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  Le bellissima storia di Federica Molteni con i poveri della Tanzania

Data di pubblicazione: Mercoledì, 4 Maggio 2005

TRAGUARDI SOCIALI / n.15 Marzo / Aprile 2005 :: Le bellissima storia di Federica Molteni con i poveri della Tanzania

Visita ad una delle tante sedi operative del Cefa in Africa


Visita ad una delle tante sedi operative del Cefa in Africa


LE BELLISSIMA STORIA DI FEDERICA MOLTENI CON I POVERI DELLA TANZANIA


       In poco meno di due settimane ho assaggiato un pezzo di bella Africa. E di bellissima Italia. Sono stato in Tanzania, terra di foreste lussureggianti e di splendidi parchi naturali. Ma niente turismo. Ero lì per conoscere più da vicino il popolo tanzaniano, e scoprire dal vivo il lavoro dei volontari del Cefa. E’ stata un’esperienza indimenticabile, che provo a raccontare in poche righe. Anzitutto i tanzaniani, gente allegra, simpatica, cordiale. La parola che pronunciano di più è ‘karibu’, che non è il nome di un animale, ma significa ‘benvenuto’. L’uso di questa parola è talmente diffuso, da sembrare un intercalare. Invece è il loro modo di mostrare accoglienza. Durante il mio viaggio l’ho ascoltata centinaia di volte.

       I tanzaniani sono un popolo   semplice e pacifico, meno di quaranta milioni di abitanti su un territorio che è tre volte più grande dell’Italia. E’ gente piena di dignità, ma anche molto povera. Vive di agricoltura di sussistenza, utile appena a sfamare la popolazione. Ma manca di tutto il resto. Non c’è produzione industriale degna di questo nome, i commerci sono in mano agli indiani e agli arabi.

       Nell’immensa Dar es Salam, la capitale, il Cefa ha la sua centrale operativa guidata dall’ottimo Gigi Tamburi, splendido coordinatore tuttofare, nonché ‘albergatore’, guida e prezioso consigliere per chiunque metta piede da queste parti e
non voglia brutte sorprese. Il Cefa di Dar è una sorta di cancello d’ingresso in Tanzania per gli occidentali e soprattutto gli europei. Da Gigi passano missionari, volontari, turisti e giornalisti di tutte le nazionalità. Qui al Cefa si respira un’aria internazionale. A Gigi fanno capo le spedizioni dei container con le scorte, i doni e i materiali che dall’Italia vengono spediti quaggiù. Il giorno del nostro passaggio a Dar ci sono due container appena sdoganati, dopo oltre 6 mesi di attesa al porto. Dentro ci sono turbine, quaderni e colori, attrezzi per falegnameria e molto altro ancora da distribuire nelle varie sedi.

       Se in città si sta ‘discretamente’, nelle campagne e nei villaggi la situazione è ben più difficile: la maggior parte della popolazione, specie nel sud del Paese, non ha corrente elettrica né acqua potabile, e questo la dice lunga su tutto il resto.

       In tanti dal mondo occidentale, a partire dal Cefa e da altre ong italiane, si danno da fare per aiutare questa popolazione a camminare con i suoi piedi, a ottenere condizioni di vita meno faticose e penalizzanti. Ma la strada da fare resta tanta. A proposito di strada: in Tanzania ne esiste solo una asfaltata, ed è la statale che conduce dalla capitale fino all’estremo sud del Paese o all’estremo nord. Tutto il resto dei collegamenti è fatto di strade sterrate, piene di voragini, spesso colme d’acqua. Per fare poche decine di km a volte occorrono anche molte ore. E si corrono molti pericoli. In queste strade viaggiano solo camion, pullman sgangherati, pulmini indisciplinati e pochissime auto, quasi tutte appartenenti a persone di organismi internazionali. Per il resto, si cammina a piedi. Per strada si incontrano migliaia di viaggiatori a piedi. E’ un’immagine che colpisce chi, come noi, è abituato alle nostre città e alle autostrade intasate dalle auto.

      Nel mio viaggio, in compagnia di Patrizia Farolini e Marco Benassi, rispettivamente presidente e direttore del Cefa, ho conosciuto anche un pezzo di splendida Italia. In questa sede vorrei raccontare la storia bella e commovente di Federica Molteni, una 31/enne vicentina, minuta e discreta, che parla a bassa voce, che ama i libri, e vive da sola nello sperdutissimo e poverissimo villaggio di Ikondo, situato sull’altipiano più a sud della Tanzania.

       Federica vive a Ikondo da circa un anno, parla benissimo la lingua locale (kiswahili), è praticamente diventata una del posto, popolarissima e amata. Per la sua dedizione ai loro problemi, i 4000 Ikondesi la chiamano sorella, non pensando ad una suora, bensì ad una di famiglia, ad una di loro, ad una come loro. Quanto alle suore, quelle vere, qui non ce ne sono, e nemmeno preti. C’è solo una catechista a prendersi cura delle anime di questo villaggio che la leggenda vuole fondato dagli stregoni scacciati dai villaggi del sud della Tanzania. Ikondo è troppo lontano dal mondo, perfino per i preti.

       In questo lembo di Tanzania il Cefa è tutto, e Federica è solo l’ultimo anello di una catena di opere che la ong bolognese porta avanti da anni con l’aiuto di molti volontari e con i soldi di donatori privati, del governo italiano, della Ue. Obbiettivo del Cefa è quello di mettere in piedi delle strutture socio-economiche, avviarle e poi lasciarle in gestione alle persone del posto. E’ una politica che punta a diminuire la dipendenza di questo popolo dagli aiuti altrui. E a creare autonomia in questa popolazione che ha grandi potenzialità, ma che per mettersi in moto ha bisogno di una spinta.

       A Ikondo ci si arriva per una mulattiera dissestata, attraverso boschi e dirupi. Qui la strada finisce. AIkondo non ci si passa, si viene apposta. Ma non c'è nessun motivo per venirci, non c'è nulla di nulla. Siamo a quasi 2.000 metri di altitudine, mancano elettricità e acqua potabile, tv e frigoriferi. Le case sono quasi tutte di fango secco, i tetti di canne. I bagni non esistono. Niente medici, auto, moto. Se piove, si nuota nel fango. I bimbi sono scalzi, vestono maglie logore. L'acqua per bere e lavarsi viene presa dal fiume con i secchi, ogni giorno.

       Dicevamo che in Tanzania c’è un’agricoltura di sussistenza, mai parole furono più appropriate: il cibo non manca infatti, ma si produce solo per l'oggi, e non per il domani, perchè non c'è modo di conservare i cibi deperibili. I bambini bevono il latte munto da mucche ignote ai veterinari.

       Da tempo in questo luogo disgraziato è in atto un miracolo italiano. Il Cefa ha costruito scuole e asili, una specie di infermeria, sta completando l’acquedotto e una piccola centrale elettrica, ha creato un campo di ananas, una falegnameria. Un'altra vita è possibile, gli ikondesi non sono soli con la loro povertà. Hanno fiducia in se stessi, e dato fiducia ai volontari del Cefa. Ma ora i soldi sono finiti, Ue e Italia hanno bocciato le richieste di altri contributi per andare avanti. E tutte le opere avviate quindi rischiano di fermarsi o addirittura di morire.

       Federica qui è l'unica con la pelle bianca, ed è un riferimento per la popolazione: ha l'unica jeep del villaggio, usata anche per scarrozzare malati e venditori di ananas fino a Njombe, e il trattore che risparmia alle donne le durissime incombenze dei campi. Federica dirige i lavori degli operai per acquedotto e centrale elettrica, e fino a poco tempo fa concedeva anche piccoli prestiti sempre regolarmente restituiti, roba da 20 o 30 dollari, che qui sono un'enormità.

       Federica è anche il primo e unico datore di lavoro che la storia di Ikondo conosca: da lei dipendono 2 guardiani, 2 contadini, 12 maestre, 2 falegnami, un autista. Sempre Federica gestisce scuola e asili: grazie all'adozione a distanza, i bimbi hanno una maestra e un tetto sulla testa, così che quando piove sono al riparo, invece di bagnarsi in capanne spesso senza tetto. Polmoniti risparmiate.

       Da qualche tempo l'idea di avere acqua in casa e lampadine accese sta frastornando di felicità gli ikondesi che, forse per la prima volta, provano a immaginare un futuro. Qui è esplosa la voglia di vivere, c'è perfino un campetto di calcio, dove i ragazzi rincorrono la palla a petto nudo e scalzi. Maglie e scarpette sono un lusso. Mi chiedo dove abbiano conosciuto il calcio: qui non ci sono campionati, né tv per vedere le partite !

       Ma i soldi sono finiti, il Cefa ora conta solo sulle sottoscrizioni estemporanee, occasionali collette fra amici, contributi di un comune generoso. Poca cosa, senza continuità. Un motivo in più per continuare ad aiutare il Cefa e i suoi volontari. Sono soldi ben spesi. Sono soldi che si tramutano in gesti di amicizia, che costruiscono futuro. Aiutiamo Federica a restare a Ikondo. A continuare il suo impegno quotidiano per queste persone, insieme con queste persone.

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