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  L’albero storto del federalismo all’italiana

Data di pubblicazione: Giovedì, 30 Maggio 2013

TRAGUARDI SOCIALI / n.59 Giugno / Luglio 2013 :: L’albero storto del federalismo all’italiana

Intervista al prof. Luca Antonini

Luca Antonini è uno dei principali consulenti del Governo e del Parlamento sul federalismo fiscale: professore ordinario di Diritto costituzionale e Diritto costituzionale tributario all’Università di Padova, dal 2009 presiede la Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale e appena pochi giorni fa è stato nominato capo del Dipartimento per le riforme istituzionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Autore del volume “Federalismo all’Italiana” (che la Fondazione Italiana Europa Popolare, in collaborazione con la Fondazione Nuova Italia, ha recentemente presentato a Roma) ha risposto per i lettori di Traguardi Sociali a una serie di domande sulle riforme istituzionali.

Nel suo recente libro Federalismo all’italiana, lei ha utilizzato la metafora dell’“albero storto”. Ci spiega il significato di questa metafora?
Già due anni fa, il 30 giugno 2010, la relazione sull’attuazione del federalismo che il governo presentò alle Camere, redatta sulla base delle analisi della Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale titolava il primo paragrafo l’«Albero storto» e proseguiva con la puntuale denuncia delle anomalie riscontrate (surplus di partecipate, bilanci non trasparenti, compartecipazioni «Bancomat» ecc.). Tutto il processo del federalismo fiscale è stato impostato nel tentativo di raddrizzare quell’albero storto. è opportuno però tornare ad agire anche a livello costituzionale. Nel ragionare su come raddrizzarlo questo albero storto, bisogna però fare attenzione a non sradicarlo. Nonostante tutto, dei frutti li ha prodotti. I modelli di organizzazione sanitaria di alcune regioni costituiscono un’eccellenza mondiale: in Italia l’aspettativa di vita (82 anni) è più alta che in Germania (79) e il costo della sanità è il 50% di quello degli Usa; una gestione centralizzata e uniforme – qui dove abbiamo il meglio e il peggio di ciò che esiste al mondo – non poteva garantire questo risultato.

La crisi economica e la recessione hanno in un certo senso rimesso in discussione la scelta federalista. Molti, seppur implicitamente, hanno messo in dubbio che la scelta federalista sia compatibile con un’incisiva politica di pareggio del bilancio e di uscita dalla crisi. Lei che ne pensa?
La crisi in corso evidenzia i problemi reali, ma in realtà non intacca il federalismo in se stesso: scopre piuttosto i difetti delle singole attuazioni. In Germania, ad esempio, nessuno mette in discussione il modello federale, che rimane ancora oggi un fattore di successo del sistema. Per spiegare come mai il federalismo funziona bene in Germania, negli Usa o in Svizzera, alcuni chiamano in causa le religioni: secondo tale teoria, gli Stati protestanti sarebbero in grado di sostenere sistemi di questo tipo; in Italia e Spagna, invece, la matrice cattolica favorirebbe, anziché il rigore, il lassismo e l’indulgenza nella gestione della cosa pubblica. Chi ragiona in questi termini sembra però dimenticare alcune figure straordinarie della nostra storia repubblicana, come quella di De Gasperi che andò negli Usa con un cappotto prestato, perché non ne possedeva uno. Eppure De Gasperi non era protestante... Si dimentica pure che, storicamente, un certo venir meno del senso delle istituzioni e dello Stato, non lo si deve addebitare al cattolicesimo, ma al fascismo e alla corruzione con cui inquinò i costumi nazionali e le loro genuine tradizioni (cattolica, socialista, liberale). Siamo quindi di fronte a un fenomeno complesso che esige spiegazioni che non siano semplicistiche: ci sono problemi specifici da affrontare e che dovranno essere affrontati in questa legislatura.

Nel suo libro lei cita come particolarmente dannosi gli interventi, episodici e scoordinati, di modifica della Carta Costituzionale realizzati nello scorso decennio, in particolare la modifica del titolo V. Può raccontarci brevemente perché questo tipo di intervento è risultato così devastante?
Raddrizzare l’albero storto del federalismo all’italiana è un’impresa impegnativa, ma che vale pena portare a termine. La seconda Repubblica si è mossa con grandissima fatica sulla strada delle riforme costituzionali, rompendo anche la convenzione che le voleva approvate con larghissimo consenso: nel 1947 la nostra Costituzione ebbe un voto quasi unanime (nel dopoguerra questo «miracolo costituente» è stato uno dei fattori determinanti del nostro straordinario sviluppo economico e sociale). Si è così aperta una fase di improvvisati interventi costituzionali approvati colpi di maggioranza (riforma del Titolo V del 2001 nella XII legislatura e devolution nella XIV). Questo fenomeno ha provocato una disgregazione istituzionale (e poi morale e sociale) crescente, proprio sotto la bandiera del federalismo: l’assetto costituzionale anziché semplificarsi in un ordine adeguato ai tempi, si è complicato ancora di più, fino a risultare ingestibile. Ai vecchi nodi che venivano al pettine si sono aggiunti quelli nuovi di un pasticciato federalismo all’italiana, caratterizzato dalla ridicola assenza di un Senato federale, dimostrati dall’esplodere di uno spaventoso contenzioso costituzionale.
Nella seconda Repubblica non si è rotta solo una convenzione costituzionale, si è rotto qualcosa di più.
L’uso a fini politici delle riforme costituzionali ha rotto l’anima dell’Italia. Il sistema costituzionale che si è configurato, piuttosto che riordinare e modernizzare il Paese, è divenuto esso stesso la causa dell’inceppamento del sistema. Basti pensare a quale fine ha fatto quella centralità del Parlamento che, a scapito della governabilità, portò nel 1947 a decidere per il bicameralismo paritario: il Parlamento oggi è formalmente ancora quello di allora, ma nella sostanza è ormai da anni un relitto sistematicamente svuotato dall’azione normativa del governo, dalle innumerevoli questioni di fiducia, da una legge elettorale che ne ha immiserito la cifra democratica. Ad esso poi si sovrappone e affianca, in una confusione «anarchica», il sistema degli altri numerosi centri normativi e decisionali periferici. L’avvitamento del tentativo di riforma delle province è una delle cartine tornasole delle difficoltà del sistema.

Tutto ormai lascia pensare che l’Italia sia arrivata alla fine di un ciclo e che, per riavviare il Paese alla crescita, sia necessario un profondo cambiamento anche costituzionale, ben al di là della semplice riforma elettorale. Qualcuno ha parlato di costituente eletta dal popolo, altri di una commissione costituente espressa dal Parlamento. Lei come vede la questione?
I problemi dell’Italia di oggi non sono ciclici ma strutturali: senza affrontarli, neanche azzerando il debito pubblico ricominceremo a crescere, come ci diagnosticano ormai illustri economisti. è urgente quindi avviare un processo di riforma strutturale della Parte seconda della Costituzione (la Parte prima non va assolutamente toccata: è ricca di grandi valori tuttora attuali), all’interno del quale recuperare le condizioni per rendere gestibile il sistema. è bene precisare che in questo modo non si delegittima la Costituzione; al contrario si propone di riformarne una parte, soprattutto quella rovinata dalla seconda Repubblica, per rilegittimarla pienamente. Alcuni temi da mettere all’ordine del giorno sono evidenti: l’introduzione di un Senato federale, un decentramento legislativo equilibrato e funzionale allo sviluppo, la soluzione della contrapposizione tra regionalismo e municipalismo, la revisione della misura della specialità ecc. In questo modo sarebbe possibile recuperare quegli elementi di ordinata sovranità che ci possono consentire un rapporto paritario con gli altri Stati, a partire da quelli europei. Se non si agisce a questo livello si rischia di continuare invano a cercare di rattoppare un assetto ormai inadeguato nelle sue linee di fondo: si immette vino nuovo in un otre vecchio.
Quanto al metodo per realizzare questa riforme, si chiami convenzione o comitato di esperti o commissione redigente non ha importanza, quello che occorre è impedire che questo necessario processo di riforma costituzionale non venga strumentalizzato per fini politici meramente contingenti: questo è stato mortale per i processi di revisione costituzionale italiani.

Un’ultima domanda: quale pensa che possa e debba essere il ruolo e il contributo dei cattolici alla nuova “fase costituente” che probabilmente, è prossima ad avviarsi?
Credo che il contributo possa essere quello messo in evidenza da Julian Carron in una intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica qualche settimana fa: “Senza una reale esperienza di positività, in grado di abbracciare tutto e tutti, non è possibile ripartire.
Questa è la testimonianza che tutti i cristiani, a cominciare da chi è più impegnato in politica, sono chiamati a dare, insieme a ogni uomo di buona volontà, come contributo per sbloccare la situazione: affermare il valore dell’altro e il bene comune al di sopra di qualsiasi interesse partitico”.
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