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  Editoriale

Data di pubblicazione: Giovedì, 9 Marzo 2006

TRAGUARDI SOCIALI / n.18 Novembre / Dicembre 2005 :: Editoriale

Il lavoro, chiave essenziale


Pubblichiamo ampi stralci della relazione del Presidente Carlo Costalli al X Congresso nazionale del Movimento Cristiano Lavoratori, a Roma. Si tratta di alcuni fra i passaggi più significativi della lunga riflessione socio-politica con cui si è aperta la grande assise romana, alla quale sono convenuti delegati, rappresentanti e ospiti provenienti da tutte le regioni italiane, da molti Paesi europei e anche dal Nord e Sud America. Il testo, come si vedrà, è suddiviso per capitoletti, ed è pubblicato insieme con varie fotografie che si riferiscono ai tanti congressi regionali e provinciali che si sono svolti in questi mesi che hanno preceduto il Congresso nazionale del Movimento.


IL LAVORO, CHIAVE ESSENZIALE


L’EUROPA

       Il Mcl nasce europeista. Il nostro impegno si è sempre inserito nel filone di pensiero degli europeisti come De Gasperi, Schumann, Adenauer, e poi Helmut Kohl e Giovanni Bersani.

       La nostra passione per l’Europa è sempre stata forte e decisa; anche per questo siamo più consapevoli della crisi che sta attraversando il processo di unificazione: preoccupati ma non remissivi, delusi ma combattivi. Anche se non era difficile immaginare che questa Costituzione non avrebbe scaldato il cuore degli europei: è una Costituzione troppo debole, troppo fragile; una Costituzione che non ha avuto neanche il coraggio di dire chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare.

       E’ necessario rafforzare ancora di più i nostri rapporti internazionali: UELDC, EZA, Fondazione Schumann (anche se tanto è stato fatto in questi anni) per essere capaci di svolgere un ruolo più incisivo rispetto alle istituzioni dell’Ue, le cui decisioni hanno un influsso diretto sul terreno sociale, del lavoro e dell’impresa. Tanto più importanti perché correlate all’ingresso di dieci nuovi Paesi (aspettando Romania, Bulgaria e Croazia), con i problemi che si portano dietro dopo cinquant’anni di regime comunista, evento che costituisce una grande occasione per dare un nuovo slancio all’integrazione europea, da realizzare lungo le direttrici di crescita indicate a Lisbona.

       Il fatto che l’Unione Europea si proponga di realizzare una ‘società attiva’, che impieghi da qui all’anno 2010 almeno il 60% della forzalavoro femminile e il 70% di quella totale, sì da poter competere su scala mondiale con le economie più avanzate, nulla toglie alle contraddizioni culturali con cui la cultura europea vive di fatto il lavoro.

       Anzi si direbbe che il rilancio del workfare nei programmi dell’Ue sia proprio dovuto al fatto che emergono dei problemi e dei deficit, nelle motivazioni e nei modelli culturali, oltreché nelle strutture sociali, che sostengono il lavoro inteso come nuova prestazione funzionale. Il progetto di un mercato più efficiente, competitivo e flessibile è compatibile e sostenibile rispetto ad una prospettiva umanistica dei diritti della persona umana, fra cui il diritto al lavoro. Questo interrogativo scuote oggi le fondamenta dei mercati e delle concezioni economiche che hanno dominato negli ultimi secoli.

       Parlare del lavoro è andare al cuore della società moderna, al suo stesso impulso più profondo, alle sue contraddizioni culturali e religiose più intime. Parlare del lavoro è rifare la storia della cultura occidentale, della sua matrice e del suo sviluppo. Non ci si deve meravigliare se, riandando alle matrici del problema, si riscopre di rifare anche la storia del cristianesimo, dal momento che le grandi svolte storiche nelle concezioni del lavoro sono state anche svolte dal pensiero cristiano, considerato come visione delle intersezioni fra natura, cultura e mondo soprannaturale.

         Per una società attiva
       Sono tempi difficili per l’Europa, soprattutto per la ‘vecchia Europa’. Bassa crescita economica e scarsa competitività. Bassa dotazione di capitale umano e basso tasso di occupazione. E, come se tutto ciò non bastasse, la concorrenza dei Paesi asiatici, di quelli anglosassoni e anche di quelli neo-comunitari, incalza. Tutti Paesi, questi, più dinamici, più attivi.

       Ed è proprio su questo concetto, quello di società attiva, che la vecchia Europa si deve basare per il proprio rilancio. Una ‘società attiva’ è una società responsabile: una società padrona di se stessa che governa il futuro e delinea nuove sicurezze. Prima tra tutte il lavoro. Un lavoro di qualità inteso come elemento di sviluppo e anche di coesione sociale. E’ la strategia europea per l’occupazione, elaborata dal Consiglio di Lisbona, ad affermare con forza tale concetto. L’obiettivo principale della strategia per l’occupazione è, infatti, quello di costituire una economia più competitiva e dinamica, basata sulla conoscenza, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e maggiore coesione sociale. Così come altri Paesi della vecchia Europa, anche l’Italia si trova in una situazione di svantaggio competitivo, dovuto in particolare a una scarsa valorizzazione del capitale umano, attribuibile all’invecchiamento della popolazione, al basso tasso di occupazione, alla bassa scolarizzazione e allo scarso apprendimento continuo.

       In questa situazione, dunque, l’Italia necessita di una società attiva, che elabori le linee guida per il proprio futuro, caratterizzate da politiche che concilino lo sviluppo economico e sociale e che mirino a ribaltare la situazione precedentemente descritta. In special modo si dovrà realizzare una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, ma soprattutto un forte investimento in capitale umano, che significa più elevati livelli di istruzione e migliore qualità della stessa, ma anche una formazione e un apprendimento continuo lungo l’arco della vita. Questo aspetto è fortemente legato alla possibilità di un migliore sviluppo economico e sociale, in quanto è risaputo che un più elevato grado di istruzione e formazione implicano una migliore occupazione e una retribuzione più elevata.

       Se il lavoro è considerato uno strumento importante di sviluppo economico, ma anche di inclusione sociale, è sicuramente prioritario l’ingresso, la permanenza o un veloce ritorno degli individui nel mercato del lavoro. Se da un lato la domanda di lavoro è fortemente legata alla situazione economica e in particolare ai livelli produttivi, dall’altro la tendenziale scarsa trasparenza del mercato del lavoro e il necessario supporto nell’inserimento al lavoro per alcuni soggetti, necessitano di politiche attive per l’occupazione, cioè di misure e di programmi che favoriscano l’inserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro; che adeguino, attraverso la formazione e la riqualificazione, le loro caratteristiche alle esigenze del mercato; che consentano un buon incontro fra domanda e offerta di lavoro per garantire maggiore efficienza dello stesso mercato del lavoro.

       Ma perché una società si possa realmente definire attiva, è necessaria una radicale inversione di rotta anche in materia di politiche per l’occupazione. Se in passato, infatti, in un’ottica di welfare degradante dell'assistenzialismo, hanno sempre prevalso le politiche passive per l’occupazione (cioè il sostegno passivo al reddito, in molti Paesi anche molto generalizzato), recentemente, invece, sulla spinta della stessa ‘ strategia europea per l’occupazione’, che ha posto al centro dell’attenzione la persona del lavoratore, l’obiettivo si è spostato alle politiche attive e in un certo senso anche alla ‘attivazione’ delle politiche passive, attraverso la costituzione di legami delle une alle altre.

       Questo ha significato che nella maggior parte dei Paesi europei, ma non ancora in Italia, viene richiesto ai lavoratori in cerca di occupazione e beneficiari di prestazioni sociali di sostegno al reddito, di essere per l’appunto ‘attivi’ nella ricerca di un’occupazione, comprendente anche l’obbligo a partecipare a progetti di reinserimento al lavoro che, se disattesi, possono ripercuotersi in una decurtazione delle prestazioni sociali.

       Con questo non si vuole certo dire che gli Stati debbano abbandonare i cittadini in difficoltà che necessitano di aiuto   per il loro sostentamento – ma, al contrario, si vuole affermare che essi devono mirare alla loro responsabilizzazione e attivazione, in perfetta sintonia con l’idea di società attiva.

       Una scommessa antropologica, con scenari e progetti concreti che appaiono politicamente trasversali, nei quali si fondono i riferimenti al new labour inglese con la migliore tradizione riformista italiana,   tenendoperò ben presente una ‘tradizione di valori’ sulla quale convergono fede e ragione: la centralità della persona, la valorizzazione della famiglia, il ruolo   della società civile, e saltato attraverso una costante sussidiarietà orizzontale.

          La prospettiva del welfare -   Per un nuovo patto tra generazioni
       Da oltre vent’anni nei Paesi sviluppati, e più significativamente in Europa, si discute e si interviene per riformare le prestazioni sociali. I sistemi di previdenza, di formazione, di assicurazione, di sostegni al reddito verso le famiglie e verso le persone, pur e ssendo differenziati a livello nazionale, presentano delle criticità comuni, più volte analizzate da numerosi esperti e ormai consolidate nel dibattito politico.

       Le criticità principali sono legate all’invecchiamento della popolazione, effetto e conseguenza positiva anche dei successi del welfare state, ma che produce uno piazzamento e una crescita esponenziale particolarmente della spesa pensionistica e sanitaria.

       - Fabbisogni di formazione e di aggiornamento dovuti alla rigidità dei mutamenti economico-produttivi, ma anche di quelli sociali, a cui crrispondono sistemi scolastici rigidi e costosi.

       - Crescenti esigenze di mobilità e di flessibilità del lavoro che mal si conciliano con sostegni al reddito che, qualora eccessivamente duraturi e onerosi, finiscono per disincentivare la ricerca del lavoro.

       - Una natalità decrescente che si riflette progressivamente nella diminuzione della popolazione in età da lavoro e in un aumento dei carichi di dipendenza relativi al numero delle persone che non lavorano rispetto a   quelle che lavorano.

       - Le insufficienze degli interventi di sostegno di diversa natura (finanziaria, pubblica, relazionale) verso la quarta età.

          - L’onerosità dei sistemi burocratici e di erogazione delle provvidenze e dei servizi pubblici.

       Questi fattori di criticità hanno dato luogo a un ciclo di riforme nei vari Stati europei i cui tratti sono stati solo stati solo parzialmente orientati dall’azione comune in sede Ue. Quest’ultima ha però indicato la piattaforma da cui      partire assumendo come base l’obiettivo   dell’espansione della base occupazionale.

       Obiettivo sostanziato da un indicatore, il raggiungimento del 70% del tasso di occupazione, indispensabile per reggere il carico della sostenibilità finanziaria delle prestazioni e delle persone inattive al di sotto dei 20 anni di età e degli over 65.

       Altre direttrici di riforma comuni si sono manifestate nell’allungamento dell’età pensionabile combinato con la riduzione parziale dei rendimenti, nella compartecipazione degli utenti al costo dei servizi sanitari nella diminuzione della durata e dell’entità dei sostegni al reddito, nell'inasprimento delle sanzioni in caso di rifiuto di un lavoro, nell’aumento degli aiuti verso le famiglie e la natalità attraverso il potenziamento dei servizi per le famiglie.

       Il processo è lento, contrastato, assume obiettivi abbastanza comuni, ma certamente non è stato ancora in grado di riposizionare organicamente i sistemi del welfare ed il patto tra generazioni in essi contenuti.

       Hanno ancora i contorni, indeboliti, della fase di sviluppo industriale dove i percorsi scolastici, quelli dell’età lavorativa e di uscita dal lavoro erano relativamente definiti ed organizzati.

       Le riforme fatte lasciano aperti ed insoluti i problemi del sostegno alla natalità, a cui si aggiunge anche il tema dell’accoglienza agli immigrati, quelli dell’apertura dei sistemi formativi alle persone che lavorano e alla terza età, l’inadeguatezza degli interventi verso la quarta età, le prospettive di prestazioni previdenziali in progressiva diminuzione per le giovani generazioni.

       La condizione italiana (dopo un ciclo di riforme iniziate negli anni ’90), non si presenta affatto migliore.

       Siamo di fronte alla combinazione di carenze storiche: gli interventi verso le famiglie, la natalità e il sostegno al reddito, combinati con nuove esigenze derivanti dal fatto che il nostro paese detiene il record, di per sé positivi ma poco considerati per le loro esigenze, del maggior invecchiamento della popolazione e dell’allungamento dell’età media di vita.

       E’ necessario inquadrare bene tali problematiche. Nei prossimi quindici anni la popolazione di origine italiana in età da lavoro diminuirà di 4,5 mln. di persone. Circa 2,5 mln. di persone andranno in pensione.

       Il numero delle perone a carico di coloro che lavorano rischia di essere insostenibile, salvo che nel frattempo la popolazione attiva, ed in particolare il tasso di occupazione, non si accresca di almeno 3 mln. di unità avvicinando l’Italia all’obiettivo europeo del 70%.

       Il nostro Paese si trova di fronte a due sfide gigantesche. La prima riguarda il come perseguire l’obiettivo di elevare sensibilmente i livelli di occupazione; la seconda di riequilibrare il sistema del welfare sia per   supportare la sfida occupazionale, sia per affrontare le nuove emergenze sociali.

       Elevare il livello e la qualità dell’occupazione Il livello dell'occupazione della popolazione in età da lavoro maschile tra i 35 ed i 55 anni è già sopra le medie europee. Non altrettanto vale per i giovani e, soprattutto, per le donne e per gli anziani i cui tassi di disoccupazione evidenziano, nell’insieme, una distanza notevole da tali medie, stimabile nell’ordine dei 2 – 3 mln. di unità.

       Tale distanza è rimarcata particolarmente, soprattutto per i giovani e le donne, nel territorio meridionale, delineando pertanto le vere priorità delle politiche occupazionali.

       Certamente l’obiettivo non può essere colto solamente attraverso interventi ed innovazioni sull’offerta di lavoro. E’ indispensabile una politica di sviluppo più accentuata soprattutto verso i territori del Sud Italia.

       Ma questo non basterà per ottenere un livello occupazionale più elevato ed equilibrato. Le esperienze europee dimostrano che servono almeno altri tre tipi di intervento: un miglioramento dei servizi di orientamento e   formazione, una diversa e più personalizzata politica dei rapporti di lavoro e degli orari di lavoro, un rapporto più integrato tra politiche di sostegno al reddito e quelle finalizzate alla ricerca del lavoro.

       E’ la strada intrapresa dalle riforme del mercato del lavoro dal ’96 ad oggi e rafforzata sia dalla legge Biagi che dalla riforma del sistema scolastico. Una strada che ha già prodotto il risultato di aumentare di oltre 2,2 mln. di unità l’occupazione nell’ultimo decennio, delle quali 2/3 a tempo indeterminato.

       Sono dati che non confortano affatto la tesi portata avanti da coloro che sostengono l’aumento della precarietà del mercato del lavoro soprattutto per i giovani. Anzi, ci distanzia dall’Europa un più basso impiego di questi ultimi e delle donne, anche e proprio in ragione di uno scarso utilizzo del part-time e del lavoro a termine.

       Questo non significa affatto che non si debba proseguire nella strada del miglioramento del sistema delle tutele, come del resto previsto dalla legge Biagi soprattutto per i contratti a progetto. Va tolta l’incrostazione ideologica che separa le discussioni italiane dal resto dell’Europa e che contribuisce a perpetuare i nostri ritardi.

      E’ necessario migliorare i livelli di tutela del mercato del lavoro e non solo nel rapporto di lavoro. L’insufficienza dei sostegni al reddito per metà del lavoro dipendente è anche il risultato dei retaggi corporativi con categorie e settori forti, sia nell’ambito del rapporto di lavoro ed altri troppo abbandonati alle congiunture economiche.

       E’ necessario pervenire con gradualità ad un sistema più generale di sostegni al reddito, dignitoso e dimensionato temporal combinato con l’assoluta impossibilità di caricare sulle famiglie i costi del sostegno delle persone in progressiva perdita di autonomia, sia essa finanziaria o fisica. Riteniamo che l’integrazione familiare di queste persone sia il presupposto del successo di un’azione del welfare ma ciò deve essere sostenuto anche con il sostegno pubblico e servizi adeguati.

       Proponiamo all’attenzione politica l’esigenza di varare un fondo di solidarietà, finanziato con una quota di contributi sociali, anche sulle pensioni medio-alte, oltre che dal fisco, per far fronte agli oneri di queste politiche. Con famiglie e quarta età va aperto un nuovo fronte di interventi sul versante del riposizionamento del sistema formativo. Ai fabbisogni di qualificazione dei sistemi formativi di base si aggiunge l’esigenza di migliorare sensibilmente quelli collegati al lavoro, di allargare la formazione continua per gli occupati, di affrontare anche per queste vie il tema dell’invecchiamento attivo con programmi   mirati per la terza età.

       Non ci convince la persistente polemica tra sostenitori della scuola pubblica e quelli della scuola privata. L’offerta formativa deve ampliarsi e diversificarsi ed è impensabile che questo possa avvenire solo in un sistema pubblico, sia pur riqualificato.

       Guardiamo con favore all’ampliamento dei soggetti che producono formazione e crediamo in un sistema cooperativo-comparativo che migliori la qualità e la quantità dell’offerta verso i cittadini.

       Crediamo che questi investimenti debbano essere al massimo agevolati   fiscalmente e che ai cittadini, di ogni genere e di ogni professione, debba essere garantita libertà di scelta.

       Infine va affrontato il tema della previdenza per i giovani. Non possiamo chiedere ad essi, nel contempo, di far fonte al problema della natalità, dei   costi della crescita della previdenza, della sanità e della diminuzione in prospettiva delle loro prestazioni previdenziali.

       Sono squilibri eccessivi che vanno rimediati anche favorendo in ogni modo l’avvio della previdenza integrativa.

       Abbiamo indicato quelli che, secondo noi, possono essere i contenuti che caratterizzano un nuovo patto tra generazioni. Rivedere lo stato sociale è ineludibile, non è un cedimento ad una strategia di abbandono di conquiste storiche: è il solo modo per preservare le nuove generazioni, i nostri giovani, la sostanza delle acquisizioni.

       Vorremmo che su questi contenuti si misurassero i programmi delle coalizioni politiche e l’azione concreta dei prossimi   governi.



Carlo Costalli

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