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  Giustizia, bene comune e diritto naturale

Data di pubblicazione: Lunedì, 12 Dicembre 2011

TRAGUARDI SOCIALI / n.50 Novembre / Dicembre 2011 :: Giustizia, bene comune e diritto naturale

Intervista al prof. Francesco D’Agostino

Francesco D’Agostino è uno dei più importanti intellettuali di riferimento del mondo cattolico italiano. Autore di numerosi libri, dedica particolare attenzione ai temi della giustizia, della bioetica e della tutela del diritto alla vita. E’ Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani; membro fondatore e Presidente onorario del Comitato nazionale per la bioetica; membro della Pontificia Accademia per la Vita. Gli abbiamo rivolto alcune domande per i lettori di Traguardi Sociali.

Nell’editoriale su Avvenire, alla vigilia di Todi, lei ha sottolineato che “C’è un solo scandalo che i cattolici in politica devono evitare. Non devono mai cedere alla tentazione del cinismo”. Si riferisce solo alla prassi di comportamenti “machiavellici” nella lotta per il potere o anche al “cinismo ideologico” cui indulgono i “cattolici afoni” che evitano di parlare dei valori non negoziabili in quanto divisivi e quindi inopportuni e scorretti contrariamente a quelli riguardanti l’etica sociale?
Il cinismo non è solo una prassi, non consiste cioè soltanto in modalità di comportamento, è ben più di tutto questo. Il cinico è colui che è convinto che nel mondo non esistano valori, ma solo situazioni di fatto: ad esempio che la sessualità umana abbia lo stesso spessore della sessualità dei cani, perché attualmente del tutto analoga ad essa (è proprio per questa ragione che i filosofi cinici greci – cinico fa riferimento a “cane”- ricevettero dai loro avversari questo appellativo, che essi assunsero di buon grado come molto adeguato alla loro visione del mondo). In quanto orientato con la testa verso la terra e mai verso il cielo, il cinico è convinto di essere un realista, anzi l’unico vero realista in un mondo di ideologie, astrazioni, pieno di sentimentalismi, a volte buoni, a volte cattivi, ma a suo avviso tutti infondati. In tal modo non si avvedono di rappresentare la forma più compatta di ideologia, perché per criticare i falsi valori (e Dio solo sa se ce ne è bisogno!) negano in generale che i valori esistano: essi divengono in tal modo – e a volte contro le loro stesse intenzioni – alleati della conservazione sociale, anche nelle sue forme più estreme. I cinici non sono mai stati fautori non solo di alcuna utopia (cosa per cui meriterebbero di essere lodati), ma nemmeno di alcun progetto, ancorché piccolo e modesto, orientato al bene dell’uomo.
Il comportamento dei “cattolici afoni” va invece a mio avviso inquadrato in un diverso paradigma, che non è quello del cinismo (che nei suoi esponenti migliori, quelli in grado di mantenere una perfetta coerenza tra teoria e esperienza di vita, come fu il caso di Diogene, non a caso il più celebre tra loro, ebbe pure una sua nobiltà), bensì quello dell’opportunismo. L’opportunista, diversamente dal cinico, non ha una visione del mondo, non è in grado di allargare lo sguardo al di là della situazione immediata, vive esclusivamente nel presente, che egli cerca sempre di orientare a suo vantaggio. L’opportunista, quindi, non è in grado di costruire realmente il futuro, anche se si illude di farlo. L’errore dei cattolici afoni non è tanto quello di ridurre il problema politico all’etica sociale (perché, in fondo,in che cos’altro consiste la politica, se non nella giusta gestione del sociale?), o alla cogestione, ma nell’assumere la categoria “etica sociale”, secondo il paradigma, del tutto occasionale e contingente, che viene elaborato da quella parte della cultura laicista che ritiene (in buona o in cattiva fede, questo è irrilevante) che i valori “non negoziabili” non abbiano rilievo pubblico.

Può dirci la sua impressione sulla lettera aperta che quattro intellettuali post-comunisti (Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca) hanno pubblicato su Avvenire, proprio nei giorni di Todi, in riferimento alla questione antropologica?
Il tema da cui prende le mosse la lettera aperta, l’emergenza antropologica, non è certamente nuovo, né nuovo è l’appello che in esso risuona a tutti gli uomini di buona volontà di prenderlo sul serio e di farsene carico. Fa comunque piacere rilevarlo.
Prendo atto che per gli scriventi il destinatario privilegiato di questo appello dovrebbe essere il Partito democratico; ma prendo anche atto che questo Partito ha lasciato cadere mille occasioni in cui avrebbe potuto dare oggettivamente prova da una parte di percepire l’emergenza antropologica non come uno slogan, ma come un autentico impegno politico-sociale e dall’altra di non volersi lasciare confondere col radicalismo e col conseguente relativismo etico. Hanno ragione Barcellona e compagni nel sottolineare che dell’espressione “relativismo etico” bisogna fare buon uso e non se ne può parlare in modo troppo esasperato. Ed hanno altresì ragione, quando insistono nel dire che la difesa dei “valori negoziabili” è compito che deve accomunare credenti e non credenti. La lettera trasuda da tutte le parti buona volontà e può senz’altro essere letta come un sincero abbraccio ai cattolici da parte di quattro intellettuali che, in passato, con i cattolici sono stati piuttosto ruvidi (e di questo posso dare, almeno per uno dei firmatari della lettera, testimonianze personali). Resta il fatto, come diceva un personaggio di Thomas Mann, che per quanto possa essere caloroso, da un semplice abbraccio non nascono figlioli...

Benedetto XVI, nel suo libro-intervista Luce del Mondo ha scritto: “Ci troviamo di fronte allo scontro tra due mondi spirituali, il mondo della fede e il mondo del secolarismo… Questa grande lotta attraversa oggi il mondo intero”. Parole forti e impegnative; certo non usate con leggerezza o superficialità!
Come mai il Papa usa parole così drammatiche e cariche di pathos?

E’ vero: le espressioni del Papa sono straordinariamente forti. Per questo sono convinto che vadano lette in chiave strettamente teologica. A cosa mi riferisco? Al fatto che, per quanto la filosofia possa assumere come proprio oggetto di ricerca la verità, essa non potrà mai, dico mai, attivare l’amore per la verità: questo è l’insegnamento essenziale che ci lascia nella sua epistola San Giacomo, quando ci ricorda che i diavoli non sono affatto fuori dalla verità (essi ben sanno che Dio esiste!), ma questo nulla gli giova, perché non lo amano. Lo scontro del mondo della fede con il secolarismo non può essere ridotto a scontro dottrinale; esso deve muoversi sul piano della testimonianza. La Chiesa delle origini, che affondava le sue radici nel sangue dei martiri, ne era ben convinta. E’ a una convinzione del genere (si spera meno cruenta!) che dobbiamo riportare gli uomini del nostro tempo.

Nel 2005, negli USA, la vita di Terri Schiavo è stata soppressa rimuovendo il tubo di alimentazione per ordine del tribunale. Analoga situazione si è verificata in Italia con il caso Englaro. In Germania il matrimonio tra omosessuali è stato introdotto con sentenza. Questa concatenazione di episodi si configura come una minaccia per la democrazia su temi delicatissimi come la vita e il matrimonio?
Più che minaccia alla democrazia, io vedo negli esempi indicati una gravissima minaccia al principio stesso del diritto. In una formula, che oggi non ha alcuna forza comunicativa, in quegli esempi dobbiamo percepire un’ennesima prevaricazione del diritto positivo sul diritto naturale. Più propriamente, una lettura arbitrariamente individualistica dei diritti umani e dell’autodeterminazione personale sta portando i giudici a stravolgere la finalità dell’ordinamento: il diritto alla salute è stato riletto come diritto all’eutanasia; il diritto alla privacy – perché è questo e nulla più di questo che può essere rivendicato dalle coppie gay – è stato riletto come diritto alla tutela giuridica della loro convivenza.

Gherardo Colombo nel suo libro Sulle Regole ha scritto della Costituzione: “E’ la legge fondamentale che informa tutte le altre norme emanate in uno Stato. A grandi linee ha le stesse funzioni che in passato svolgeva il diritto naturale”. Ritiene corretta la “rottamazione” del diritto naturale, per sostituirlo con la Costituzione?
Colombo non fa altro che adattare alla situazione italiana il paradigma americano del patriottismo costituzionale. Nulla di male, ma a due condizioni: che non si assolutizzi il testo costituzionale come un testo sacro, non solo immutabile, ma nemmeno criticabile; e che non ci si illuda che il suo fondamento convenzionale (l’essere cioè legittimato “dal basso”, cioè dal consenso popolare) possa dargli un’autorevolezza intrinseca. In buona sostanza: nasceranno sempre, inevitabilmente, questioni “di contenuto” (come dice Colombo) o meglio questioni “di giustizia” in merito ad articoli della Costituzione e sempre ci saranno persone che non si riconosceranno nella Costituzione, perché sosterranno (a volte ragionevolmente) di non aver contribuito né direttamente né indirettamente alla sua redazione o addirittura di essere stati esclusi dal processo della sua formazione (come è il caso degli extra-comunitari che vivono nel nostro Paese e che continuamente devono confrontarsi con il nostro ordinamento). Solo il riferimento alla giustizia, al bene comune o al diritto naturale (sono tutte espressioni equivalenti) possono fornire i criteri per un sereno dibattito costituzionale, che rispetti le attese e le esigenze di tutti.
E’ evidente che non sto indicando una tecnica per rendere idilliaco il confronto politico e costituzionale, quanto piuttosto un orizzonte nel quale dovremmo tutti calarci, perché è l’unico che ci può consentire di mantenere il più sincero rispetto reciproco, anche quando non si giunga a prospettive condivise.
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