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  La guerra in Libia fra perplessità e paure

Data di pubblicazione: Venerdì, 3 Giugno 2011

TRAGUARDI SOCIALI / n.47 Maggio / Giugno 2011 :: La guerra in Libia fra perplessità e paure

di Carlo Costalli.
Presidente del Movimento Cristiano Lavoratori - MCL

La rapida evoluzione della situazione libica, i cui sviluppi delle scorse settimane nessuno era stato in grado di prevedere, ha spiazzato non soltanto le principali cancellerie occidentali ma anche una delle diplomazie più antiche, quella della Santa Sede.
Il Vaticano è sembrato in un primo momento avallare l’intervento autorizzato dall’Onu per fermare la repressione sui civili da parte del Rais di Tripoli, salvo poi, una settimana dopo, assumere una posizione più problematica, accompagnata dalla richiesta del cessate il fuoco.
Diversamente da quanto è avvenuto in passato per altri conflitti – in Kosovo, in Afghanistan, in Iraq -, la diplomazia pontificia questa volta ha preferito lavorare più sottotraccia, riducendo al minimo le prese di posizione pubbliche.
Di certo, rispetto agli anni scorsi, la posizione vaticana, e più in generale quella della Chiesa cattolica, è apparsa meno rilevante, quantomeno a livello di opinione pubblica.
A conflitto iniziato, domenica 20 marzo, è intervenuto una prima volta Benedetto XVI, senza chiedere che fossero fermati i raid, ma esprimendo preoccupazione per la salvaguardia dei civili. Le sue parole sono state lette da molti come un tacito avallo all’operazione. Interpretazione corroborata, sul versante della Chiesa italiana, dalle dichiarazioni più esplicite del presidente della CEI Angelo Bagnasco, il quale ha spiegato che “il Vangelo ci indica il dovere di intervenire per salvare chi è in difficoltà”, e dalla linea, inizialmente favorevole all’intervento militare, del quotidiano Avvenire.
Tutti gli ultimi pontefici hanno sostenuto che la guerra non è la soluzione per le controversie internazionali. E in altre occasioni, ad esempio per la prima come per la seconda guerra contro l’Iraq, nel 1991 e nel 2003, il Papa aveva espresso la sua decisa contrarietà.
Ma sarebbe sbagliato vedere nell’atteggiamento odierno un’evidente discontinuità con il pontificato wojtyliano. Ci sono infatti almeno due precedenti. Il primo è ciò che avvenne nel 1999, quando la Santa Sede, attraverso le parole dell’allora segretario di Stato Angelo Sodano, chiese alla comunità internazionale di porre fine alla pulizia etnica in Kosovo, coniando l’espressione “ingerenza umanitaria” e auspicando l’invio di una forza di interposizione.
Anche se poi la diplomazia pontificia avrebbe definito “sproporzionate” le risposte militari della Nato rispetto all’obiettivo di disarmare l’aggressore.
L’altro precedente è l’atteggiamento Vaticano in occasione dell’attacco anglo-americano in Afghanistan del 2001, poche settimane dopo gli attentati dell’11 settembre. Il portavoce Joaquin Navarro-Valls ricordò il diritto degli Stati all’autodifesa – anche preventiva – con mezzi aggressivi. A bombardamenti appena iniziati in Afghanistan, Giovanni Paolo II usò parole simili a quelle adoperate dal suo successore domenica 20 marzo, nel primo Angelus dopo l’attacco in Libia. Wojtyla infatti parlò dell’ “angustia e preoccupazione” che suscitava quel “delicato momento” senza condannare i raid né chiedere che si fermassero.
La dottrina dell’ingerenza umanitaria, precisata da Papa Wojtyla, è stata ribadita da Benedetto XVI nel discorso al Palazzo di Vetro dell’ONU nell’aprile 2008, quando ha ricordato la “responsabilità di proteggere” della comunità internazionale di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Perché allora a poco più di una settimana dopo l’inizio dei bombardamenti, il Papa ha chiesto “l’immediato avvio di un dialogo che sospenda l’uso delle armi” e il giorno successivo il presidente della CEI ha fatto lo stesso? In Vaticano si temono, probabilmente, tre conseguenze. La prima è che l’intervento internazionale per salvare i civili libici finisca per provocare tante vittime proprio tra quella popolazione che si cerca di proteggere, comeha testimoniato il Vescovo di Tripoli Giovanni Martinelli, contrario fin da subito all’attacco.
La seconda è che la continuazione dei raid, invece di favorire l’uscita di scena di Gheddafi, finisca per rafforzarlo, per cristallizzare la sua resistenza, allontanando sempre di più la soluzione della crisi.
La terza è che il proseguimento della guerra, l’incertezza sui possibili interlocutori della comunità internazionale nel Paese nordafricano e le possibili infiltrazioni terroristiche, aumentino le incognite sul futuro della Libia.
Ma crediamo abbiano influito anche le perplessità, per questa guerra, di gran parte del mondo cattolico (e non quello “storicamente pacifista”, stranamente assente questa volta perché, a detta di molti, troppo accondiscendente per tutto quello che dice e che fa Obama). E inoltre l’arroganza di alcuni partners europei (in primis la Francia) e la paura di una “invasione” di profughi con l’Italia lasciata sola da un’Europa ancora, clamorosamente assente, come con grande chiarezza ha fatto rilevare anche il Cardinal Bertone.
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