NOME UTENTE        PASSWORD  

Hai dimenticato la tua password?

Nell'ultimo numero di Traguardi Sociali:
Traguardi Sociali

Stai sfogliando il n.46 Marzo / Aprile 2011

Leggi la rivista in formato pdf Cerca numeri arretrati in archivio
.PDF Numero 46 (2642 KB) Sfoglia l'archivio di Traguardi Sociali Sfoglia l'archivio di Traguardi Sociali

  Immigrazione nella legalità

Data di pubblicazione: Martedì, 8 Marzo 2011

TRAGUARDI SOCIALI / n.46 Marzo / Aprile 2011 :: Immigrazione nella legalità

a cura di Carlo Costalli, Presidente del Movimento Cristiano Lavoratori.

Le recenti rivolte nel Maghreb (Tunisia, Egitto e Libia in particolare) hanno riportato al centro dell’attenzione il tema ‘immigrazione’ e, conseguentemente, il tema delle società multiculturali in Europa.
Bisogna aver chiaro cosa si intende per ‘società multiculturale’. Essa non può significare che le varie comunità culturali vivano ognuna separata dall’altra, nel ghetto proprio. Ognuna con le proprie regole di vita qualsiasi esse siano.
Questa non è integrazione ma un accostamento caotico di diverse entità chiuse in se stesse che non comunicano. Come non favorisce l’integrazione la costituzione di classi scolastiche composte tutte da alunni di una certa etnia culturale. Non favorisce l’integrazione nemmeno il permettere che gli antichi cittadini di un quartiere debbano abbandonare le case ove sono da sempre vissuti perché ‘invasi’ da gente di diversa cultura che ha monopolizzato il territorio. Purtroppo è successo soprattutto questo in Europa.
Di solito capita che le comunità immigrate che vivono tra di loro senza integrazione non coltivano nessun senso di appartenenza verso il Paese che li ha accolti, anzi, per rivendicare la propria autonomia, e per non farsi assimilare, resistono ai costumi e alle leggi locali tendendo a conservare completamente i propri costumi e a darsi spesso delle proprie leggi. Si creano così delle sacche, delle nazioni nelle nazioni, chiuse tra loro a compartimenti stagni.
La partecipazione degli immigrati al nostro sistema di welfare non può essere l’unica forma di risposta alla necessità di integrazione perché è solo una risposta di tipo amministrativo e burocratico.
Un tema strettamente connesso con tutto ciò è il famoso criterio del ‘rispetto delle regole’.
Si dice spesso: “Bisogna accogliere chi entra nella nostra società, ma nel rispetto delle regole”. Il principio è corretto e l’esigenza è legittima. Però le regole rivelano sempre una cultura, non sono mai semplici procedure formali.
Non c’è una legalità senza la cultura della legalità e la cultura della legalità riguarda non solo gli ambiti del diritto e della legge, ma anche la concezione della persona e dei motivi del nostro stare insieme. Le nostre leggi sono frutto, talvolta riuscito talvolta meno, di secoli di storia, di influssi religiosi e filosofici, di un costume diffuso. Non è quindi sufficiente rifarsi al rispetto delle regole ma bisogna anche esprimere fiducia che le nostre regole hanno un senso preciso ed esprimono non solo una convenzione ma anche dei valori. Anche a questi valori bisogna educare i nuovi venuti, per insegnare i quali non è certo sufficiente un corso di poche ore sulla Costituzione.
Qui è importante affrontare un altro problema: chi siamo noi? Questo è il primo problema da affrontare, prima ancora di chi sono loro? Che senso hanno per noi le nostre regole? Sono frutto di un semplice accordo procedurale oppure nascondono dei profondi significati e dei valori che riteniamo universali? Quanto siamo disposti a proporle ed a difenderle? Per poter dialogare, e magari anche modificare alcune nostre idee e prassi consolidate, dobbiamo però partire da una nostra identità. Da qui sarà anche possibile capire la verità nascosta nelle altre; viceversa ci sarà solo la ‘marmellata’ di una caotica società multiculturale. Se ci guardiamo però intorno, non vediamo una forte consapevolezza della grandezza e dei limiti della nostra cultura.
Vediamo piuttosto molta indifferenza e molto relativismo.
Tutte le culture sono uguali si dice, quando non si parte addirittura dal presupposto che la nostra cultura è comunque sbagliata e anzi che tutti i mali dell’umanità sono dovuti ad essa. Questo relativismo culturale è frutto di un relativismo più ampio e molto presente nella nostra società: il relativismo etico.
Una società che non sa più cosa sia la famiglia, che prevede l’aborto o la possibilità di sottoscrivere un testamento biologico, che prevede il suicidio assistito, che non sa dire no a delle coppie omosessuali che pretendono un riconoscimento giuridico, è una società che non sa più da dove viene né verso dove vada. E’ quindi una società che non sa più chiedere all’immigrato chi egli sia, da dove venga e soprattutto dove voglia andare. Va a finire che o lo accoglie o lo respinge, ma in ambedue i casi senza un vero motivo. Solo se sappiamo dove vogliamo andare noi saremo anche in grado di chiedere agli altri dove vogliono andare ed accompagnarli, facendo tratti di strada, più o meno lunghi, insieme. E’ questo qualunquismo rispetto alla nostra identità che alimenta, da un lato, il massimalismo dei respingimenti e, dall’altro, il colpevole buonismo dell’accoglienza indiscriminata. Succederà che a scuola non saremo in grado di insegnare la nostra cultura ed i nostri valori ai figli degli immigrati per il semplice fatto che non ne siamo convinti e che scambiamo l’accoglienza e l’integrazione per l’indifferenza. Quando in una classe i genitori italiani capiscono che la nostra storia, la nostra religione, la nostra letteratura non vengono più insegnate perché sarebbe un atto di violenza per i figli degli immigrati, nasceranno, per forza, tensioni e proteste. Quando diventerà impossibile, e in parte lo è già, proporre una visione di persone e di famiglia e stigmatizzare alcuni comportamenti sia nella nostra società che in quelle di culture diverse, la scuola cesserà di educare e si limiterà ad istruire: ma con l’istruzione non si realizza alcuna integrazione. Le problematiche relative all’integrazione richiedono certamente un’attenzione ai diritti sia di chi accoglie sia di chi viene accolto. Ma oltre ai diritti dobbiamo ragionare anche sui doveri. I diritti presi da soli non sono in grado di costituire nessuna identità comunitaria. Chiedersi chi siamo vuol dire precisare il quadro dei doveri dentro cui inserire i nostri diritti e quindi i diritti di chi emigra. Questo si chiama ‘cittadinanza’. La cittadinanza non è solo acquisizione di diritti, essa è prima di tutto accoglienza di doveri, dentro i quali godere dei diritti non arbitrari.
E’ ovvio che se non abbiamo chiaro questo per noi, non possiamo proporlo in modo chiaro agli immigrati.
Abbiamo paura a concedere dei diritti perché non sappiamo quali doveri chiedere loro di assumere. Chiedendo agli immigrati di assumere prima di tutto dei doveri, la nostra società è costretta a verificare se stessa circa il rispetto di quei doveri. Se la nostra società si limita a conferire diritti, rimane preda dell’indifferenza dei diritti. Qui sta la ‘ragione politica’ e la sua capacità di conoscere, e quindi trovare un accordo condiviso, su un quadro di doveri (e poi diritti) di riferimento per tutti.
Dobbiamo decidere se sapremo accogliere e non solo inserire, accostare, ammucchiare.
La Conferenza nazionale che si è tenuta a Napoli l’11 e 12 febbraio, e della quale parliamo in altre pagine di Traguardi Sociali, ha cercato di dare alcune risposte a questi interrogativi.
 Torna ad inizio pagina 
Edizioni Traguardi Sociali | Trattamento dati personali