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  Natale Forlani: riflettere e guardare bene i numeri per capire

Data di pubblicazione: Mercoledì, 4 Maggio 2005

TRAGUARDI SOCIALI / n.15 Marzo / Aprile 2005 :: Natale Forlani: riflettere e guardare bene i numeri per capire

Il sistema di welfare che ci aspetta.Un tema da affrontare senza pregiudizi


Natale Forlani: riflettere e guardare bene i numeri per capire


IL SISTEMA DI WELFARE CHE CI ASPETTA
UN TEMA DA AFFRONTARE SENZA PREGIUDIZI


       Con un passato di segretario confederale della Cisl, un presente da Amministratore delegato di Italia Lavoro e un fururo pieno di prospettive al servizio del Paese, Natale Forlani è una delle voci più autorevoli sui problemi del lavoro e del welfare.

       Con lui vogliamo approfondire alcune questioni che saranno il centro dell’agenda politica dei prossimi mesi.


Rivedere lo Stato sociale è ineludibile: probabilmente è il solo modo per preservare le nostre conquiste a beneficio delle future generazioni, per i giovani (giovani che devono fronteggiare simultaneamente le sfide della concorrenza internazionale e quelle dell’invecchiamento demografico). Serve un nuovo patto generazionale? Su quali basi?

       Lo scenario dei prossimi anni, diciamo tra il 2005 e il 2010, prevede in Italia un crollo della popolazione residente attiva (cioè di quella in età da lavoro) di circa 4 mln. e mezzo di unità; a fronte di ciò prevediamo che circa 3 mln. e 1/2 di persone entreranno in età pensionabile: questo significa che appena metà delle risorse necessarie a costituire un quadro sufficiente dei livelli di assistenza (costi sanitari e pensionistici, per esemplificare) verranno dai giovani. E’ quindi giocoforza che i costi sociali - ossia le spese per l’assistenza sanitaria, la ricerca, le strutture destinate alla popolazione non più attiva -, saranno costi sempre più elevati, che ricadranno sulle nuove generazioni. Ecco perché ritengo che per poter ricostituire un circuito virtuoso una delle priorità sia riprendere a far figli: potremo così compensare i maggiori oneri previdenziali futuri con l’introduzione di nuove forze lavoro. D’altro canto è essenziale studiare meccanismi idonei a ritardare l’uscita dal mercato del lavoro delle fasce produttive, e ripensare l’intero sistema del welfare state.

       Per esempio, oggi si parla tanto di abolizione dei ticket sanitari, cosa che ritengo essere una vera follia: difatti ciò comporterebbe la necessità di compensare i maggiori costi della spesa sanitaria con un incremento dei livelli di prevenzione (e quindi con un conseguente ulteriore aumento della spesa pubblica); senza dire poi che si finirebbe con l’avallare una linea di scarsa responsabilizzazione dei cittadini. Eppure praticamente tutte le ultime campagne elettorali regionali sono state fatte promettendo proprio l’abolizione dei ticket… nessuno si è sognato di promettere interventi in favore della 4^ età! Certo, qualcosa è stato fatto con il disegno di riforma delle pensioni, ma rimane che le misure finora attuate sono servite solo a porre rimedio all’emergenza finanziaria, senza incidere sufficientemente né in modo strutturale sul problema: sono state riforme-tampone, per così dire, che non hanno avuto di base una vera progettualità per quanto riguarda la ripresa della natalità, un reale sviluppo della previdenza integrativa, un buon livello di assistenza alla 4^ età. Ecco, vorrei che in Italia si iniziasse una seria progettualità su questi fronti, perché non basta dire “diamo 1.000 euro per ogni figlio” per promuovere la natalità.

Lo scenario occupazionale dopo le riforme del mercato del lavoro: quali i problemi principali?

       Non voglio partecipare al dibattito su quanto è cambiato il mercato del lavoro dopo l’introduzione della riforma Biagi perché credo che quando, come in questo caso, ci si trova di fronte a riforme di carattere strutturale, una prima valutazione possa esser fatta solo nel medio periodo e non certo dopo appena un anno. Inoltre non basta che ‘il nuovo’ sia normativizzato, per attuare le leggi bisogna che si crei un concorso tra Stato e Regioni; ma la cosa essenziale è che i modelli vengano recepiti nei comportamenti, nella cultura: per questo dico che è un processo che richiede tempo. In sostanza ritengo che una prima valutazione dei risultati non si possa fare prima dei 3 anni dall’entrata in vigore della nuova disciplina.

       Certo, non nego che un impatto culturale già c’è stato: i primi dati raccolti dimostrano che è migliorato il livello dell’occupazione, la sua qualità, ed è anche aumentato il tasso di occupazione. E non è vero - come pure molti affermano - che si è incrementata la precarietà: al contrario, è cresciuto il numero dei lavoratori dipendenti (ossia di coloro che producono un reddito stabile e godono delle tutele tradizionali), e sono aumentati i contratti a tempo indeterminato.

       In effetti possiamo affermare che la crescita dei contratti di co.co.co. ha prodotto un effetto trainante sull’intero sistema del mercato del lavoro. Il dato non deve sorprendere: la logica stessa dice che l’aumento dei rapporti di lavoro a tempo determinato reca un vantaggio all’occupazione. Solo in Italia si afferma il contrario; ma in realtà il quadro europeo (dove lavoro atipico e part time rappresentano il 65-70% dell’occupazione), sta a dimostrare che la crescita di questo tipo di contratti migliora complessivamente il tasso di occupazione senza andare a detrimento dei rapporti di lavoro indeterminato.

       Il problema italiano è che il mondo imprenditoriale conserva ancora una struttura troppo rigida perché il part time abbia larga diffusione: da noi è tuttora erroneamente considerato un contratto riservato alle donne. La difficoltà è data dal fatto che le piccole e medie imprese (che sono le più numerose e che, per loro natura, si basano su rapporti fiduciari), in caso di necessità tendono a prolungare gli orari dei propri dipendenti anziché assumerne di nuovi, magari con contratti atipici. Qualcosa sta cambiando, ma il processo in atto nel nostro Paese è ancora troppo lento e incontra rigidità non solo strutturali ma anche ideologiche.

Per affrontare i nuovi orizzonti è indispensabile una riflessione su regole e conflitti. Ma serve anche una evoluzione del movimento sindacale che, a nostro avviso, dovrebbe diventare un sindacato riformista e partecipativo. Qual è secondo lei il futuro per il sindacato?

       Una radicale trasformazione del modo sindacale è ineluttabile, è lo stesso sistema economico che lo richiede. La nostra è un’economia sempre più dei servizi, che come tale richiede un alto grado di flessibilità, con livelli di tutela che non siano solo nel rapporto di lavoro ma nel mercato del lavoro. Penso a una migliore qualità della formazione, un forte raccordo fra scuola e lavoro, sistemi avanzati di welfare e via dicendo. Insomma: la flessibilità anche del mondo sindacale dovrebbe essere una conseguenza non tanto del cambiato sistema normativo quanto del tipo di mercato.

       Purtroppo però pare che il sindacato ancora non sia entrato in quest’ordine di idee: è una lacuna da colmare al più presto per evitare la profonda crisi della rappresentanza che si profila oggi all’orizzonte. E’ triste constatare come il sindacato di oggi abbia ancora un accentuato peso corporativo, il che lo pone in posizione di distanza sempre maggiore dagli interessi che vorrebbe rappresentare.

Uno dei grandi problemi dell’Italia è quello del ‘lavoro nero’. Quali sono le strategie migliori per l’emersione del lavoro sommerso?

       La definizione ‘lavoro nero’ la trovo poco rispondente a una realtà che indica un vero e proprio ‘mondo’, in cui convivono aspetti come la criminalità, il lavoro grigio, il lavoro minorile, ecc.: si tratta di una grande varietà di situazioni, alcune delle quali sono da combattere ma altre, come il lavoro grigio, da far emergere. Sotto questo profilo è auspicabile una più efficace azione repressiva degli ispettorati che si occupano del lavoro, magari in azione congiunta fra loro (Inps, Inail, ecc.).

       Poi bisogna chiedersi perché esiste il fenomeno del ‘lavoro grigio’. Gli oneri sui lavori sono per le aziende ancora troppo pesanti: l’Irap, per fare un esempio, non favorisce certo la tendenza all’emersione del sommerso, mentre trovo che sia positiva la direzione dei crediti d’imposta e delle norme sulla flessibilità. Negli anni 2000 abbiamo ottenuto notevoli successi sotto questo aspetto; oggi però tira un vento diverso: l’euro più forte, l’entrata nel mercato dei Paesi dell’est, e in particolare dell’est europeo, con una manodopera a basso costo, hanno in qualche modo fermato il processo che era stato avviato.

Italia Lavoro opera per la promozione e la gestione delle politiche attive del lavoro e dell’assistenza tecnica ai servizi all’impiego. Quali sono i programmi e i progetti futuri?

       Il nostro obiettivo è far sì che i soldi pubblici siano spesi bene, evitando gli sprechi e facendo politiche attive del lavoro di buon livello. Al momento l’ambito in cui operiamo soffre una sorta di egemonizzazione da parte di alcune componenti che si pongono come intermediarie nei rapporti; noi siamo convinti invece che si debba pensare a servizi e politiche da offrire in modo diretto alle persone, senza intermediazioni che tolgono efficacia al servizio svolto.

       I programmi sono tantissimi, dai progetti di sostegno al reddito, alla creazione di collegamenti fra mondo della scuola e del lavoro, passando per politiche migliorative dei flussi migratori attraverso una regolazione basata sulla conoscenza preventiva di domande e offerte di lavoro.

       Un progetto cui tengo particolarmente è la creazione della Borsa Lavoro Italiana, che creerà un collegamento tra il collocamento sul territorio, veicolando sulla rete Internet domanda e offerta; siamo ormai in dirittura d’arrivo e contiamo entro un anno di poter completare i nodi regionali cui faranno capo i raccordi provinciali.


Fiammetta Sagliocca

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