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  DOCUMENTO

Data di pubblicazione: Martedì, 21 Settembre 2010

TRAGUARDI SOCIALI / n.43 Settembre / Ottobre 2010 :: DOCUMENTO

UN' AGENDA DI RIFORME PER UN FUTURO DI SPERANZA

I
l Movimento Cristiano Lavoratori, MCL, intende offrire questo contributo in occasione della celebrazione della 46a Settimana Sociale dei cattolici italiani, innanzitutto
come segno della volontà di stare dentro il percorso e la riflessione della comunità ecclesiale italiana.
Non si tratta della elaborazione di un centro studi o del lavoro di esperti, è, invece, una sorta di compendio delle posizioni che il MCL, nella sua dimensione nazionale
e territoriale, ha espresso in questi mesi a partire dal Congresso del dicembre 2009 ed attraverso momenti specifici di approfondimento.
E’ frutto, dunque, di un’esperienza vissuta attraverso quella vocazione popolare del Movimento che continua a confrontarsi quotidianamente con le diverse situazioni
e questioni che a Reggio Calabria, e nel cammino successivo, verranno evidenziate.
Carlo Costalli
Presidente MCL


LE PRIORITà

Il dibattito che ha animato il Congresso MCL nel dicembre scorso, al quale hanno contribuito autorevoli esponenti della Chiesa, delle istituzioni e della società italiana ed europea, si è imperniato sugli aspetti del primato del lavoro rispetto alle cosiddette leggi dell’economia, del mercato e di quella cattiva finanza che, staccandosi dall’economia e dal lavoro reali, e rifiutando riferimenti etici e valoriali, è stata causa della crisi ancora in atto. In occasione delle Settimane Sociali il MCL ribadisce la necessità di tenere alta l’attenzione nei confronti di tale primato, intendendo riferirsi principalmente alla persona che lavora quale parte inscindibile di una famiglia e di una comunità.
La fase peggiore della crisi sembra passata e vi sono segnali di ripresa anche se i dati sono contraddittori e, soprattutto, non sono stati fatti passi significativi riguardo alle cause che l’hanno generata, con il rischio che i momenti di difficoltà si ripresentino ciclicamente.
Ci preoccupa che venga messo in secondo piano il dato relativo alla disoccupazione che continua ad essere molto elevato (il più alto dal dopoguerra nei Paesi Ocse) con poche previsioni di miglioramento e che
determina, come diretta conseguenza, la contrazione rilevante del potere d’acquisto delle famiglie e dell’incremento del loro indebitamento, come risulta dalla quantità delle richieste di credito rivolte alle tante diocesi e alle altre realtà che hanno attivato fondi di sostegno volti anche a sollevare dalle situazioni di nuova povertà.
Insistiamo nel richiamare l’attenzione su questi fatti perché non vorremmo ci si abituasse all’idea di un’economia che cresce ma a scapito dei posti di lavoro, in particolare dei giovani che registrano tassi di disoccupazione straordinari nonostante le diverse opportunità che la normativa offre.
La percentuale di disoccupazione giovanile tocca livelli altissimi e diventa una questione nazionale cui dare attenzione prioritaria per tutte le diverse conseguenze negative che comporta o può provocare in prospettiva.
Piuttosto che considerare la disoccupazione una questione congenita ci sembra, al contrario, che vada fatto tutto il possibile per individuare un modello di sviluppo che preveda e renda possibile la piena occupazione. Pensiamo che il Santo Padre si riferisca proprio a questa esigenza quando, nella Caritas in Veritate, scrive “la dignità della persona e le esigenze di giustizia richiedono che si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti”.
Certo non possiamo pensare che la soluzione sia aspettare che la crisi passi definitivamente né avviarci ad una stagione di sola attesa che le cose cambino e neppure affidare tutto alle invocate “scelte di campo” nei momenti elettorali: vorrebbe dire rinunciare alle responsabilità che abbiamo come cittadini e cristiani.
Ciò che ci è richiesto da sempre, ma oggi in maniera più stringente, è di dare il nostro contributo con umiltà, senza demagogia e senza fabbricarci “idoli”.
Per quanto riguarda il MCL, l’appartenenza ecclesiale si configura come il miglior antidoto al cristallizzarsi della partecipazione in militanza ideologica e dell’organizzazione associativa in apparato autoreferenziale attraverso la capacità di stare al passo con i tempi.
Si sta davvero al passo con i tempi (che è cosa ben diversa dall’essere travolti e trainati dalle tendenze del momento) se il cuore della nostra azione risiede in un punto ideale ma, allo stesso tempo, capace di rimanere ben dentro la realtà.
Proprio la capacità di coniugare identità e risposte alle sfide di un mondo in continua e veloce involuzione (relativismo, mancanza di pensiero, assenza di riferimenti etici) è l’indirizzo che intendiamo assumere e offrire a tutti nella prospettiva di quel bene comune che è stato il tema della scorsa edizione delle Settimane Sociali di Pisa- Pistoia e che continuiamo a considerare l’unica motivazione e giustificazione della politica, dello Stato e delle sue articolazioni, della stessa attività economico-finanziaria.
A questo proposito occorre fare uno sforzo, in primo luogo culturale, per sfatare definitivamente quella concezione così dannosa, ma assai radicata, che considera il bene comune quale prerogativa dello Stato e del pubblico.
In verità, il bene comune è nella sfera di responsabilità della singola persona che, attraverso la sua capacità di intraprendere, costruisce dapprima la famiglia e poi, via   via, comunità più grandi all’interno delle quali ognuno contribuisce mettendo a disposizione i propri carismi.
Il bene comune è, inoltre, compito dell’economia e della finanza ed in ultima analisi dell’impresa (comunità di persone secondo la DSC): anche qui occorre sovvertire l’idea che spetti all’economia guidata dal mercato produrre ricchezza e poi sia compito dello Stato e della politica ridistribuirla o compensare i danni prodotti.
E’ proprio tale visione che ci ha portato ad un modello di welfare assistenzialista e risarcitorio che pesa come un macigno sulla nostra società attuale ed ha impedito l’affermarsi di un corretto sistema sussidiario nel quale tutti siano responsabili di tutti.
Nel momento in cui vengono chiesti sacrifici attraverso tagli di spesa (secondo noi indilazionabili ma troppo “orizzontali”), suona come un insulto ed eccesso di ingiustizia il dato sull’evasione diffuso in luglio dall’Istat che fissa vicino ai 275 miliardi di euro l’imponibile sottratto al fisco ed a tre milioni il numero dei lavoratori “sommersi”.
Ciò è la rovina del nostro Paese, il macigno che pesa sulla crescita, il limite ad un livello decoroso di welfare, l’handicap dal quale siamo sempre costretti a ripartire.
Crediamo che ulteriori limitazioni ai servizi e sacrifici diffusi indistintamente su tutte le fasce della popolazione, anche le più deboli, non saranno accettati né otterranno consenso sociale se non verrà affrontata con radicale determinazione ed urgenza una piaga così offensiva nei confronti di chi, con onestà, contribuisce al benessere non solo personale ma complessivo.
Chi evade non è più astuto degli altri, semplicemente ruba agli altri ed in particolare a chi ha più bisogno: si tratta di colpa grave anche dal punto di vista etico-morale.
E questo vale anche per le diffuse situazioni di corruzione e di intreccio politica-affari recentemente denunciate dalla Corte dei Conti.
Ciò che serve è un moto di popolo che, anziché chiudere gli occhi, alzi la voce in difesa di una società giusta e solidale che la politica e le istituzioni, da sole, non sono in grado di promuovere e garantire.



I
SOGGETTI

La Lettera di aggiornamento diffusa dal Comitato scientifico e organizzatore afferma che “la possibilità di tornare a crescere nel nostro Paese dipende dalla capacità di mettere o rimettere in gioco altre energie sociali, capaci di modificare gli equilibri in cui ci troviamo e generare più opportunità per tutti e ciascuno”. E’ evidente la constatazione che gli attuali e tradizionali “attori” non sono più in grado di promuovere e garantire una società giusta e orientata al futuro ed alla crescita perché, come ha recentemente affermato il Card. Bagnasco “ci troviamo in una fase di sottosviluppo morale e di mancanza di etica nella vita pubblica”. Per questo la definizione di un’agenda deve andare di pari passo con la ricerca di soggetti sociali vitali capaci di cooperare alla rigenerazione della pòlis.
Il primo di questi soggetti è certamente la famiglia definita “protagonista di vigilanza e di rinnovamento umano e sociale, capace di fortificare il tessuto della nostra società”.
Come il MCL afferma da tempo, a fianco della famiglia, che è la roccia su cui poggia il nostro convivere, ci sono altri soggetti che possono esercitare un ruolo nuovo e strategico nella configurazione di una società rinnovata: si tratta della cosiddetta “società di mezzo”, dei corpi intermedi che operano, rivendicano, mediano esercitando una specifica responsabilità, premessa fondamentale per assicurare la vitalità della democrazia e la coesione sociale.
E’ evidente che i corpi sociali hanno la possibilità di incidere sulla realtà se sono forti, radicati sul territorio, “dentro” la città.
Ancor più se riescono ad identificare progetti e azioni comuni: è questo il motivo della nascita del “Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro” costituito da Cisl, MCL, Confartigianato, Confcooperative, CdO e Acli, con lo scopo primario di ricostruire il senso comune dell’azione sociale delle associazioni che storicamente si sono ispirate Alla Dottrina   sociale della Chiesa
Riteniamo che sia questa un’occasione propizia per far valere quel “blocco” sociale per buone riforme, troppo a lungo e colpevolmente lasciate fuori dall’agenda della politica, e superare quella situazione di stagnazione, rinuncia e delega che viviamo.
Non semplicemente “puntellando” la situazione ma modificando i precari equilibri incui ci troviamo, rigenerando il nostro tessuto sociale, economico e politico.


GLI ARGOMENTI

Questione antropologica “fondativa”

Già nell’ambito della preparazione alla 45a Settimana sociale si affermava che “recuperare la piena verità sull’uomo, sul suo posto nel cosmo e nella storia, sulla sua natura metafisica e la sua stessa identità antropologica fosse la via assolutamente necessaria per impostare in modo adeguato l’intera questione sociale”.
Vogliamo riaffermarlo con decisione anche in questa occasione: non c’è problema sociale, economico o politico che non debba fondarsi su una prospettiva antropocentrica all’interno della quale c’è un’area, quella della vita e della morte, in cui si consuma un conflitto epocale che potrebbe definitivamente cambiare il mondo che conosciamo e che vogliamo, piuttosto, preservare e migliorare. Rivendicando la piena legittimità di un “diritto di proposta” che sembra negato ai cattolici ed esercitando, se necessario, quella che qualche autorevole commentatore ha definito come “ingerenza umanitaria”.
Ci aspettiamo che la politica trovi le debite convergenze almeno sugli aspetti che riguardano la difesa della vita dal concepimento alla sua naturale conclusione, dalla procreazione assistita al “testamento biologico”. Grande attenzione va posta su ciò che succede nei laboratori del mondo ed alle decisioni tecnico-politiche che, se non attentamente valutate, possono portare a conseguenze impensabili e drammatiche.

Bene comune e riconciliazione

E’ sotto gli occhi di tutti che nei rapporti tra persone o gruppi, e ancor più nei rapporti politici, al principio della ricerca del bene comune si è anteposto l’interesse diparte.
E se l’affermazione di una parte diventa il fine di ogni agire allora i rapporti si irrigidiscono, proliferano gli antagonismi, va in fumo la coesione sociale e si offrono le basi per la degenerazione complessiva della società.
Una campagna elettorale senza fine, cronica, con l’utilizzo di ogni mezzo bellico possibile, si è ormai sostituita alla corretta gestione della cosa pubblica. Vediamo come troppa “politica” (o di quello che viene spacciato come politica) abbia quale conseguenza paradossale l’assenza di una vera politica, al punto che questa è diventata un fine e non un mezzo così come un fine sono, ormai, la vittoria elettorale ed il consenso. In questa situazione qualsiasi riforma che sia degna di tale nome correrebbe il pericolo di essere improponibile, così come rischierebbe di essere vana la proposta di una “agenda” di priorità.
Ci sembra di poter affermare che occorre “riconciliare per riformare”: infatti, sentiamo viva l’esigenza di rapporti più sereni e non di conflitto continuo, di toni più bassi ma più propositivi, di sfoderare pensiero ed idee piuttosto che armi (come noto anche le parole e gli scritti fanno danni…).
E di riconciliazione non c’è necessità solo tra i partiti e i personaggi politici ma anche nelle comunità locali, nei luoghi di lavoro e nelle stesse comunità cristiane.
La divisione si è insinuata ovunque da quando si è colpevolmente ritenuto che l’appartenenza politica fosse, o continui ad essere, il criterio con cui giudicare tutto il resto, vita ecclesiale e di fede comprese, con
un evidente squilibrio nell’ordine dei valori.

Educazione

Proprio nel momento in cui ci dibattiamo tra i problemi economici, l’educazione deve essere una priorità. Spesso l’educazione viene confusa o ridotta a semplice formazione o allo sviluppo delle competenze.
Questi aspetti sono certamente importanti ma non esauriscono in alcun modo la questione educativa.
Non è necessario solamente trasmettere delle conoscenze, occorre soprattutto imparare a rischiare la propria
libertà, ad essere responsabili verso se stessi e verso la comunità assumendosi doveri oltre che rivendicare diritti, discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.
Quest’opera educativa spetta, innanzitutto, alle famiglie (offrendo loro tutti gli strumenti possibili) e coinvolge, oltre alle scuole, tutte le componenti della società.
Occorre affermare e sostenere concretamente la libertà di educazione delle famiglie e riconoscere la presenza all’interno della società di una molteplicità di soggetti educativi.
Allo stesso modo è necessario che il sistema scolastico, in particolare attraverso le riforme di università e sistema di formazione professionale, sia in grado di rispondere alle sfide che pone un mondo in continuo e rapido mutamento.
In quest’ottica si deve mettere in evidenza l’importanza del raccordo tra sistema scolastico e mondo del lavoro e la valorizzazione della ricerca, in particolar modo quella universitaria.

Partecipazione

Siamo nel mezzo di una crisi di partecipazione in pressoché tutti quegli ambiti nei quali si può dispiegare, anche se si annuncia qualche novità interessante e controcorrente.
Certamente la democrazia partecipativa è messa alle corde dalla pretesa di   esaurire la politica nel mandato elettorale, avendo sottratto ai cittadini anche il diritto di scegliere chi li deve rappresentare, con un cedimento eccessivo al leaderismo ed alla personalizzazione giocata a livello mediatico. Il Compendio DSC (n.395) ci ricorda che “il solo consenso popolare non è sufficiente a far ritenere giuste le modalità di esercizio dell’autorità politica”, poiché potremmo avere come conseguenza il populismo come surrogato della politica, l’accanimento lobbistico sugli interessi comuni, l’indisponibilità a condividere un progetto generale che guardi al futuro ed a riforme che mettano in discussione assetti incancreniti e rendite di posizione spesso spacciate per diritti acquisiti.
Quali le strade possibili per l’impegno dei cattolici? A noi sembra necessario percorrere contemporaneamente due vie.
La prima: il sostegno e l’appoggio a quelle persone che con passione e competenza, ben orientate da principi e valori, si dedicano all’attività politica e all’amministrazione della cosa pubblica oppure intraprendono
attività economiche o sociali favorendo il mantenimento di un loro legame stretto con le varie comunità, dunque con i problemi reali.
La seconda è quella da sempre perseguita dal mondo associativo e che ora riveste una particolare urgenza: esercitare in proprio un ruolo “politico” di proposta, di attivazione e coinvolgimento dell’opinione pubblica, di indirizzo sulle priorità da perseguire, di formazione in quell’ambito di una classe dirigente avvezza all’esercizio democratico ed al confronto quotidiano con la vita delle persone, dunque meglio di altri in grado di assumersi responsabilità.
Non è questa una missione minore di altre, anzi, senza di questa la vita democratica ne subirebbe le conseguenze ed è proprio la sua assenza che sta provocando i danni che tutti vediamo. Non si può pensare che il ruolo delle associazioni o della società civile sia quello di stampella acefala (occasionalmente compensata con un tozzo di pane) dell’una o dell’altra parte politica.
Stare dentro la storia significa acquisire la consapevolezza che l’impegno negli ambiti dell’economia, del sociale, della politica non rappresenta una questione di alcuni, ma riguarda la Chiesa come tale e, dunque, la comunità cristiana nel suo complesso.
E, a tal proposito, vogliamo ricordare e riferirci alla nota pastorale che la CEI diffuse già nel 1998: “Le comunità cristiane educano al sociale e al politico”: segno di una urgenza percepita fin da allora ma che non è diventata prassi nelle nostre realtà.
Potrebbe essere utile ricordare cosa sosteneva Alaidair MacIntyre nel suo Dopo la virtù: al giorno d’oggi, ci troveremmo in una situazione critica, simile a quella che portò al crollo dell’Impero Romano, si tratta di una crisi sia dei valori, sia della politica.
Si prospetta come una vera e propria catastrofe, ed altro non è che il necessario esito delle arroganti pretese di innalzare la ragione umana e l’interesse a legislatori assoluti.
In questo senso, il risultato è che il mondo, l’economia e la politica diventano l’arena dove combattere per il raggiungimento dei propri scopi personali.
In questa ottica quale può essere il ruolo dei cattolici? Non certo quello di tenere in piedi la situazione in essere. Scriveva già qualche tempo fa: “Un punto di svolta decisivo in quella storia più antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium.
Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e oscurità. Se la mia interpretazione della nostra situazione morale è esatta, dovremmo concludere che da qualche tempo anche noi abbiamo raggiunto questo punto di svolta.
Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su
di noi… E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza
Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso”.
Se volessimo dare credito a McIntyre potremmo dire che il nostro futuro dipende da quanto noi e le nostre comunità saremo in grado di comprendere ognuno il proprio ruolo ed assumercelo per intero.

Lavoro

E’ proprio nel campo dei rapporti tra lavoratori, imprese e relative rappresentanze che si gioca una fetta consistente della prospettiva di crescita nel nostro Paese.
Occorre puntare con decisione sulla dimensione partecipativa ed è per questo che registriamo
con piacere la pubblicazione del nuovo Codice della partecipazione. Dobbiamocontribuire a tenere alto e vivo il dibattito su questa prospettiva, svincolandolo dagli ingessamenti ideologici ancora forti da una parte e dall’altra e, al tempo stesso,facendo lievitare una positiva consapevolezza da parte dei lavoratori e delle loro famiglie.
Una maggiore cultura partecipativa avrebbe come conseguenzal’affermazione concreta del “primato” del lavoro ed un abbassamento del rischio apportato da un’economia autoreferenziale e tesa a considerare esclusivamente gli interessi dei
proprietari o la remunerazione degli azionisti.
Gli strumenti della contrattazione decentrata, delle attività bilaterali possono offrire spazio per significative esperienze, facendo contestualmente maturare un clima complessivo favorevole a norme agevolative ed allo sviluppo di corrette e serene relazioni industriali che già nel nostro documento
congressuale indicammo quale punto di passaggio dalla cultura del conflitto
alla “complicità”. Crediamo che proprio una svolta “partecipativa” possa essere una delle ricette più indicate per una nuova fase di sviluppo sociale ed economico mettendo effettivamente al centro la persona e le sue esigenze.
Per quella che è la sua storia, il MCL promuove la cooperazione quale forma privilegiata di partecipazione responsabile e come esempio positivo di sintesi tra la dimensione individuale e quella comunitaria esportabile ad altre forme d’impresa.
In coerenza con il principio del “primato” del lavoro, l’annunciata riforma fiscale non può che partire dalla netta riduzione della imposizione sul lavoro, ora assolutamente spropositata e gravante sia sul lavoratore sia   sull’impresa; né, tale riduzione, può essere circoscritta al pur necessario aumento della produttività.
La partecipazione non può essere collocata solo al termine del processo produttivo con la distribuzione di utili o premi ma anche al suo inizio (con l’azionariato, con la programmazione e la ricerca, ad esempio) e nel suo svolgersi, in particolare nei momenti di scelte strategiche dell’impresa.
Inoltre, siamo convinti che occorra insistere su una formazione al lavoro efficace e di qualità, che superi la vecchia tendenza che ha finora garantito più i formatori e relative strutture e sia, invece, indirizzata a garantire occupabilità.
Proprio l’occupabilità è uno degli aspetti che bisogna maggiormente enfatizzare per permettere alla persona di essere protagonista del proprio percorso lavorativo e, allo stesso tempo, per creare un sistema di welfare basato sulle politiche attive del lavoro.
L’accordo recente che ha incrementato lo spazio per la bilateralità e per significative esperienze locali (quali la Dote Lavoro in Lombardia, ad esempio) è da sostenere e calare sempre più nello specifico delle diverse esigenze.
Il primato del lavoro nell’ambito dell’economia e della vita d’impresa determina la necessità di una grande attenzione alla rilevante disoccupazione giovanile, non più confinata in alcune specifiche aree del Paese ma ampiamente diffusa, così come occorre riprendere la questione della previdenza integrativa, che sembra largamente e colpevolmente sopita, perchè è evidente che i giovani devono iniziare da subito a risparmiare per il domani.
Va finalmente approntato l'aupicato" statuto per il lavoro" in modo da offrire ambiti certi di manovra trale parti e appropriate tutele ai nuovi lavori e alle situazioni di ampliata flessibilità.
Uno statuto che deve fissare una cornice di diritti assolutamente inderogabili con rinvio a contratti quadro nazionali, lasciando alla contrattazione decentrata spazi di gestione che possano tener conto delle diverse situazioni e contesti.
Ed è proprio in questo frangente che diventa rilevante la prospettiva di un sistema positivo di relazioni industriali, di corretto rapporto tra "rappresentanze "   delle parti in causa
.


Tornare a crescere

La recente crisi economica ha evidenziato tutti i limiti di un sistema economico finanziario che ha dato a molti l’illusione di poter guadagnare senza impresa e senza lavoro semplicemente investendo e speculando. Ciò ha creato danni rilevanti con una crescita della disoccupazione ed un disagio sociale che continua a registrare gravi ricadute sulle società e nazioni coinvolte. Inoltre ha prodotto una distorsione del significato del lavoro e della produzione del reddito che si riflette in modo negativo sui modelli organizzativi dell’impresa e sulla qualità del lavoro.
Ci confrontiamo con una crisi che non è, e non è stata, un incidente o l’interruzione di un ciclo una rappresenta il limite di un modello fino ad ora ampiamente diffuso e, per questo, ancor più dannoso.
Di fronte al persistere della crisi economica la riduzione del deficit e la lotta agli sprechi è più che giusta ma occorre ammettere che nessuna politica di tagli è, da sola, in grado di rilanciare l’economia.
Una politica di rigore è fine a se stessa e serve solo a tappare temporaneamente dei buchi se non tende a sostenere e a rilanciare lo sviluppo vero del Paese.
Ritorna, allora, l’esigenza di non rimandare ulteriormente giuste e condivise riforme di “sistema” investendo sull’ economia e sul lavoro reali.
Ritorna, inoltre, la centralità del lavoro a fondamento della crescita, tanto che il recentissimo Piano triennale per il lavoro si apre con la citazione significativa “la risorsa più nuova della società contemporanea non è costituita dalla terra o dalle risorse energetiche, ma da uomini adeguatamente motivati a cercare liberamente di offrire risposte agli infiniti bisogni propri e degli altri...”. Ecco, allora, la dimensione partecipativa nel lavoro che chiama alla responsabilità i lavoratori e, ugualmente, gli imprenditori di ogni livello, poiché non basta maggiore flessibilità a risolvere i problemi ma servono inventiva, capacità di investimento, innovazione.
Non tutto è riconducibile ad un piano strettamente economico, ma anche ad altre scelte che apparentemente non c’entrano nulla con l’economia; il riferimento è alla necessità di una decisa crescita demografica con il sostegno e l’incentivazione alla natalità.
Va affrontata una più decisa liberalizzazione dei servizi pubblici (con attenzione alla salvaguardia dei beni collettivi).
Ed anche nel campo delle infrastrutture si deve intervenire su un sistema contraddistinto da gravi ritardi e sprechi: i costi della politica si contano anche su programmi non completati, con percorsi interrotti, con
progetti variati al variare delle maggioranze al potere in una sorta di “rivincita abrogativa” che spesso non ha ragioni plausibili, ma solo strumentali.
C’è la necessità di ridurre la dipendenza energetica con sistemi nuovi ed aumentando l’efficienza delle fonti attualmente in uso e, al tempo stesso, di affrontare il pericolo incombente dell’inquinamento su cui, troppo spesso, si sorvola irresponsabilmente.
Fondamentale è la riduzione della spesa pubblica e degli sprechi che renda possibile un adeguato rapporto tra imposizione fiscale e sistema di welfare, ora sbilanciato.
Si può affrontare e battere la crisi e tornare a crescere se si mette in campo intraprendenza e fiducia; se si abbandonano le rendite di posizione e se si trasforma il problema in opportunità come ci dice la Caritas in Veritate: “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative
. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente….”
Famiglia
E’ la famiglia uno dei soggetti su cui contare per rinnovare il nostro tessuto sociale ed una delle più rilevanti priorità cui mettere mano con un’iniziativa a vasto raggio, che compensi una tendenza a provvedimenti tesi a tamponare alcune situazioni che, nel nostro documento congressuale, abbiamo definito come tendenza a
stuccare o riverniciare le crepe, più che ristrutturare a fondo la casa in pericolo.
Eppure la famiglia, che fonda la sua stabilità ed affidabilità sul vincolo del matrimonio, è il primo e meno caro tra gli ammortizzatori sociali, è il mezzo principale di coesione sociale, investe sul futuro di tutti con la cura dei figli.
E può essere lo strumento di sviluppo economico se solo potesse dispiegare per intero le sue possibilità
in una piena dimensione sussidiaria: con i suoi risparmi e la propensione a guardare lontano è stata la salvezza della nostra situazione economica in un periodo di crisi profonda.
Tutto ciò rischia di andare perso se non si metteranno urgentemente in campo almeno tre azioni:
1) modulazione del carico fiscale in funzione
del numero dei componenti, così come da tutti promesso da più e più anni, abbinato
ad un adeguato sostegno alla natalità;
2) un virtuoso rapporto con i tempi di lavoro e della città, con spazi adeguati per la cura familiare non tralasciando la necessità di tutela e promozione del carattere festivo della Domenica;
3) attivazione di buoni che permettano alle famiglie di mantenere un ruolo forte e la possibilità di scelta nella modalità di accesso ai servizi sociali, assistenziali e sociosanitari in aggiunta al voucher per i servizi, così come specificatamente e dettagliatamente proposto dal nostro Forum delle associazioni d’ispirazione cattolica nel mondo del lavoro.
Ciò permetterebbe un rilevante risparmio di spesa pubblica dal momento che ogni famiglia saprebbe spendere meglio di quanto non possa fare anche la più avveduta tra le amministrazioni pubbliche e le consentirebbe di svolgere al meglio il suo ruolo di educazione e cura dei propri componenti senza delegarlo
ad altri.
Un’attenzione particolare, infine, dovrebbe essere posta alle esigenze dei giovani che desiderano creare una famiglia e che troppo spesso vengono scoraggiati da un ambiente che da una parte manca di sostegni concreti alle
giovani coppie, dall’altra è permeato da una cultura contraria alla famiglia.

Welfare e socialità

Riteniamo sia da riformare l’attuale sistema di welfare, insistendo per una sua dimensione sussidiaria che valorizzi efficacemente il ruolo della famiglia e della società civile.
E’ importante avere chiari gli ambiti di intervento (e questo vale anche per tutti i settori della vita sociale) che dovrebbero essere considerarti a tre livelli: merito, normalità operosa, bisogno.
Si enfatizza molto la “meritocrazia” ed è certamente un approccio corretto nella misura in cui evita che tutto (persone, iniziative, imprese, idee, ecc.) finisca nella palude della mediocrità e dell’assistenzialismo, che genera assuefazione e carenza di iniziativa e responsabilità, senza dare lo spazio a chi ha più idee, genio ed iniziativa di portare a compimento un percorso utile, innovativo, produttivo.
Non si può pensare che tutto si esaurisca con una poderosa ed auspicabile spinta in questa direzione, che
andrebbe benissimo anche per il settore pubblico ed a incentivare chi ha talento per studiare o intraprendere. Ma occorre anche considerare che la nostra società poggia su una larghissima base di “normalità operosa” formata da persone, famiglie, associazioni, imprese sociali e non profit, che con onestà e spesso grande sacrificio portano avanti con dignità il loro impegno di lavoratori, di genitori, di educatori, di volontari.
E’ un esercito di persone che senza essere eroi, almeno nell’accezione comune del termine, sono il tessuto connettivo e costitutivo delle nostre comunità affermando, nei fatti, quei principi e valori che fondano e qualificano la nostra identità di popolo e testimoniano la possibilità di quella dimensione di gratuità e dono che caratterizzano la Caritas in Veritate.
Non possiamo infine tralasciare la dimensione del “bisogno” che è tipico di chi non ce la fa per problemi fisici, personali o ambientali.
E’ una realtà che avremo sempre con noi, che gode dell’impegno di molte persone ed istituzioni, principalmente in ambito cattolico, e che non può essere considerata un peso, neppure per un istante e neppure per i conti pubblici. In questo ambito ha una specifica rilevanza la non autosufficienza che non può essere considerata solo quale questione sanitaria ma anche sociale, con le conseguenti considerazioni né è possibile esaurire il problema con una forma assicurativa di copertura
Notiamo come continui la disattenzione su questo ambito le cui spese sono solo in minima parte detraibili: la cura di una persona vale molto meno della ristrutturazione di un immobile.
Una forma decisa di agevolazione fiscale porterebbe all’emersione del lavoro sommerso, quantitativamente rilevante in ambito di assistenza familiare, con ritorno significativo per le casse pubbliche e per un complessivo clima di legalità.

Istituzioni e territorio

Il Paese ha l’esigenza di una riforma costituzionale che completi una transizione troppo lunga e sia in grado di incidere significativamente nell’organizzazione dei poteri dello Stato, di snellire e rendere proficuo il sistema legislativo e di indirizzo parlamentare, di conferire all’esecutivo l’autorevolezza e la capacità di assumere provvedimenti attuativi nei tempi rapidi della globalizzazione, ridefinendo il principio dell’equilibrio dei poteri al fine di eliminare una situazione di paralisi e scontro istituzionale perenne che penalizza la democrazia, già limitata da una legge elettorale che avrebbe dovuto essere la panacea di tutti mali ma che, come è evidente, mostra tutta la sua debolezza e contraddizione.
Inoltre la prospettiva del federalismo fiscale sulla quale siamo avviati dovrà sfociare in un federalismo istituzionale che preveda una carta delle autonomie che ridisegni la funzione delle autonomie locali. Il federalismo fiscale è sicuramente il buon inizio di questo percorso purché vengano esaltati i principi indivisibili di responsabilità e sussidiarietà che, a sua volta, è ben diversa dalla sola “devoluzione” e dalla
tendenza largamente in atto di “ritiro non concordato” delle istituzioni locali da servizi precedentemente erogati, ora “lasciati” al volontariato e all’associazionismo ai quali, peraltro, ancora non è stata concessa la promessa stabilizzazione del 5 per mille, primissimo e immediato esempio di federalismo fiscale e di scelta diretta esercitata dai cittadini/contribuenti.
L’occasione offerta dal federalismo è certamente da cogliere per recuperare l’evidente deficit di responsabilità nella gestione delle risorse pubbliche ed il conseguente degrado delle infrastrutture, dei servizi verso le persone e le famiglie, nell’uso inappropriato del territorio e dell’ambiente.
Il federalismo non può essere considerato una sorta di “ricetta magica”, un toccasana per tutti i mali: è, piuttosto, un’opportunità data alla nostra comunità nazionale di interrogarsi seriamente sul proprio futuro di nazione coesa ed unita, in grado di sviluppare valori ed energie che le consentano di rimanere un grande Paese sviluppato nel contesto di un’economia globale capace di assicurare ai cittadini ed alle famiglie
prospettive di lavoro e di benessere sociale su tutto il territorio nazionale.
Per questo sottoscriviamo quanto afferma il documento preparatorio sulla necessità di un federalismo “funzionale” (che azzeri, ad esempio, l’indecenza del sistema dei costi storici) piuttosto che di un federalismo “territoriale” (che può, a sua volta, coprire abusi e privilegi) non rispondente alla necessità di un Paese unito che persegua il bene complessivo.
I primi passi del federalismo fiscale appaiono positivi, in particolare per l’istituzione di una cedolare sugli affitti destinata ai comuni e di entità ridotta rispetto alle previsioni e per l’istituzione del fondo perequativo sperimentale per cinque anni: si può discutere su alcuni punti - soprattutto sul fatto che la riduzione della tassazione sugli affitti avvantaggia chi ha redditi alti - ma rimane il fatto positivo che si passa dalla discussione alla prova sul campo.
Una corretta e produttiva visione del federalismo può essere legata proprio alla valorizzazione degli enti locali territoriali (regioni, province, comuni) ed alla loro capacità di assunzioni di responsabilità facendo della territorialità un elemento centrale che valorizzi la persone e le comunità locali.
Non dobbiamo però nasconderci che da più anni è in corso un grave deterioramento degli indicatori di legalità, dello sviluppo economico, sociale ed occupazionale, così come di quelli relativi alla distribuzione del reddito e delle opportunità per le aree e le popolazioni del Mezzogiorno.
Certamente il Sud ha accumulato ritardi e incancrenito problemi e non può essere abbandonato a se stesso, perché questo significherebbe lasciare al loro destino molte persone vive e vere.
Il Sud è una questione nazionale e come tale va trattata, senza ricorrere a forme superate di compensazioni semplicemente risarcitorie e dal sapore elettoralistico.
Parallelamente questo comporta una nuova cultura delle classi dirigenti (non solo delle istituzioni) delle regioni del Sud affinché si superino quelle diffuse tentazioni di autocommiserazione che sfociano, molto spesso, in una autoassoluzione che impedisce un’adeguata assunzione di responsabilità, naturalmente
con tutte le numerose eccezioni che si stanno, sempre più, facendo strada e sulle quali anche noi contiamo ed investiamo.
Il Mezzogiorno forse più di ogni altra realtà ha veramente bisogno di affrancarsi da quel groviglio di rapporti di dipendenza da un eccesso di “intermediazione” pubblica che fino ad oggi hanno rallentato la crescita delle autonomie locali e l’applicazione dei principi di solidarietà e sussidiarietà, assi portanti della Dottrina sociale.
Il recente documento della CEI “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno” indica già nel titolo una prospettiva da perseguire contestualmente esprimendo un forte richiamo “alla critica coraggiosa delle deficienze, alla necessità di far crescere il senso civico in tutta la popolazione, all’urgenza di superare le inadeguatezze presenti nella popolazione e nelle comunità ecclesiali del Sud, ad una volontà autonoma
di riscatto, alla necessità di contare sulle proprie forze come condizione insostituibile per valorizzare tutte le espressioni che devono provenire dall’Italia intera nell’articolazione della sussidiarietà organica”.
Un appello che il MCL e gli aderenti al Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro accolgono senza riserve con la volontà di chiamare a raccolta tutte le energie per concorrere al riscatto economico e sociale del Mezzogiorno, anche con mobilitazioni straordinarie, nella consapevolezza di avere una parte di responsabilità in questa situazione poiché non può essere tutto addebitato alla politica.
Si tratta di richiamare il rispetto delle regole, la gestione trasparente, efficiente e produttiva delle risorse disponibili, la rinuncia all’assistenzialismo come risposta ai problemi occupazionali e sociali, la promozione dell’inclusione di giovani e donne nel rispetto dell’ambiente, quali condizioni indispensabili per favorire lo sviluppo e la coesione sociale.
La sfida si può e si deve vincere attraverso un nuovo percorso politico, economico ma soprattutto educativo. Infatti scrivono i Vescovi: Le coscienze dei giovani, che rappresentano una porzione significativa della popolazione del Mezzogiorno, possono muoversi con più slancio, perché meno disilluse, più coraggiose nel contrastare la criminalità e l’ingiustizia diffuse, più aperte a un futuro diverso.

Tutela dell’ambiente e della cultura

La salvaguardia dell’ambiente e la tutela del territorio sono urgenze di questo Paese che sulla loro qualità fonda gran parte della sua attrattiva e della sua bellezza.
Sono beni che ci sono stati tramandati ed almeno integri, se non migliorati, dobbiamo restituire a chi verrà dopo di noi.
Sono questi beni “indisponibili” e affidati alla nostra custodia.
La prevenzione sembra essere la prospettiva chiave anche in funzione economica e di risparmio sulla gestione dei disastri ambientali, pure attraverso più posti di lavoro.
Non possiamo pensare di essere condannati, in eterno, alla gestione di emergenze con il loro carico di costi di vite umane, sociali ed economici.
In una prospettiva di crescita non va dimenticata la straordinaria risorsa del patrimonio culturale, storico e artistico che possiamo vantare e che è unico al mondo.

Immigrazione

La complessità e la dimensione dei fenomeni migratori che stanno interessando l’Italia richiedono l’urgente definizione di una chiara cornice culturale entro cui condurre in sicurezza il delicato processo di integrazione e interazione cui siamo chiamati.
Non possiamo eludere la sfida epocale che le migrazioni ci pongono di fronte: i talenti e la creatività delle persone che giungono in Italia devono trovare terreno fertile per una loro piena valorizzazione nei processi economici e sociali.
Ma, al tempo stesso, non possiamo permettere che le diverse tradizioni e culture di provenienza colonizzino
il nostro assetto valoriale, già largamente compromesso per i nostri improvvidi stili di vita.
Inte(g)razione e sicurezza, accoglienza e legalità entrano in gioco come facce della stessa medaglia in quanto l’incontro non è mai astratto tra culture, ma sempre tra persone
ed è sempre alla “persona” immigrata cui dobbiamo fare riferimento per ogni azione e per attivare una vera politica che è del tutto mancata in questi anni, preferendo più redditizi e diversi “sfruttamenti” del fenomeno immigrazione.
Questo sistema ha portato al fatto che oltre il 60% degli immigrati regolari proviene da un precedente stato di clandestinità: segno che è la stessa legge in vigore ad essere responsabile del male che intende combattere. Diverse norme sull’immigrazione sono urgenti, ad iniziare dalla cittadinanza per le persone nate in Italia e per chi intende costruire un futuro insieme, contribuendo al benessere complessivo del nostro Paese anche attraverso la marcata propensione ad avere più figli.
Il fenomeno dell’immigrazione non avrà alcuna soluzione finché verrà filtrato attraverso le ideologie che impediscono di affrontare il tema per quello che è: una questione reale che interpella la politica nella compiutezza del termine. Il MCL insiste sulla sua tradizionale posizione riguardo alla necessità di garantire un equilibrio: che parte “dal dovere di garantire ad un determinato territorio un equilibrio culturale in rapporto alla cultura che lo ha prevalentemente segnato” (Giovanni Paolo II, Giornata mondiale per la pace del 2001) fino all’equilibrio dei numeri sopportabili da un territorio, a quello tra religioni e nazionalità diverse.
Per questo abbiamo sempre ritenuto cruciale che a determinare i “flussi” relativi alle presenza di cittadini stranieri fossero le Regioni e le Comunità locali.

LE PROSPETTIVE

Siamo consapevoli che il futuro della nostra nazione non sarà determinato o risolto dai pur necessari tagli di spesa e devoluzione di poteri e risorse, ma se sapremo mettere in campo progetti ed idee per il futuro. L’agenda che scaturirà dall’appuntamento di Reggio Calabria andrà sostenuta e diffusa affinché l’Italia possa uscire finalmente dal tunnel in cui è entrata da troppo tempo e siamo convinti che ne uscirà solo se prevarrà in tutti, ad iniziare dalle classi dirigenti, disponibilità e tensione alla riconciliazione, perché il futuro che cerchiamo non può passare da una situazione di conflittualità permanente e su tutto.
Il laicato e l’associazionismo cattolico devono prendere consapevolezza dei grandi cambiamenti avvenuti nella società, nella famiglia, nel lavoro con tutti i rischi e le opportunità che questi comportano ed indirizzare
l’azione verso obiettivi di riforma e partecipazione, abbandonando la tendenza a rinchiudersi in vecchi accampamenti destinati a diventare solo delle riserve, magari comode e autoconsolatorie, per inoltrarsi in mare aperto senza titubanze o complessi di inferiorità, certi di poter offrire un contributo determinante a questo nostro Paese, del quale ci sentiamo fino in fondo “soci fondatori”.
L’indicazione che la Caritas in Veritate ci offre rispetto alla necessità di riscoprire i valori di fondo per un futuro migliore, di darci nuove regole, di puntare sulle esperienze positive e rigettare quelle negative è una chiamata concreta, diretta e decisa all’assunzione di responsabilità che tocca esplicitamente anche tutti noi.
Ci chiediamo allora che cosa possiamo dire e fare in riferimento ai temi dell’economia, del lavoro e delle riforme ed a che titolo possiamo intervenire noi nella nostra specificità di cristiani e cittadini. Se ci guardiamo attorno notiamo che ci si dice sempre di tenere lontana la nostra ispirazione cristiana dalle questioni che riguardano il mondo, la finanza, la politica, ma anche da vita, famiglia, procreazione assistita,
testamento biologico.
Ci viene intimato di tenere per noi, nel nostro privato ciò in cui crediamo senza avere la pretesa di “imporlo” agli altri.
Che cosa c’entra, allora, l’essere cristiani con lo sviluppo di ogni singola persona e di tutta la comunità?
Il rapporto di intima e indissolubile unione tra cristiani e il mondo è scritto nella storia di questi 2000 anni: perché la nostra non è la storia di una realtà a parte.
Una tappa fondamentale di questa storia è sicuramente quella del Concilio con la richiesta di Montini e Suenens che l’assise dei Vescovi si interessasse non solo di questioni interne di fede e disciplina dottrinale, ma anche delle questioni del mondo e degli uomini (orientamento originariamente non previsto) dando di fatto il via alla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes, cha ha
quello straordinario prologo che tutti ricordiamo: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore
La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti”.
Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
Possiamo notare come in questo testo, meditato e con il sigillo dello Spirito, non frutto di una estemporanea intervista o di manipolazioni comunicative, si parli di uomini che hanno ricevuto un messaggio da proporre a tutti: con buona pace del mondo laicista che parla di interferenze e imposizioni, sapendo di non dire il vero dal momento che non è possibile alcuna forma di imposizione.
E’ anche un fraterno richiamo a chi, nello stesso mondo cattolico, pensa di ritirare la mano, nascondendosi nella massa informe e anonima della convenienza, indifferente all’affermarsi della società del nulla, della banalità, dell’interesse individualista o di parte.
Quale imposizione dunque?
Ciò che vogliamo è che ci si lasci avanzare una proposta di società buona per tutti e che i cattolici comprendano la necessità e l’urgenza di “stare dentro” le diverse situazioni della vita e del mondo rispondendo all’appello del Papa per una nuova generazione di cristiani impegnati nell’economia, nel sociale, nella politica, non a parole ma nei fatti.
Si tratta, allora, di non limitare l’esperienza di fede all’interno del circolo ristretto delle comunità ecclesiali dei praticanti negandone ogni valenza pubblica o spingendosi al massimo ad un’azione di educazione delle coscienze, non più sufficiente per i tempi che viviamo.
Ci ispira la DSC nella sua sorprendente attualità e profezia, una DSC che è tutt’altro che un elenco di buoni principi: tocca a noi accorciare e tendenzialmente azzerare le distanze tra le indicazioni e la prassi. E questo sarà possibile solo prendendoci la responsabilità di comprendere e conoscere a fondo le situazioni ed i problemi e, successivamente, cercare le soluzioni e le azioni di riforma (quelle che lo sguardo corto della politica non riesce a mettere in campo). La complessità della situazione del mondo, la crisi economica che rischia di ritornare ciclicamente con tutto il suo peso su persone e famiglie, la totale assenza di punti di riferimento e valori forti, non lasciano alcuno spazio per risposte improvvisate, per approcci epidermici e occasionali, per la stessa incompetenza sulle questioni e sui problemi: un criterio di questo genere non ha alcuna possibilità di successo, né alcun futuro.
E’ l’ora di un nuovo e autonomo protagonismo dei cattolici negli ambiti pubblici, nella vita sociale, nell’economia e nelle istituzioni: rafforzando la dimensione associativa ed il collegamento fruttuoso tra corpi sociali che si ispirano alla stessa esperienza cristiana, in modo da costituire un insieme omogeneo e poderoso che sappia coniugare con il “noi” progetti e programmi, una collaborazione che avrebbe già una sua forza intrinseca ma che ha, comunque, bisogno di allargare e trovare nel Paese altri consensi. Consensi
che saranno tanto più forti e abbondanti quanto più il progetto sarà credibile e proposto da persone e testimoni altrettanto credibili ed in grado di saper convincere le persone della bontà e ragionevolezza di tale proposta e capaci di gettare il loro cuore, fatto di storia, identità ed impegno, al di là degli steccati rappresentati dalle contingenti divisioni partitiche.
Un nuovo protagonismo dei corpi intermedi che si ispirano alla Dottrina sociale della Chiesa è verosimile e possibile, in quanto possono far valere il vantaggio che deriva dal basarsi su un quadro di valori forti e certi su cui innestare una nuova fase di sviluppo del Paese.
Per un prolungamento sul territorio di questa rinnovata presenza dei cattolici sarà utile pensare ad agende locali per far convergere gli sforzi su obiettivi comuni e ben delineati nelle realtà territoriali.
Tutte queste potrebbero essere parole vane se non ci muovessimo nella prospettiva della Speranza cristiana, che è qualcosa di diverso e ben più rilevante dell’ottimismo che, invece, dipende dalla volubilità dell’uomo.
Non pensando presuntuosamente che ci siano spazi specifici che i cristiani possano occupare nella società quasi fosse loro dovuto, ma esercitando un di più di responsabilità poiché “a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Lc 12,40).
L’esperienza cristiana è una provocazione a crescere, a comprendere che cosa ci suggerisce questa nostra esperienza in azione dentro la realtà. Non può essere un’analisi, perché altrimenti la risposta sarebbe un’idea, ma l’approfondimento e la verifica di un Fatto che già c’è. E se è vero per noi può essere una possibilità per tutti.
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