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  I nuovi limiti di Schengen

Data di pubblicazione: Sabato, 1 Ottobre 2011

TRAGUARDI SOCIALI / n.49 Settembre / Ottobre 2011 :: I nuovi limiti di Schengen

Estero e migrazioni.

Prosegue anche in questo numero la corrispondenza da Bruxelles, curata dal giornalista Pierpaolo Arzilla. ‘Una finestra sull’Europa’ questa volta si occupa del trattato di Schengen e delle difficoltà dovute ai massicci flussi migratori verso il vecchio Continente.

L’ Europa vuole rifare il trucco a Schengen. Gli Stati vogliono liberarsene ogni volta che possono, senza quasi chiedere permesso, proprio mentre è Bruxelles che vuole prenderne le redini. L’alta tensione dei mesi scorsi tra Italia e Francia sulla gestione dei profughi in fuga da un Nord Africa infiammato da chissà quanto autentiche rivoluzioni di popolo, e il sostanziale ritardo Ue nella gestione dell’emergenza, ha convinto la Commissione europea a prendersi qualche responsabilità. E soprattutto, a rosicchiare ulteriormente la sovranità nazionale degli Stati, sostengono alcuni “core members”, che avvertono con fastidio la pressione del legislatore comunitario su un tema come l’immigrazione, su cui i Paesi sembrano tutt’altro che disponibili a cedere quote importanti di autonomia. L’Ue si è accorta che i dispositivi di monitoraggio e intervento nell’area Schengen mostrano limiti; e che le risposte solo nazionali spesso sono inadeguate, certamente più soggette all’interesse particolare che a quello comunitario. Su quelle stesse debolezze, che sono anche e soprattutto inadeguatezze storiche della centrale europea, gli Stati membri si divertono a sfidare la tenuta e la sostenibilità politica delle istituzioni comunitarie e, nel nome di interessi legittimamente particolari, brandiscono clausole o presunte situazioni di eccezionalità per eludere il portato fondamentale degli accordi di Schengen. Emergenze o no, la logica dell’opt-out, seppure provvisorio, sta lentamente sbriciolando l’unico, vero motivo di orgoglio del moloch comunitario, la sola ragione che dà riconoscibilità concreta al progetto dell’Europa federale: l’abbattimento delle frontiere e la libera circolazione di persone, mezzi e capitali.
Per il cittadino europeo che quotidianamente si chiede a cosa serva questa Europa, non c’è provvedimento europeo più tangibile di Schengen, forse il solo a giustificare un’integrazione europea il cui percorso ha conosciuto forti battute d’arresto (l’“euro pessimismo” dei primi anni ’80, per esempio, dettato dalla crescente burocratizzazione della Comunità) e improvvise accelerazioni, quasi tutte tendenti a una normalizzazione economica e monetaria.
Più che l’euro, però, è la possibilità di andare da un Paese all’altro senza bisogno di mostrare il passaporto, che fa del progetto comunitario un mistero ancora riconoscibile. Progetto (e mistero), messo ora in discussione da un quotidiano che racconta di sbarchi e disperati in cerca di una dignità, e di nazioni che riprendono in mano i vecchi arnesi di una storia ancora non completamente assopita.
Del resto era cominciata così anche con il pretesto della crisi economica: congeliamo le procedure d’infrazione, sforiamo i parametri e poi si vedrà.
Succede allora, in un silenzio quasi generale che apre non pochi interrogativi, che un Paese come la Spagna si prende il diritto di limitare gli ingressi dei lavoratori romeni fino al 31 dicembre 2012. Una “clausola di salvaguardia” che il Paese di Zapatero giustifica con il più alto tasso di disoccupazione dell’Ue (22%), così come quella giovanile (45%) e una crescita messa sotto pressione dalle misure di austerità decise dal suo governo. L’afflusso di lavoratori romeni in Spagna è salito da quota 388mila del 2006 a 823mila nel 2010, il 30% dei quali però è in disoccupazione. La scelta di limitare gli ingressi dai Carpazi è stata dunque dettata dal governo dimissionario socialista per evitare ulteriori “gravi perturbazioni del mercato del lavoro”. La Commissione precisa che la limitazione riguarda solo i nuovi ingressi, ma riconosce che il provvedimento non ha precedenti. Il commissario all’occupazione, l’ungherese Andor, pur ammonendo che “la limitazione della libera circolazione dei lavoratori europei non è il metodo adeguato per affrontare un elevato livello di disoccupazione”, perché occorrerebbe piuttosto “concentrarsi sulla creazione di nuove opportunità di lavoro”, ammette che la decisione è stata presa per rispondere “alla situazione molto specifica dell’occupazione in Spagna”. Ora, quante “situazioni specifiche” di questo tipo, Paesi come Germania, Francia, Regno Unito e la stessa Italia potrebbero analogamente sostenere per giustificare un provvedimento simile a quello adottato per Madrid? La breccia aperta è delicata, se non pericolosa. Anche perché, mentre si tenta in qualche modo di correre ai ripari (ma non nella particolare casistica legata a un’eventuale limitazione del flusso di lavoratori Ue verso uno Stato membro), rafforzando una governance di Schengen che vuole esaltare il protagonismo centralista della Commissione e mettere i Paesi membri di fronte alle loro responsabilità, riducendo spazi e tempi dell’autonomia statuale nella gestione dei confini interni ed extra Ue, le falle si aprono in domìni e culture solo apparentemente insospettabili.
A Vaals, paesotto olandese di 10mila anime stretto tra Belgio e Germania (23 chilometri da Maastricht), si è consumato un altro “strappino”.
Il consiglio comunale ha deciso di bandire il diritto di residenza a quei cittadini stranieri, compresi i comunitari, che “non hanno mezzi finanziari con cui sostenersi”. Le casse comunali sono vuote, spiegano i politici locali, a causa dei sussidi ai troppi immigrati senza lavoro. Polacchi e romeni, aggiunge il sindaco, hanno grande difficoltà a trovare un’occupazione per una conoscenza troppo limitata della lingua nederlandese. L’Olanda del resto è una tra le più feroci oppositrici - ma anche Francia e Germania non scherzano - all’ingresso di Bulgaria e Romania nell’area Schengen (per il sì occorre l’unanimità del Consiglio). Secondo Bruxelles, Sofia e Bucarest sono “tecnicamente pronte” ad aprire i confini, l’Aja ribatte che non hanno fatto abbastanza nella lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata.

Pierpaolo Arzilla
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