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  Intervista al prof. Michele Tiraboschi

Data di pubblicazione: Lunedì, 6 Marzo 2006

TRAGUARDI SOCIALI / n.18 Novembre / Dicembre 2005 :: Intervista al prof. Michele Tiraboschi

Intervista al prof. Michele Tiraboschi
La riforma Biagi compie due anni di vita: quali i primi risultati, effetti, riscontri?

Intervista al prof. Michele Tiraboschi


La riforma Biagi compie due anni di vita:
quali i primi risultati, effetti, riscontri?


    In estrema sintesi, penso si debbano sviluppare due diverse considerazioni. Su un piano generale, e direi di tipo culturale, si può certamente dire che la riforma Biagi ha profondamente – e positivamente – inciso sulle logiche di funzionamento del nostro mercato del lavoro.

    Prima della riforma Biagi esisteva, infatti, un unico nucleo di lavoro garantito e tutelato. Il diritto del lavoro si occupava quasi esclusivamente della posizione giuridica del dipendente a tempo indeterminato assunto nella grande fabbrica o nel pubblico impiego. L’ordinamento, per contro, non si interessava dei diritti e delle esigenze di una buona metà del mercato del lavoro. Parlo dei lavoratori atipici e assunti nella piccola impresa, ma anche delle fasce deboli del mercato del lavoro: giovani, over 50, donne e disoccupati.

    Ora, con la legge Biagi, si sono poste le giuste premesse per ricomporre questa frattura. Accanto alle tutele di chi ha già un lavoro stabile sono oggi disciplinati diritti e garanzie per tutti coloro che operano nel mercato del lavoro, ivi compresi gruppi svantaggiati: nuovi e più efficienti servizi per l’impiego, una borsa nazionale del lavoro per facilitare la ricerca di una occupazione, una rigorosa azione di contrasto delle collaborazioni fittizie, ecc. ancora troppo presto per trarre delle conclusioni su un piano pratico e di tipo empirico: riforme così ampie e radicali hanno necessariamente tempi di attivazione lunghi, anche perché gran parte della nuova legislazione è affidata alla contrattazione collettiva e agli interventi delle regioni. Per tale ragione, allo stato mancano dati certi e complessivi.

    Qualcuno ha voluto generalizzare ricerche su dati e campioni statisticamente poco attendibili. Mi riferisco, in particolare, ad una ricerca dell’IRES-CGIL che ha   emesso un drastico giudizio sulla sorte di circa 4 milioni di lavoratori atipici sviluppando considerazioni sulla base di un campione di poco più di 600 lavoratori:   una rappresentanza davvero modesta e priva di rilevanza!

    Quel che è certo, poiché sostenuto da dati ufficiali di ISTAT e EUROSTAT, è che da quando è in vigore la legge Biagi il tasso di disoccupazione è diminuito in modo significativo, tanto da collocarsi ora ben al di sotto della media europea. Così come è altrettanto certo che, sempre grazie alle modifiche ed ai nuovi istituti introdotti con la legge Biagi, sta emergendo una importante quota di lavoro sommerso e che, anche per tale ragione, i tassi di occupazione regolare stanno costantemente aumentando.

    Solo due anni di vita e per alcuni la riforma Biagi è già diventata il simbolo della precarietà, tanto che da più parti si chiede persino di abrogarla o, quantomeno, di modificarla radicalmente. Cosa rispondere a questi attacchi ideologici?

    Chi abbia seguito in questi anni il complesso e laborioso processo di implementazione della riforma può affermare – senza timore di essere smentito – che la legge Biagi si è a tal punto radicata nel nostro ordinamento che difficilmente potrà essere smantellata da una diversa coalizione di governo e, per cambiare registro, non saranno certamente sufficienti le fatidiche tre parole del legislatore. La conferma di ciò   deriva dal fatto che, paradossalmente, sono state proprio le Regioni del centro-sinistra a dare piena e tempestiva attuazione alla legge Biagi. Cancellare la legge Biagi significherebbe, in altre parole, abrogare svariate normative regionali, altrettanto corpose e incisive, che toccano tutti i profili centrali del nostro mercato del lavoro. Molte recenti leggi regionali hanno già recepito le modifiche introdotte con la legge Biagi, sia con riferimento alla organizzazione e disciplina dei servizi per l’impiego sia in relazione alla regolamentazione ed attivazione del contratto di apprendistato: un istituto storicamente presente nel nostro ordinamento e che, anche grazie alle modifiche introdotte dalla riforma, si sta rivelando di fondamentale importanza per contrastare il precariato e sostenere la occupazione giovanile.

    L’abrogazione di tali normative rappresenterebbe quindi un clamoroso passo indietro che, pur con tutte le cautele del caso, pare davvero difficile ipotizzare. Ma non solo. Che il giudizio sostanziale sulla legge Biagi possa cambiare, non appena si passi da una posizione di contestazione a un ruolo istituzionale e di responsabilità di governo, lo dimostra anche quanto operato a Bologna da uno degli oppositori della prima ora della legge Biagi. Infatti, nell’imporre la modalità cosiddetta “a progetto” disciplinata della Biagi alle collaborazioni coordinate e continuative attivate dal Comune, Sergio Cofferati si è spinto ben oltre, estendendone il campo di applicazione, per mero accordo sindacale, persino alle pubbliche amministrazioni che pure formalmente risulterebbero escluse. Decisione questa che conferma, senza ombra di dubbio, la bontà di talune intuizioni contenute nella legge Biagi sulle quali vale la pena di insistere.

    Senza tralasciare infine il fatto che, trattandosi di una legge sperimentale, sarebbe controproducente qualunque modifica, anche per quanti ne hanno ingiustamente fatto il simbolo della precarietà, prima di averne potuto verificare sul campo gli effetti prodotti sul nostro mercato del lavoro.

    La strategia di Lisbona tra presente e futuro. E l’Italia?

    I parametri fissati nel Consiglio di Lisbona del marzo 2000 restano, almeno per ora, irraggiungibili. Va tuttavia rilevato che il target del tasso di occupazione pari al 70% entro il 2010 appare oggi un vero e proprio miraggio per la stragrande maggioranza dei Paesi Europei. Ma ancor più per l’Italia, dove il tasso di occupazione è pari al 57,4% contro una media europea del 63,3%.

    è tuttavia altrettanto vero che, grazie alle riforme Treu e Biagi del mercato del lavoro il tasso di occupazione italiano è cresciuto, dal 1998 al 2004, di ben 4,5 punti percentuali: oltre il doppio rispetto alla media dell'Europa a 25 che registra, nello stesso arco temporale, una variazione di soli 2,1 punti percentuali.

    Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, siamo ancora distanti di ben 12,6 punti percentuali dall'obiettivo di Lisbona, situazione questa determinata anche dalle numerose difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro dei lavoratori svantaggiati e dei gruppi a rischio di esclusione sociale: inevitabilmente attratti da una economia informale senza pari nel resto d'Europa. Anche per tale ragione si fa sempre più necessaria quella lotta efficace contro il sommerso perseguita proprio con la legge Biagi.

    In tal senso non sono da dimenticare i dati europei che attestano una crescita a ritmi sostenuti dell’occupazione femminile: dal 1998 ad oggi si registra un incremento di ben 5,8 punti percentuali. Anche in tal caso tuttavia il dato si traduce in un tasso di occupazione delle donne pari a un modesto 45,2%: ben 14,8 punti percentuali in meno rispetto al target di Lisbona, che fissa un tasso di occupazione femminile del 60%, ma anche 10,5 punti in meno rispetto alla media dell'Europa a 25.

    Drammatico, infine, è il dato relativo al tasso di occupazione dei lavoratori anziani. Siamo fermi a un misero 30,5% a fronte di una media europea del 41%. Il che significa ben 19,5 punti percentuali sotto il target di Lisbona.

    Parliamo del futuro delle relazioni industriali in Italia: per noi del Mcl è indispensabile indirizzarle verso un’evoluzione di tipo partecipativo. E’ possibile? Cosa fare?

    Se pochi progressi sono stati compiuti, nel complesso, verso i tre obiettivi chiave della Strategia Europea per la occupazione (piena occupazione, aumento della qualità e produttività del lavoro, inclusione e coesione sociale) questo è dovuto al pessimo funzionamento di un sistema di relazioni industriali ancora troppo conflittuale e poco attento ai problemi reali del Paese. Attardarsi in una inutile polemica sulla necessità o meno di riformare il mercato del lavoro e il sistema pensionistico non aiuta certo ad avvicinarci agli obiettivi di Lisbona che richiedono piuttosto ulteriori interventi strutturali e misure ancora più coraggiose di quelle sin qui intraprese.

    Gli incerti e contrastati esiti delle pur importanti riforme dell'ultimo decennio indicano con chiarezza che il vero problema del nostro Paese non sta nella incapacità di progettare azioni per il cambiamento in linea con le indicazioni di Lisbona. Il nostro problema, piuttosto, sta nel basso grado di implementazione e trasposizione delle riforme varate nei processi normativi reali. Quella dell'Italia sarà inesorabilmente una corsa al ribasso, nel contesto della competizione internazionale, fino a quanto non si ristabilirà il corretto funzionamento di un sistema di relazioni industriali oggi alterato da veti politici e logiche conflittuali che non si adattano agli scenari della nuova economia.

    Gli obiettivi di Lisbona e le azioni di riforma sono certo importanti. Ma ancor di più lo sarebbe un sistema di relazioni industriali di tipo collaborativo e partecipativo, che purtroppo pare ancora di là da venire.

    Un futuro, vero, riformismo del mercato del lavoro passa anche attraverso la modernizzazione delle relazioni industriali nelle aziende: come è possibile abbassare i toni del conflitto e valorizzare il capitale umano?

    C’è una sola strada da percorrere ed è una strada di lungo periodo. Occorre investire sulle persone già a partire dal sistema scolastico e universitario oggi troppo distante dalla realtà del mondo del lavoro. Non solo perché la valorizzazione del capitale umano passa attraverso massicci investimenti in educazione e formazione, ma anche - e soprattutto - perché la modernizzazione delle relazioni industriali, e del modo di fare impresa, richiede persone culturalmente preparate ad accompagnare e gestire il cambiamento e l’innovazione.

    Del resto pare ben difficile procedere alla modernizzazione delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro, quando nella stragrande maggioranza delle nostre aziende mancano figure chiave come quelle dei direttori del personale.

    Qual è il futuro prossimo dello Statuto dei Lavori? A che punto è il lavoro della Commissione Ministeriale da lei presieduta?

    La legge Biagi è solo un primo tassello della riforma del mercato del lavoro. Per prima cosa occorreva procedere a una, non facile, opera di emersione del lavoro irregolare e sommerso. Secondo passaggio fondamentale è quello della riforma degli ammortizzatori sociali, la quale tuttavia inevitabilmente connessa al problema delle risorse disponibili. Infine, ma solo in terza battuta, occorrerà presumibilmente una nuova legislatura per dare corpo all’idea di Statuto dei lavori che ora rimane chiusa nel cassetto del Ministero del lavoro. I tempi non sono maturi, ed è davvero francamente difficile discutere di un progetto ambizioso come quello del nuovo Statuto quando non è ancora emerso il necessario consenso sulla riforma Biagi.

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