giuridico non ‘tiene’.

Territorialmente la Serbia è inserita in un gigante economico come l’Europa, che esce ancor più rafforzata dal recente allargamento. Qual è il vostro rapporto con l’Ue?

       Personalmente non ho alcun problema nei confronti dell’Europa, ma sono un’eccezione: la gente vede Bruxelles come chi ti dà i ‘compiti a casa’ per poter ricevere in cambio qualcosa. La prospettiva è assolutamente sbagliata: rispettare i diritti umani, creare uno Stato di diritto e via dicendo, son cose che vanno fatte per acquisire una cultura democratica, non perché le vuole l’Ue. La Serbia non ha alternative: la globalizzazione, il modo di muoversi dell’economia, ci impongono di entrare in Ue, diversamente non c’è possibilità di sopravvivere. Per questo sarebbe stupido rimandare a oltranza nel tentativo di fare da soli. E’ come quando devi prendere un treno: sai che passa a quell’ora e che se lo perdi avrai dei costi aggiuntivi, semplicemente perché quelle sono le regole. Noi sappiamo quali sono le regole per entrare in Ue e prima ci adeguiamo meglio è.

E’ corretto dire che la cosa essenziale è far partire ‘dal basso’ un processo di democratizzazione del tessuto sociale, e che la crisi economica, l’incertezza del diritto ecc., sono solo una conseguenza di questo percorso che è ancora in fase embrionale?

       Sì, senz’altro, ma aggiungo una cosa che ritengo importante: la classe politica attuale, se non è proprio la stessa di quella comunista, ne è comunque diretta filiazione, e come tale continua a ragionare: pur se si sforza di rispettare formalmente un qualche meccanismo democratico, in realtà non è democratica, non considera le istanze che vengono dalla società civile. Noi stiamo cercando di lavorare per far crescere questa società civile, per sviluppare reti di comunicazione fra piccoli movimenti e fra questi e i partiti, ma è un cammino fra mille difficoltà.

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