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  Europa: ora lotta alle ineguaglianze, anche salariali

Data di pubblicazione: Martedì, 9 Aprile 2013

TRAGUARDI SOCIALI / n.57 Marzo / Aprile 2013 :: Europa: ora lotta alle ineguaglianze, anche salariali

La Commissione europea vuole coinvolgere le parti sociali.

Prosegue anche in questo numero la corrispondenza da Bruxelles, curata dal giornalista Pierpaolo Arzilla. ‘Una finestra sull’Europa’ questa volta si occupa del progetto della Commissione europea che ha in mente di coinvolgere la Ces nei processi di governance economica.

La Commissione europea vuole coinvolgere ufficialmente le parti sociali nel semestre europeo, e cioè in quella fase temporale che va da gennaio a luglio in cui i capi di Stato e di governo definiscono gli orientamenti dell’Unione europea per le politiche nazionali, elaborando orientamenti strategici su aspetti macroeconomici, di bilancio, riforme strutturali e misure di stimolo alla crescita.
Un’occasione storica per la Confederazione europea dei sindacati di incidere attivamente sui processi della governance economica, soprattutto con misure destinate alla crescita, in un’ideale fase due dell’azione di uscita dalla crisi, con cui l’esecutivo Ue si propone di bilanciare le scelte rigoriste con investimenti per lo sviluppo e l’occupazione.
L’esito delle trattative sul budget Ue 2014-2020, tuttavia, sembra andare in una direzione esattamente opposta a un percorso di sviluppo, se è vero che per la prima volta l’Unione europea avrà un bilancio più basso rispetto al settennato precedente, e che andrà soprattutto a penalizzare il Fondo sociale europeo.
Un “brutto segnale”, secondo la Ces, che vuole invece aprire una riflessione sui salari, perché “non può esserci vera crescita - sostiene il sindacato di Bl. Roi Albert II – senza una positiva incidenza sui salari”. E dal 2008 a oggi, e cioè dall’inizio della crisi e con la conseguente risposta dei governi, una risposta all’insegna dell’austerità, è drammaticamente evidente l’indebolimento del potere d’acquisto degli stipendi e l’aumento delle diseguaglianze salariali.
Due effetti che a loro volta causano, osserva la Ces, una riduzione non solo della domanda aggregata, ma anche della crescita e dunque dell’occupazione.
Le disuguaglianze, inoltre, aumentano le differenze salariali di genere, così come il numero di lavoratori che vivono in povertà, e riducono le opportunità formative.
La timida apertura della Commissione a un salario minimo europeo non può essere sufficiente, rileva l’Etuc, perché la politica salariale europea non può limitarsi esclusivamente al minimum wage. Occorre, infatti, riconoscere la rappresentanza sindacale e la contrattazione collettiva come strumento di abbattimento delle ineguaglianze, e non di impedimento della crescita come teorizzato dal Fmi. La trappola della moderazione salariale, avverte il sindacato europeo, è tale perché penalizza non solo i flussi attuali di lavoratori a basso stipendio, le cui probabilità, per esempio, di istruzione o formazione continua si riducono al minimo, ma anche le future generazioni, riducendone una mobilità sociale già piuttosto discutibile. Il grande rischio è che l’effetto domino del dumping salariale potrà coinvolgere anche le economie in surplus, che sconteranno la crisi delle loro esportazioni verso l’Europa mediterranea, con l’aumento della disoccupazione. Il circolo vizioso, allora, sarà completo, fa notare la Ces, perché gli Stati in surplus risponderanno alla crisi con la stagnazione dei salari. In questo modo, l’economia dell’Eurozona si confermerà a bassa competitività con un’ulteriore caduta della domanda interna, capace di generare una recessione permanente (del resto, le previsioni economiche della stessa Commissione stimano un Pil dell’Ue a 17 a -0,3 per il 2013).
E mentre la Ces analizza scenari presenti e futuri, la Dgb, il grande sindacato tedesco, prova a dare a un contributo alla ripresa, proponendo addirittura un Piano Marshall per l’Europa per il periodo 2013-2022, che nasce dall’esigenza di legare in maniera molto stretta lo sviluppo economico nel breve termine con potenziali di crescita nel medio-lungo periodo. L’idea della Dgb si fonda su un mix di misure istituzionali, investimenti nel settore pubblico, incentivi al consumer spending (per combattere, nello specifico, la crisi nel brevissimo termine) e agli investimenti delle aziende, con l’obiettivo di modernizzare le economie dei 27 e aumentare la competitività delle imprese con un occhio al risparmio energetico e al taglio delle emissioni di CO2. A finanziare parzialmente il nuovo Piano Marshall, sarà la tassa sulle transazioni finanziare (Tobin Tax), che se applicata in tutti i Paesi membri (ma per ora hanno detto sì solo in 12, tra cui l’Italia) darebbe ogni anno una disponibilità tra i 75 e 100 miliardi di euro, fa sapere la Dgb. Il “costo” degli investimenti per crescita e occupazione sarebbe pari, secondo i calcoli dei tedeschi, a 260 miliardi l’anno, di cui 150 in investimenti su politiche energetiche. Tra i benefici annuali per l’intera Unione europea, elencati dalla Dgb, troviamo un aumento dei Pil nazionali pari al 3 per cento, una crescita di 400 miliardi, tra i 9 e gli 11 milioni di nuovo posti di lavoro full time ogni anno, 104 miliardi di entrate fiscali complessive per gli Stati membri, 56 miliardi di redditi addizionali dai contributi per la sicurezza sociale, 20 miliardi di risparmi per i sussidi di disoccupazione, 300 miliardi di risparmio medio sulla riduzione delle importazioni di combustibile. Alla voce “finanziamenti e rimborsi”, la Dgb segnala anche 180 miliardi di euro all’anno di emissione media di Eurobond (che il sindacato tedesco ribattezza New Deal Bond), tra i 75 e 100 miliardi annuali, come detto, ricavabili dalla Tobin Tax, e 100 miliardi di rimborsi dei prestiti agli investitori pubblici e privati.

Pierpaolo Arzilla
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