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  Le politiche del lavoro sono targate Ue

Data di pubblicazione: Sabato, 9 Giugno 2012

TRAGUARDI SOCIALI / n.53 Maggio / Giugno 2012 :: Le politiche del lavoro sono targate Ue

Bruxelles detta le regole

Prosegue anche in questo numero la corrispondenza da Bruxelles, curata dal giornalista Pierpaolo Arzilla.
‘Una finestra sull’Europa’ questa volta si occupa delle politiche del lavoro e occupazionali in un’Europa che diventa sempre più presente se non addirittura invasiva nelle scelte politiche nazionali.
Pierpaolo Arzilla


Non è ancora un “employment compact”, ma poco ci manca. Almeno nelle intenzioni di un’Europa che mira a essere sempre più invasiva nella vita delle nazioni, anche e soprattutto in quelle materie che non contemplano (ancora) particolari “invasioni di campo”. Ma la crisi economica e il ventennio perduto che comincia con i trattati di Maastricht e Schengen, disattesi dalla gran parte del club dei 27, sembrano davvero rappresentare un’opportunità irripetibile per i tecnocrati di Bruxelles per entrare dalla porta principale delle cancellerie e dettare una linea che non valga solo per i massimi sistemi della dottrina di bilancio. Altre dottrine, si sostiene all’interno della Commissione, meritano un “coordinamento nuovo”, e dunque una ulteriore riduzione di sovranità di Paesi capricciosi e inaffidabili.
Dopo Six Pack e Fiscal compact (l’ultima occasione per ridare ai parametri di Maastricht quello che è dei parametri di Maastricht), l’Ue tenta di imporre la propria linea anche su crescita e lavoro. Con il Pacchetto Occupazione, palazzo Berlaymont non si limita ad aprire il solito libro dei sogni (20 milioni di posti di lavoro entro il 2020), e a sollecitare raccomandazioni agli Stati membri. L’Ue vuole porsi nelle condizioni di verificare quello che fanno (e non fanno) i governi, entrando tutt’altro che in punta di piedi nei processi decisionali.
L’obiettivo, è quello di un mercato del lavoro Ue che si fondi sul monitoraggio e il controllo delle politiche occupazionali dei 27, in linea con quella governance economica che vuole marciare in parallelo con una vera e propria governance del lavoro.
Si tratta, per esempio, di rendere effettiva la mobilità del lavoro e di rimuovere quegli ostacoli, legali e pratici, che impediscono la libera circolazione dei lavoratori, migliorare la portabilità delle pensioni e il trattamento fiscale dei lavoratori transfrontalieri. La Commissione sollecita gli Stati membri a esportare le prestazioni di disoccupazione alle persone che cercano lavoro in un altro Paese (per un periodo fino a 6 mesi). L’Europa chiede non solo di eliminare quelle restrizioni nell’accesso al mercato del lavoro per i lavoratori bulgari e rumeni, ma anche di cancellare quelle legislazioni che non consentono ai cittadini di uno Stato membro di lavorare nel settore pubblico di un altro Stato membro.
Una rivoluzione autentica, verrebbe da dire, per la quale il Commissario europeo all’occupazione, Laszlo Andor, ha pensato bene di citare proprio il nostro Paese, come esempio di realtà occupazionale in cui il pubblico (“in Italia, per esempio, guide turistiche e tassisti sono mestieri che possono fare solo gli italiani, credo che tutto questo vada ripensato se vogliamo davvero avere un mercato unico Ue e la libera circolazione dei lavoratori”) è una riserva protetta.
La strada verso l’employment compact s’invera, come accennato, con un monitoraggio più forte delle politiche occupazionali nazionali. Dal 2013, infatti, la Commissione vuole introdurre un quadro di controllo per seguire i progressi realizzati dagli Stati membri nell’attuazione dei loro piani per il lavoro: saranno tabelle di valutazione annuale, fa sapere Bruxelles, a verificare se i Paesi rispettano gli impegni. I governi saranno chiamati a fornire “chiare indicazioni delle priorità” e il contributo delle parti sociali nel monitoraggio dei salari sarà ritenuto fondamentale (è importante, scrive la Commissione, “coinvolgere le parti sociali europee e nazionali nella preparazione delle priorità economiche e occupazionali, in particolare la preparazione del semestre europeo; c’è inoltre la necessità di un loro maggiore coinvolgimento in un monitoraggio più costante delle evoluzioni salariali nei singoli Paesi e degli effetti combinati a livello europeo”).
Nello specifico, l’Europa intende rilanciare l’occupazione in tre “mosse”: green economy, sanità e nuove tecnologie, una scommessa da 20 milioni di posti lavoro.
Economia verde, servizi sanitari e Tlc rappresentano, secondo l’Ue, potenzialità occupazionali ancora poco valorizzate. L’Ue annuncia sussidi alle assunzioni nel caso di creazione di nuovi posti di lavoro, e punta allo spostamento del carico fiscale (che sia neutro sotto il profilo del bilancio) dalla tassazione che grava sul lavoro alle tasse ambientali. Oltre una reiterata attenzione verso la crescita delle competenze legate all’economia “verde”, la Commissione intende migliorare la pianificazione e la previsione delle necessità di manodopera nella sanità “per meglio equilibrare la domanda e l’offerta di operatori sanitari, offrendo loro prospettive di lavoro di lungo periodo e stimolando lo scambio di strategie efficaci per il reclutamento e la fidelizzazione degli operatori sanitari”.
L’Europa ambisce a un mercato del lavoro più dinamico, che sia realmente in grado di stimolare “la flessibilità interna per ridurre l’insicurezza del lavoro e i costi fiscali”, definire “salari decenti e sostenibili ed evitare le trappole dei bassi salari”, assicurare soluzioni contrattuali adeguate “per prevenire il ricorso eccessivo ai contratti non standard”, investire su formazione permanente e competenze, per superare l’inadeguatezza dei titoli di studio rispetto all’offerta di abilità (4 milioni i posti di lavoro attualmente vacanti nell’Unione europea). Per contrastare la disoccupazione giovanile, la Commissione europea ha avviato inoltre la campagna We Mean Business, che intende incoraggiare le imprese a creare un maggior numero di tirocini per agevolare i giovani nel passaggio dal mondo dell’istruzione e della formazione a un primo collocamento lavorativo. Nel biennio 2012-2013, con i programmi Leonardo da Vinci ed Erasmus, l’Europa sosterrà un impegno finanziario per un totale di 280mila collocamenti. Agli Stati membri, l’Ue raccomanda poi l’introduzione di un salario minimo unificato. Non è quindi una proposta generale per l’Unione europea, “perché conosciamo le diversità dei Paesi”, sostiene la Commissione, che ritiene il salario minimo uno strumento in grado “di favorire la competitività, combattere la povertà e gestire la domanda aggregata nell’economia”: un incentivo “a rendere più attraente il lavoro in quei Paesi con un’economia grigia molto diffusa”.
Se Business Europe (la Confindustria europea) accoglie con favore il Pacchetto Occupazione, invitando la Commissione a non guardare solo alle politiche nazionali del lavoro, ma a valutare anche l’impatto di tutte le politiche comunitarie in materia di crescita e di occupazione, il sindacato europeo non sembra lasciarsi incantare dalle prospettive dell’employment compact.
Molta teoria e nessun provvedimento concreto, commenta in sostanza la Ces. Il pacchetto occupazione, affermano i sindacati di Bruxelles, non creerà nuovi posti di lavoro e non rilancerà l’economia, soprattutto se gli Stati continueranno ad applicare rigide misure di austerità. Le proposte della Commissione, osserva l’Etuc, non potranno compensare il fallimento delle politiche macroeconomiche in atto, che stanno colpendo gravemente le economie degli Stati membri. Senza i necessari investimenti sui settori pur correttamente individuati per il rilancio (sanità, Tlc e green economy), ma anche su competenze, formazione continua, salari, servizi sociali e sanitari, le raccomandazioni di Bruxelles, osserva la Ces, “resteranno solo buone intenzioni”.
E le Pmi europee (Ueapme), parlano invece di approccio ancora troppo “timido” alle difficoltà del mercato del lavoro e sull’apprendistato in particolare.
Perché se da un lato è positiva – spiegano - l’impostazione verso la flexsecurity e la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, dall’altro mancano riferimenti allo Small Business Act e al principio del Think Small First, sulla necessità cioè di rendere prioritario un intervento proprio sulla realtà delle piccole e medie imprese, spina dorsale produttiva non solo dell’Italia ma dell’intera Unione europea.
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