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  La dimensione culturale del lavoro

Data di pubblicazione: Mercoledì, 7 Maggio 2008

TRAGUARDI SOCIALI / n.30 Marzo / Aprile 2008 :: La dimensione culturale del lavoro

Intervista a Natale Forlani


INTERVISTA A NATALE FORLANI

LA DIMENSIONE CULTURALE DEL LAVORO




Parla con passione, Natale Forlani, amministratore delegato di Italia Lavoro (l’agenzia del governo per la promozione delle politiche del lavoro), e lo fa come gli è solito, senza peli sulla lingua e senza enfasi retoriche. Gli argomenti sono quelli che lo appassionano di più, i temi per i quali ha speso una vita di impegno: la crescita del tasso di occupazione, la disoccupazione giovanile, la flessibilità, l’immigrazione, il ruolo delle associazioni cattoliche per uno sviluppo equilibrato del Paese.



Nell’ultimo decennio, con la riforma del mercato del lavoro, i livelli di occupazione in Italia sono cresciuti di quasi tre milioni di posti di lavoro. Nonostante questo incremento le distanze che separano il nostro mercato del lavoro dai traguardi raggiunti dalla maggioranza dei Paesi europei rimangono elevate: distanze che penalizzano soprattutto i giovani, le donne, gli anziani. Quali percorsi sono necessari per raggiungere l’obiettivo primario di incrementare il tasso di occupazione?

       Innanzi tutto bisogna far crescere l’offerta di lavoro per cercare di adeguarla agli standard degli altri Paesi europei. Per far questo l’unica via possibile è vedere come hanno fatto questi Paesi, e cercare di importare quelle politiche che, da loro, hanno avuto successo e prodotto occupazione.

       In particolare, per quanto riguarda gli anziani, il punto cruciale è mandarli più tardi in pensione. Inoltre serve una politica forte di sostegno in favore di quanti perdano il lavoro in età avanzata, e pensare poi a un sistema possibile di ricostruzione della posizione contributiva in favore di chi trovi magari un nuovo lavoro, ma a condizioni meno vantaggiose del precedente. Da noi, invece, cosa si fa? Gli anziani vengono mandati in pensione anticipatamente, sostituendoli prevalentemente con gli immigrati: è un’assurdità.

       Le donne: per incrementare l’occupazione femminile è indispensabile offrire adeguati servizi alle famiglie, sia direttamente sia indirettamente, magari attraverso sgravi fiscali o maggiori deduzioni. E’ un dato inconfutabile, infatti, che laddove sono più ampi e qualitativamente superiori i servizi alle famiglie, è più alto il tasso di occupazione femminile. Poi bisogna pensare anche a tipologie contrattuali che rendano conveniente, in base a una libera e attenta ponderazione nell’ambito familiare, l’impiego della donna: il potenziamento del part-time potrebbe essere una di queste forme. Ma rimane comunque determinante l’offerta di servizi di qualità alle famiglie: pensi che in quest’ambito Paesi dell’Ue investono ben cinque volte in più dell’Italia!

       Quanto ai giovani, per garantire loro una rapida inclusione nel mondo del lavoro, bisogna incrementare adeguati percorsi post scolastici (come tirocini, apprendistato, ecc.) per aiutarli a creare una ‘condizione culturale’, prima ancora che economica: i giovani, cioè, devono poter conoscere il mondo del lavoro, prima ancora di pretendere un impiego che permetta alti e rapidi guadagni.

      Insomma, in Italia servono politiche vere di sostegno, bisogna abbandonare la strada di una politica vecchia, che è soltanto retorica del precariato.

Una delle questioni che più affliggono l’opinione pubblica è la difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro per i giovani disoccupati e i laureati, collegata anche al tema della necessaria flessibilità ed ai rischi di un’eccessiva precarizzazione. Quali sono le sue valutazioni e le sue proposte?

       Senta, me lo lasci dire: la questione della precarizzazione in Italia è una favola! I veri problemi sono ben altri. Anzi, da noi la quota dei lavori a termine è di molto inferiore rispetto agli altri Paesi europei. Ma ci sono ben 7 – 800mila giovani lavoratori in meno. Il punto è che in Europa i giovani iniziano a lavorare prima, magari anche con contratti a termine, con guadagni più bassi, ma in tal modo imparano a conoscere il mercato del lavoro. Il problema invece, in Italia, è che si sta perdendo la dimensione culturale del lavoro. Da noi sono state create ben 300mila nuove offerte di lavoro, ma non è un caso che queste siano state ricoperte quasi esclusivamente da immigrati: e non parlo solo di lavori come la raccolta dei pomodori o la vendemmia delle uve, ma anche di lavori di qualità, come cuochi, autisti, sarti, operai specializzati, e via dicendo.

       Diversa questione è invece quella che riguarda il Sud del Paese: lì si tratta davvero di disoccupazione vera e propria.

    Dobbiamo pensare, comunque, che non esistono qualifiche non migliorabili: anche quando parliamo di giovani laureati, il titolo da solo non basta. Un falegname non è San Giuseppe!
   
       Non esistono mansioni compatibili con lavori qualificati, se prima non si acquisisce una profonda conoscenza del mondo del lavoro: il punto cruciale è proprio acquistare quella dimensione culturale di cui parlavo prima. Se poi i nostri ragazzi vogliono assolutamente lavorare al più presto, per guadagnare e spendere, allora che vadano ai call center! Altrimenti è giocoforza che, dopo un adeguato percorso scolastico, serva necessariamente un periodo di tirocinio, di apprendistato, un banco di prova che formi una ‘cultura del lavoro’.

Un altro dei temi di grande attualità è quello dell’immigrazione: una questione legata, da una parte, alla qualificazione dei flussi migratori e, dall’altra, ai problemi della sicurezza.

       In Italia, a fronte di una domanda cresciuta di ben 3 milioni di posti di lavoro, la metà di questi riguarda gli immigrati: ecco, questo è il frutto di una politica disordinata e retorica, fumosa, che non affronta i problemi. Da noi infatti, regolare i flussi migratori non significa ponderare domanda e offerta di lavoro, ma semplicemente vedere ‘chi può venire a far qualcosa’… Il lavoro nero delle badanti è solo un esempio di questa approssimazione: il criterio base non è la qualifica della persona che verrà a lavorare, ma semplicemente quanto posso pagarla. Quindi, se posso spendere solo 7 – 800 euro al mese, cercherò di trovare chi si adatta a questo stipendio.

       In Italia non esiste una programmazione dei flussi: semplicemente si tira la riga per vedere a che punto siamo. I criteri per una buona immigrazione non possono invece prescindere da una corretta programmazione: questa si basa innanzi tutto sulla quantità, ossia contemperamento tra domanda e offerta di lavoro; poi sulla qualificazione, per poter corrispondere alle qualifiche di cui realmente c’è bisogno; infine sicurezza, cioè rispetto delle leggi. Da noi troppo spesso le leggi non vengono osservate, si entra in una specie di terra di nessuno: è ovvio che ne approfittino coloro che hanno vantaggio da questa assenza di regole (e non è quindi un caso che proprio in Italia si siano concentrati i maggiori flussi di rom).

      Siamo l’unico Paese al mondo che, anche in quest’ultima campagna elettorale, non ha nemmeno sfiorato il problema. Ed è un fatto molto grave.

Il ruolo dell’associazionismo cattolico impegnato nel mondo del lavoro è stato storicamente fondamentale nel determinare le scelte che hanno consentito all’Italia di diventare un Paese sviluppato. Quale ruolo può svolgere l’associazionismo per recuperare protagonismo, capacità di analisi e possibilità di azione concreta, per aiutare uno sviluppo economico rispettoso della persona e socialmente equo?

      Storicamente quella cattolica è l’unica cultura del lavoro possibile e alternativa alle sinistre. Mi riferisco a un sistema di diritti e doveri dei lavoratori, dei cittadini, a una cultura della responsabilità sociale, al contemperamento del diritto di sciopero con la garanzia dei sevizi essenziali per i cittadini, e via dicendo.

       Il punto è che una società moderna non può essere costruita solo sulla base delle rivendicazioni dei diritti, come vorrebbe una certa cultura di sinistra: diversamente si va incontro a inevitabili disastri, come è avvenuto per i rifiuti in Campania, dove anni di totale assenza di responsabilità sociale hanno determinato quanto oggi è davanti agli occhi di tutto il mondo.

      L’antidoto è allora, necessariamente, l’affermazione della cultura dei valori propria del mondo cattolico, che mette al centro la persona, rivendica il ruolo da protagonista dell’associazionismo e dei corpi intermedi, promuove la sussidiarietà, la responsabilità sociale, la mediazione sociale, il ruolo della famiglia… insomma, fa propri i principi della dottrina sociale della Chiesa.

         Se avremo la capacità di rilanciare in questa direzione, allora avremo in Italia, insieme allo sviluppo del capitale sociale, anche un significativo sviluppo dei valori e della persona. Se no, continueremo ad andare allo sbando.


Fiammetta Sagliocca


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