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  Un pasticcio che mette a rischio l’Europa politica

Data di pubblicazione: Domenica, 5 Giugno 2011

TRAGUARDI SOCIALI / n.47 Maggio / Giugno 2011 :: Un pasticcio che mette a rischio l’Europa politica

Vittorio Emanuele Parsi parla della crisi internazionale.

Ha un temperamento vulcanico, Vittorio Emanuele Parsi. Parla delle questioni di politica estera con la stessa naturalezza di chi descrive il giardino di casa propria, senza mai lasciarsi andare a speranze e ottimismi che non abbiano aderenza con la realtà.
Professore di Relazioni Internazionali nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dal 2002 insegna anche Economia all’Università italiana di Lugano. Commentatore di politica internazionale dell’Avvenire e de La Stampa, è opinionista dei Tg Rai, e collaboratore della trasmissione televisiva L’infedele (La 7). I suoi impegni non gli impediscono di interessarsi da vicino alle attività del MCL, verso cui nutre amicizia, partecipando a convegni, dibattiti, incontri pubblici. Lo abbiamo intervistato a Spalato, al convegno MCL sull’integrazione europea dei Balcani (di cui si parla ampiamente all’interno), dove è intervenuto come relatore.
Prof. Parsi, l’emergenza immigrazione è ormai questione all’ordine del giorno in politica estera, amplificata dalla rivolta dei popoli nord africani. Quali nuovi scenari politici ci sono dietro queste rivolte, impensabili fino a pochi mesi fa? E’ solo una questione di fame e di pane, o c’è dell’altro?
La questione alimentare è stata certo il catalizzatore di una protesta che riguarda i ceti più poveri, ma nel complesso la caratteristica della regione è quella di essere composta da ‘Stati patrimoniali’, cioè Stati in cui l’accesso in condizioni eque al mercato e all’economia è possibile solo se si hanno condizioni di accesso privilegiato al circuito politico.
Circuito politico ed economico sono sovrapposti: detto in parole povere ‘chi governa il Paese lo possiede’. Le liberazioni introdotte in anni recenti - la privatizzazione del patrimonio pubblico cui hanno potuto accedere solo ‘gli intimi del regime’ (è avvenuto ovunque in questi Paesi) -, hanno aggravato la situazione perché mentre in economie più stataliste era possibile sussidiare i consumi primari, nel momento in cui queste economie formalmente si destatalizzano ma in realtà passano gli asset dallo Stato gestito dai potenti ai potenti che lo gestiscono in forma privata, fanno venir meno anche questa forma di sussidio, rendendo la situazione ancora più esplosiva. Si tratta di popolazioni molto giovani e mediamente più acculturate dei loro padri o nonni: questo fa sì che tali regimi un po’ rozzi che potevano essere adeguati – non eticamente ma funzionalmente - per governare masse di contadini, non funzionano più nel governare oggi. Tutto ciò, messo insieme con l’efficacia della chiusura dei confini dei Paesi dell’Europa continentale, ha prodotto un mix esplosivo.
Alcuni hanno ipotizzato che esista una regia unica dietro le ribellioni che ormai hanno toccato tutte le regioni maghrebine spingendosi anche oltre, fino in Iran. La ritiene un’ipotesi di fantapolitica? E perché le ribellioni sono esplose tutte insieme proprio adesso?
Tutti adesso perché è successo un fatto inaspettato, la capacità di una rivoluzione di abbattere una classe dirigente in un Paese arabo: è quanto successo in Tunisia, un Paese abbastanza piccolo perché ciò potesse accadere. Questo ha sortito un effetto imitativo, suscitando nelle altre popolazioni, che avevano problemi simili, l’idea che si potesse fare qualcosa: quindi l’Egitto, poi la Libia, il Bahrein, la Siria lo Yemen. In parte anche l’Iran che però aveva anticipato la sua rivoluzione un paio di anni fa, rivoluzione fallita perché lì hanno usato una violenza più sistematica.
Ma una regia no: credo anzi che ciò la forza di queste ribellioni è che sono autoctone, da qui nasce la capacità imitativa. Se ci fosse una regia sarebbe estremamente difficile il contagio.
Secondo lei, il mondo occidentale ha delle responsabilità nella situazione che si è determinata?
E se sì, quali?
Sono anni che non sappiamo come trattare i problemi della sponda Sud. La Germania ha dimostrato un disinteresse totale a vivere l’Europa: l’astensione alla risoluzione 1973 che autorizzava l’uso della forza per bloccare Gheddafi è stata la massima manifestazione di questo disinteresse. La Germania ha una concezione dell’Europa come di una casa che affaccia sul Mediterraneo, ma che non ha finestre sul Mediterraneo: ecco perché è inadeguata alla leadership futura. Ma tutti i Paesi europei hanno traccheggiato all’inizio di queste rivolte. La reazione standard è stata: cosa succederà a noi per il cambio dei loro regimi? Questo ha paralizzato tutti, fino a quando la crisi libica da un lato e la richiesta di intervento della Lega araba dall’altro, hanno costretto i Paesi europei ad accettare quanto la Lega araba stava dicendo: ‘questo è uno spazio politico comune e abbiamo bisogno del vostro aiuto, che in questo momento deve essere militare’.
Il problema è come mantenere la consapevolezza dell’unità di spazio anche dopo l’intervento militare il che non vuol dire fuga in avanti verso improbabili riunioni, ma condivisione nell’affrontare i problemi. Lo abbiam visto con l’immigrazione: sicuramente si può rafforzare la vigilanza congiunta, ma l’unico modo per riuscire a governare il fenomeno è accordarsi con le autorità da cui provengono i migranti e questo presuppone che si renda più attrattivo il restare che il partire.
L’Europa in tutto questo mostra ancora una volta un atteggiamento da Ponzio Pilato. Mentre la Nato è sempre più in deficit di autorevolezza.
Qual è il suo parere in proposito?
La Nato non può farcela. Può occuparsi di gestire le operazioni militari quando ci sono, ma non è compito della Nato trovare il modo per strutturare relazioni politico-economiche stabili con questi Paesi: è un compito che spetta innanzi tutto ai Paesi europei. Sotto questo aspetto senza dubbio c’è un deficit della politica a livello internazionale anche perché ormai sono lontani gli anni in cui eravamo impegnati in altro, gli anni del grande allargamento dell’Europa. Ora c’è un problema che riguarda noi, gli arabi e l’Africa: se non troviamo il modo per rimettere in moto lo sviluppo dell’Africa, gli arabi e noi saremo travolti da massicce ondate migratorie.
Non ci sono da fare discorsi di accoglienza: è evidente che uno spostamento di popolazioni che assume cifre da esodo è di per sé destabilizzante e va prevenuto.
L’Italia è in costante affanno, sola nel gestire l’emergenza profughi. Cosa si potrebbe fare di più e meglio, secondo lei? L’Italia è la più esposta, ed aveva fatto una cosa che per quanto criticata da molti aveva funzionato: l’accordo con Gheddafi. Ora è vero che non è dal Mediterraneo che provengono quantitativamente le ondate più massicce, però è da qui che provengono le ondate più complicate da gestire. I senegalesi che vengono a fare i lavori domestici o i pakistani non sono un problema, il problema è l’immigrazione che viene dalla sponda Sud e che ha delle caratteristiche di offerta di qualità inferiore rispetto alla domanda ed è un’immigrazione prevalentemente maschile. Si tratta quindi di fare altri accordi con i Paesi della sponda Sud e di sensibilizzare e responsabilizzare.
L’Europa non può esserci solo quando fa comodo: o si fa carico degli immigrati che arrivano, e li ridistribuisce d’autorità, oppure ogni Paese farà per conto suo. E allora vuol dire che l’Italia, più esposta agli arrivi per le sue spiagge, cercherà di favorire in ogni modo la fuoriuscita di questi migranti anche verso altri Paesi europei.
Così si rischia una guerra di tutti contro tutti. Resta il fatto che gli altri Paesi dovranno spiegarci la loro politica, perché non si capisce come la Francia invochi i grandi valori della repubblica e si senta chiamata a intervenire quando si tratta di bombardare i libici, ma quando poi si tratta di accogliere i profughi i valori non contano più: bisogna spiegare questo internazionalismo intermittente che funziona solo in chiave muscolare e non in chiave di accoglienza. E’ veramente sconcertante.
Quindi sembrerebbe che un’Europa politica non ci sia, di fatto…
L’Europa sta rischiando di essere molto scossa da questo fenomeno che non ha voluto gestire e affrontare in quanto riteneva fosse troppo complicato.
E le cose troppo complicate lasciate marcire si complicano ulteriormente: questo vale per la politica di sicurezza ed estera comune che si è visto essere completamente inesistente in questa crisi, e nella crisi libica in particolare, vale per la questione immigrazione.
Era necessario l’intervento militare nella crisi libica? E cosa pensa del ruolo giocato dalla Francia e dagli Stati Uniti in questo difficile passaggio internazionale?
Era necessario perché dopo la richiesta delle lega araba era difficile star fermi. Dopo l’avallo dell’Onu oltretutto la passività sarebbe stata complicità.
Siamo intervenuti militarmente perché quello ci è stato chiesto. Purtroppo come sempre i tempi militari sono incerti: ci si illudeva che sarebbe bastata una scrollata di bombe per chiudere la partita, ma non è stato così. In nessuna campagna della storia si è mai risolto niente se non un momento prima che si trasformasse in campagna terrestre.
Basti pensare al Kosovo o all’Iraq. Questo è il problema: l’intervento di terra non è previsto perché sarebbe delicatissimo e dare le armi a ribelli che non conosciamo sarebbe ancor più rischioso che andare lì a combattere personalmente. Inoltre gli Stati Uniti sono molto defilati per motivi intuibili – ad essere troppo appariscenti hanno più da perdere che da guadagnare nei confronti dei Paesi musulmani – e questo ha creato il pasticcio della catena di comando. La Francia ha preteso una leadership che non ha nei fatti (e che nessuno gli ha riconosciuto) e questo ha confuso ancor più la faccenda, per cui resta difficile fissare non solo l’establishment ma anche gli obiettivi politici (a parte quello che Gheddafi se ne debba andare) e soprattutto quelli militari. In assenza di una coalizione coesa e di una vera leadership tutto diventa difficile: quando ci sono gli americani le campagne è ovvio che le guidino loro per il semplice motivo che da decenni contribuiscono alla sicurezza collettiva dell’Europa, e gli europei di buon grado accettano la loro leadership. Quando però non ci sono gli americani l’unica chance è portare la cosa dentro la Nato, non perché questa abbia la bacchetta magica ma perché è un’istituzione e le istituzioni son fatte apposta per gestire i dissidi fra gli interessi e le divergenze di opinione. Questo è il motivo per cui l’Italia ha giustamente chiesto che ci fosse l’intervento della Nato ed è anche il motivo per cui la Turchia ha cambiato opinione. Senza istituzioni tutto diventa più difficile.

Fiammetta Sagliocca
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