NOME UTENTE        PASSWORD  

Hai dimenticato la tua password?

Nell'ultimo numero di Traguardi Sociali:
Traguardi Sociali

Stai sfogliando il n.22 Settembre / Ottobre 2006

Leggi la rivista in formato pdf Cerca numeri arretrati in archivio
.PDF Numero 22 (1851 KB) Sfoglia l'archivio di Traguardi Sociali Sfoglia l'archivio di Traguardi Sociali

  Parla Michele Tiraboschi

Data di pubblicazione: Mercoledì, 27 Settembre 2006

TRAGUARDI SOCIALI / n.22 Settembre / Ottobre 2006 :: Parla Michele Tiraboschi

Uno Statuto dei Lavori per completare la riforma Biagi


Parla Michele Tiraboschi

Uno Statuto dei Lavori per completare la riforma Biagi


      I giovani del Mcl stanno lanciando proprio in questi giorni, con la supervisione scientifica del gruppo di ricerca di Adapt - Associazione per gli studi internazionali e comparati sul lavoro e le relazioni industriali (www.csmb.unimo.it), un questionario/ricerca sul tema “I giovani e il lavoro”, con l’obiettivo di intervistare 5.000 coetanei, su tutto il territorio nazionale, per conoscere meglio il rapporto che intercorre al mondo d’oggi fra giovani e mercato del lavoro.

       Al professor Michele Tiraboschi, presidente di Adapt e uno dei massimi esperti italiani sui temi del lavoro e collaboratore del prof. Marco Biagi alla stesura della legge di riforma del mercato del lavoro, Traguardi Sociali ha rivolto alcune domande.

In Italia si registra, rispetto agli altri Paesi europei, un grave ritardo sull’età di uscita dei giovani dalle Università. Questo dato influisce sulle difficoltà di trovare un lavoro, così come sul diffuso senso di insicurezza e di precarietà?

       I nostri “giovani” entrano nel mercato del lavoro dopo i 25 anni, che diventano mediamente 27/28 per quanti hanno intrapreso un percorso di istruzione universitario. Negli altri Paesi l’età media di ingresso nel mondo del lavoro è 22/23 anni. La differenza è evidente e spiega, almeno in larga parte, il problema del precariato. Perché è normale che le imprese offrano, a persone che si affacciano per la prima volta nel mercato del lavoro, un contratto temporaneo o a contenuto formativo. Un conto però è se questo tipo di rapporti di lavoro a termine viene offerto a giovani di poco più di vent’anni. Altra cosa è se queste forme di lavoro sono l’unica occasione possibile di accesso al mondo dell’impresa per persone che fanno il loro ingresso in età già adulta nel mondo del lavoro. A trent’anni le esigenze sono di stabilizzazione e certezza, anche economica. Un tema su cui lavorare è dunque quello del gioco d’anticipo in modo che i nostri giovani entrino prima (e meglio) nel mercato del lavoro.

       Condivide che una buona formazione e, quindi, la scelta di un percorso educativo giusto siano fattori sempre più importanti, se non addirittura decisivi? E la famiglia che ruolo deve giocare?

       Il primo passo per combattere il rischio del precariato è certamente il percorso educativo giusto, cioè un percorso di qualità e coerente con i bisogni del mercato del lavoro. Per questo c’è bisogno di orientamento e di fare le scelte giuste anche al tempo giusto. E qui un ruolo determinante lo gioca la famiglia, che però deve essere informata e messa in condizione di aiutare i propri componenti più giovani a seguire certamente la propria vocazione ma ben consapevoli di quelle che sono le richieste del mercato. Oggi si sa esattamente quali sono le lauree buone e quelle cattive almeno per chi cerca un lavoro stabile e di qualità. Poi ognuno ha il diritto/dovere di fare la propria scelta personale ma questa deve essere consapevole. Spesso oggi si sceglie un percorso educativo e formativo per caso, seguendo suggestioni e impressioni che certo non aiutano a fare le scelte giuste in funzione di uno sbocco sereno nel mondo del lavoro.

       E’ possibile abbreviare il percorso di transizione che va dal completamento del percorso formativo all’ingresso nel mercato del lavoro?

       Certamente è possibile e la legge Biagi si muove in questa direzione. Basti pensare al nuovo apprendistato che consente di seguire un percorso educativo, anche di livello universitario, già in assetto lavorativo e con formazione sul luogo di lavoro. Lo stesso vale per la possibilità data a scuole e università di istituire veri e propri uffici di collocamento nei propri locali. Questo aiuta a migliorare l’offerta formativa e didattica perché pensata in funzione delle richieste del mondo del lavoro. Spesso poi i giovani rimangono mesi e a volte anni in attesa di un lavoro perché una volta diplomati o laureati non hanno guide che li aiutano a inserirsi in azienda. Con l’istituzione di questi uffici vengono fissati dei canali formali di ingresso guidato e consapevole nel mondo del lavoro.

Il Mcl sta organizzando, insieme ad Adapt, un Seminario Internazionale (che si svolgerà a Milano il 6 e 7 ottobre p.v.) su “Le strategie di Lisbona tra presente e futuro. Il capitale umano nel nuovo mercato del lavoro”. Gli obiettivi di Lisbona evidenziano l’urgenza di qualificare i servizi attinenti all’incontro fra domanda e offerta di lavoro, accrescere i tassi di attività soprattutto delle donne e dei lavoratori anziani, specie nel Mezzogiorno, e comunque fare i conti con le esigenze di flessibilità per accrescere la competitività del sistema produttivo. A che punto siamo?

       Purtroppo in Italia siamo ancora molto indietro almeno rispetto agli altri Paesi europei. Chi cerca un lavoro è spesso lasciato a se stesso perché i servizi pubblici per l’impiego sono ancora inefficienti e coprono una percentuale molto bassa di avviamenti al lavoro, meno del 4%. Tutto il resto avviene per canali informali, passa parola, inserzioni sui giornali o sui siti internet, non di rado tramite finte agenzie di ricerca e selezione del personale che lucrano sulle esigenze di chi cerca un lavoro. Occorre una riforma complessiva che però non può essere solo normativa ma anche culturale. Per questo è però necessario avviare rapporti più collaborativi e di maggior fiducia tra il mondo delle imprese, le rappresentanze e le istituzioni soprattutto a livello locale.

       Superare la legge Biagi, e con essa le divisioni ideologiche che l’hanno accompagnata, è certamente possibile. A ben vedere, ciò è connaturato alla stessa natura sperimentale di una riforma che immaginava un percorso graduale di revisione complessiva della legislazione sul rapporto e sul mercato del lavoro in modo da pervenire, alla fine tragitto, ad un sistema di regole semplici e adattabili, sostanziali più che formali, di gestione delle risorse umane. E’ la prospettiva dello “Statuto dei lavori” avanzata nel 1997 da Tiziano Treu e Marco Biagi e successivamente ripresa nel Patto per l’Italia del 5 luglio 2002. Ed è su questo scenario che dovrebbe aprirsi l’imminente confronto tra governo e parti sociali perché è quanto mai necessario affinare nuove tecniche di tutela utili per regolare tutte le forme di lavoro, anche quelle più atipiche e marginali. L’obiettivo deve però essere quello di superare definitivamente una strumentazione giuridica e concettuale del passato che non è più in sintonia con la moderna organizzazione del lavoro. Il pacchetto Treu e per certi aspetti anche la stessa legge Biagi sono in effetti condizionate, almeno sul piano culturale, dalla vecchia idea dell’organizzazione del lavoro della fabbrica fordista, incentrata cioè su rapporti giuridici statici di mera subordinazione e gerarchia. Là dove lo Statuto dei lavori, per contro, si fonda su una concezione più moderna e dinamica dei rapporti di lavoro, a partire dal superamento della tradizionale (quanto oramai ineffettiva) contrapposizione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato.

       Per chi vuole guardare ai temi del lavoro con gli occhi rivolti al futuro è probabilmente questo il percorso obbligato per poter riconoscere a tutte le persone che lavorano in un contesto organizzativo a favore o nell’interesse di altri, a prescindere dalla tipologia contrattuale, uno zoccolo standard di diritti fondamentali tra qui quello a un giusto compenso. L’applicazione delle restanti tutele, a partire da quella dell’articolo 18, dovrebbe per contro essere stabilita in funzione dell’effettivo grado di dipendenza economica e di ulteriori parametri oggettivi quali l’anzianità di servizio presso uno stesso datore di lavoro, le condizioni soggettive e oggettive del lavoratore o del committente, le finalità formative o di inserimento del contratto e altri parametri affidati alla contrattazione collettiva.

       Si tratta di uno scenario utopistico?

       Non necessariamente, almeno a prestar fede alla oramai imponente elaborazione progettuale in materia di “Statuto dei lavori” (vedila all’indirizzo www.csmb.unimo.it , indice A-Z, voce Statuto dei lavori). E, comunque, l’ultima parola sul punto non spetta alle mutevoli (quanto composite) coalizioni di governo ma alle parti sociali che sono chiamate, da almeno un decennio a questa parte, ad avviare un confronto finalmente costruttivo sui temi del lavoro. Cosa possibile a una sola condizione, che riprenda cioè a funzionare come si deve il sistema di relazioni industriali. A partire dalla oramai ineludibile riforma degli assetti contrattuali. Il metodo delle relazioni industriali non ha mai riscosso molta fortuna nel nostro Paese, dove di gran lunga prevale una tradizione formalistica nella gestione dei rapporti di lavoro. Ma questa è la strada obbligata visto che non è ancora stato inventato uno strumento migliore, e più efficiente, in grado di contemperare le istanze di tutela del lavoro con le esigenze di competitività delle imprese.


Fiammetta Sagliocca

 Torna ad inizio pagina 
Edizioni Traguardi Sociali | Trattamento dati personali