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  La prima enciclica di Benedetto XVI

Data di pubblicazione: Domenica, 18 Giugno 2006

TRAGUARDI SOCIALI / n.20 Aprile / Maggio 2006 :: La prima enciclica di Benedetto XVI

Un dono per chi è impegnato
nel politico e nel sociale


Deus Caritas Est la prima enciclica di Benedetto XVI


UN DONO PER CHI E' IMPEGNATO
NEL POLITICO E NEL SOCIALE


       L’Enciclica di Benedetto XVI è un messaggio forte rivolto a tutti i credenti e non soltanto a loro. Con “Deus Caritas Est”, infatti, il Papa dà ragione degli impegni di carità dei cattolici, ma anche della qualità del loro contributo alla società nel suo insieme. “La carità – dice all’inizio della seconda parte del testo – non è per la Chiesa una specie di attività d’assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua stessa natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza”. Una storia lunga che caratterizza la vita dei cristiani sin dai primi momenti, e che ha trovato nel corso dei secoli tanti modi diversi di esprimersi e di contaminare anche le altre culture, fino a quando “con la formazione della società industriale nell’ottocento (…) il rapporto tra capitale e lavoro è diventata la questione decisiva”. Questione, ammette il Papa, “che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente”. Ed è così che la dottrina sociale della Chiesa nasce in ritardo rispetto all’idea della costruzione del giusto ordine sociale nel quale si era inizialmente annidato il pensiero marxista il quale “aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione”. Un sogno ‘svanito’. Mentre quella dottrina sociale della Chiesa che pure era partita in ritardo, come ci ha ricordato il Cardinale Martino, lungi dall’aver perso il “treno della storia”, in realtà quello stesso treno la Chiesa “lo aspettava una stazione più avanti di dove era arrivato”.

       Ed è a questo punto che Benedetto XVI pone sulla questione della giustizia la “relazione reciproca” tra le due sfere distinte dello Stato e della Chiesa. E lo fa all’interno della domanda più radicale, sul che cosa è la giustizia, sostenendo che “la fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio”. Argomentando in modo laico “a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano”. Un servizio di formazione alla coscienza, senza alcuna pretesa di far valere politicamente questa sua dottrina. Un compito politico però, e che pertanto “non può essere incarico immediato della Chiesa”, anche se “l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente”.

       Ma quello che si matura nella dimensione di fede, è un contributo esigente il quale postula un’ulteriorità della carità perché, scrive il Papa, “l’amore sarà sempre necessario anche nella società più giusta”, e che, dunque, lascia immaginare come forma ottimale quello Stato che non pretenda di “provvedere a tutto”, ma che, invece, “generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto”.

       Ed è a questo punto che l’enciclica richiama i doveri personali dei fedeli laici. “Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica”; e, citando direttamente Giovanni Paolo II, prosegue affermando che essi non possono abdicare “alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune”.

       Con questa conclusione: “Anche se le espressioni specifiche della carità ecclesiale non possono mai confondersi con l’attività dello Stato, resta tuttavia vero che la carità deve animare l’intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come carità sociale”.

       Un’espressione che ricorda l’idea di Paolo VI sulla politica da lui definita la “forma più alta della carità”. L’impressione è che ci troviamo di fronte a un nuovo importante capitolo di quel Magistero lungo che propone, nell’apparente distrazione della storia, le figure di un umanesimo che non vuole imporsi con la forza, ma proporsi nel riconoscimento dell’altro. Del suo bisogno e anche della sua sofferenza, con la risposta, citata dal Papa, che del mistero del dolore e di Dio diede Sant’Agostino: “Se lo comprendessimo, non sarebbe Dio”. Una risposta che indica l’enormità dei territori che i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati a percorrere nella loro testimonianza di fede nelle prove difficili della storia. Possiamo dire il Papa con questa enciclica fa un grande dono a tutti coloro che sono impegnati nell’agire politico e sociale. Apre nuove piste e una prospettiva che aiuta ad innovare la prassi politica e la ricentra sull’amore.

       Siamo invitati ad entrare nella dimensione dell’amore politico, un amore che nel suo costruirsi e declinarsi ci obbliga a liberarci e a liberare la dimensione sociale e politica dalle pulsioni violente e dal dominio, per aprirsi alla dimensione della reciprocità, dell’incontro, dell’accoglienza e pertanto della caritas vissuta e praticata, nel vivere e nel convivere.

       Questa proposta di un amore politico rompe con lo schema dell’amico/nemico che molte volte caratterizza la dimensione del politico per proporre un’agire nel mondo orientato dalla fraternità e che pertanto non può ripiegarsi sulla dimensione della pura quotidianità, ma che si slancia sempre verso “quell’oltre” che solo l’amore è in grado di intravedere e intercettare.


Carlo Costalli

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