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  I tempi del lavoro crescono, le garanzie no

Data di pubblicazione: Sabato, 14 Maggio 2011

TRAGUARDI SOCIALI / n.47 Maggio / Giugno 2011 :: I tempi del lavoro crescono, le garanzie no

Presentata una ricerca del Ces sui ritmi di lavoro.

Un lavoratore su cinque in Europa non riesce a conciliare lavoro e vita privata. La durata dell’orario di lavoro resta dunque un elemento fondamentale della strategia Ue sull’occupazione. L’obiettivo è ridurre l’orario o renderlo più flessibile.
La durata media della settimana lavorativa in Europa è scesa da 40,5 ore del ’91 a 37,5 ore del 2010 (36 nella Ce a 12). Il calo, rileva la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, è dovuto a quattro fattori: la percentuale della forza lavoro con orari più dilatatati (parliamo di 48 ore a settimana) è passata dal 15% del 2000 al 12% del 2010; la percentuale di lavoratori con orari più ridotti (20 ore a settimana) è quasi raddoppiata negli ultimi 20 anni; gli orari stabiliti con contrattazione collettiva si sono ridotti in molti Paesi e settori; la recessione ha contribuito alla riduzione dell’orario, in virtù di decisioni assunte dalle aziende o di schemi di lavoro promossi dagli Stati. L’orario di lavoro lungo resta una prerogativa maschile, in particolare dei lavoratori autonomi: quasi la metà di questi, infatti, lavora più di 48 ore a settimana. L’orario lungo, fa sapere la quinta indagine europea sulle condizioni di lavoro promossa da Eurofound, si conferma il più diffuso nel settore manifatturiero (nel 2010 il 20% degli occupati ha lavorato più di 48 ore alla settimana), seguito dai servizi (15% della forza lavoro). In media, gli uomini svolgono un lavoro retribuito per circa 7 ore in più a settimana rispetto alle donne. Nel 2010, il 26% degli occupati ha lavorato almeno una domenica al mese (era il 30% nel ’96), il 18% ha lavorato di notte. La revisione della direttiva sui tempi di lavoro, proposta dalla Commissione europea, non incontra i favori del sindacato che la giudica troppo sbilanciata verso le imprese e poco attenta alle questioni della salute e della sicurezza.
A preoccupare la Confederazione europea dei sindacati (Ces) c’è poi il quadro più generale di austerità che si va delineando con la nuova strategia Europa 2020 (dopo il fallimento annunciato della strategia di Lisbona), che punta sostanzialmente al taglio o al congelamento degli stipendi. Una scelta che può rivelarsi drammatica, sostiene la Ces, per la ripresa di un’Europa che fatica ad uscire dalla crisi e che non potrà certo beneficiare di una moderazione salariale che ha già creato molti vinti e pochi vincitori (la Germania). E tra i settori in difficoltà c’è quello pubblico, in drammatica ritirata a causa di una recessione che in gran parte dell’Ue ha imposto tagli generalizzati all’occupazione con ricadute inequivocabili sugli stipendi e sulla qualità dei servizi. In questo senso, è l’Italia a rappresentare in Europa una mai troppo considerata eccezione (e in questo senso gioca un ruolo purtroppo decisivo quella vulgata che considera “sindacato” sempre il solito interlocutore, lo stesso che in questi anni difficili ha preferito dire sempre “no” piuttosto che sostenere un percorso di responsabilità), grazie all’intuizione storica di una Cisl che ha dato un contributo decisivo nella salvaguardia dei posti di lavoro: lo dimostra il recente accordo tra Cisl, Uil e governo sul pubblico impiego, in clamorosa e positiva controtendenza con quello che sta accadendo nel resto dell’Unione europea.
Unione che sconta ritardi preoccupanti, come si accennava, sul fronte della sicurezza sul lavoro. La direttiva-quadro sul tema (1989) pone l’accento sulla necessità di “adattare il lavoro al singolo individuo”, tenendo conto della tecnologia, dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni sociali. Negli ultimi 20 anni, rileva tuttavia l’indagine sulle condizioni di lavoro, l’intensità del lavoro è aumentata in quasi tutti gli Stati membri: oltre il 60% lavora con “scadenze serrate” per un quarto del loro orario di lavoro). Per quasi il 70% il ritmo di lavoro dipende dalle richieste “dirette esterne” (interazione con un cliente, per esempio), mentre per il 18% degli occupati europei il ritmo di lavoro è stabilito dalla “velocità automatica di una macchina”. Sale a quasi il 40% per cento il numero dei lavoratori che menziona “il controllo diretto del superiore” come fattore determinante per il ritmo di lavoro. I pericoli per la salute del lavoratore restano: niente è cambiato rispetto a 20 anni fa. La situazione, sostiene la Ces rischia di peggiorare, se nel processo di revisione della direttiva sui tempi di lavoro, dovesse passare la cosiddetta clausola “opt-out individuale”, cioè la possibilità di clausole individuali che permettono di lavorare oltre il tempo stabilito. I lavoratori europei, dunque, rimangono esposti ai pericoli fisici. Il 33% porta carichi pesanti per almeno un quarto dell’orario di lavoro, mentre il 23% è esposto a vibrazioni: sono dati che dal 2000 a oggi sono rimasti invariati.
E ancora: da 10 anni, il 30% dei lavoratori europei è esposto a rumori forti per almeno un quarto della giornata, mentre il 15% respira fumo, esalazioni, polvere oppure maneggia sostanze chimiche pericolose.

Pierpaolo Arzilla
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