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  IL CRISTIANESIMO ANIMA DELL'EUROPA

Data di pubblicazione: Sabato, 30 Maggio 2009

TRAGUARDI SOCIALI / n.36 Maggio / Giugno 2009 :: IL CRISTIANESIMO ANIMA DELL'EUROPA

INTERVISTA A MARIO MAURO, VICEPRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO

L’Europa deve ancora riconoscere le sue radici. Una profonda amicizia cristiana legava i padri fondatori dell’Europa. Un legame che ora si sta cercando di negare in ogni modo” ci dice Mario Mauro, Vicepresidente del Parlamento Europeo e candidato di punta del Popolo della Libertà nella circoscrizione del nordovest alle prossime elezioni europee. Ed è proprio nella battaglia perché l’Europa riconosca nuovamente le sue radici e riscopra la sua identità che possiamo trovare le ragioni profonde del suo impegno, ormai decennale, nel Parlamento Europeo, un’Istituzione forte ed insieme debole che, come afferma in questa intervista, “non ha fatto ancora i conti con la propria identità”.
Conti che non si possono fare senza recuperare la consapevolezza delle radici cristiane dell’Europa e dei principi di libertà e di democrazia che, non a caso, proprio in Europa nascono.
L’Europa e la crisi globale: è questo il tema che fa da sfondo alle elezioni europee del prossimo giugno. E’ un dato di fatto che la prima risposta forte alla crisi è venuta non da Bruxelles ma dall’Ecofin dello scorso ottobre,
cioè, principalmente, dai governi e dai ministri degli Stati del nucleo originario della Comunità.
C’è il rischio che in tal modo si svuoti ulteriormente di significato e di potenzialità il ruolo dell’Unione Europea? Cosa bisogna fare, a suo avviso, per evitare questo pericolo? Esiste concretamente la possibilità di un rilancio politico dell’Unione?
Ci siamo trovati di fronte ad una situazione di crisi economica senza precedenti che ci ha costretti a porci delle domande per comprendere se il cammino che è stato fin qui intrapreso è stato sufficientemente in grado di proporre modelli di economia capaci di resistere alle difficoltà del mercato. L’Europa, dimostrando così una capacità di coesione che in poche occasioni era stata capace di attuare, ha cercato di combatterla ad una sola voce: spingendo verso l’introduzione degli eurobond, ad esempio,
cercando la stabilizzazione finanziaria e la riduzione del rischio. L’Unione europea sa bene quello che non bisogna fare - ed è la tentazione più pericolosa -: chiudersi in un mero protezionismo. Ciò costituirebbe un grave errore di strategia. La crisi non si combatte nascondendo la testa sotto la sabbia, ma proponendo nuovi modelli basati non sul potere delle banche, ma sulla sussidiarietà e sulla capacità creativa della persona.
Qual è attualmente, e quale può essere, l’apporto concreto dell’Unione Europea per aiutare gli Stati membri a fronteggiare la grave crisi
economico-sociale che ha investito pienamente l’Europa? La riscoperta del modello europeo di “economia sociale di mercato” può essere il fondamentale contributo dell’Europa per uscire al meglio da questa crisi?
Ci siamo trovati di fronte a grandi difficoltà, ma attraverso lo spirito di coesione stiamo cercando di superarle. Molti sono stati gli interventi che congiuntamente Commissione e Parlamento hanno promosso per non lasciare da soli i cittadini. Attingendo al Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG) per gli esuberi nel settore tessile, ad esempio, la Commissione europea ha effettuato quattro finanziamenti all'Italia e ha aiutato i lavoratori di più di 800 imprese, istituendo gli strumenti legislativi e di bilancio appropriati per fornire sostegno supplementare ai lavoratori italiani che risentono delle conseguenze delle trasformazioni rilevanti
della struttura del commercio mondiale e per agevolare il loro reinserimento nel mercato del lavoro. In totale sono stati erogati 35 milioni di euro
per l'assistenza ai circa 6.000 lavoratori licenziati per esubero, causati dalla generale tendenza dell’industria dell’abbigliamento e degli accessori
nella Comunità a delocalizzare la produzione verso paesi terzi che presentano costi meno elevati. Si è trattato dell'importo maggiore finora erogato a partire dal Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione
e a beneficiarne saranno in primis la Lombardia, poi Piemonte, Sardegna e Toscana. Non dimentichiamo, poi, il programma approvato con ampia maggioranza dalla Commissione Bilancio nel marzo scorso, per la ripresa economica a favore di progetti nel settore dell'energia che prevede
l'allocazione di 5 miliardi di euro ripartiti tra energia, banda larga e agricoltura. In ambito comunitario è stato anche sviluppato il programma pluriennale per le imprese e per l'imprenditorialità che, segnatamente per le piccole e medie imprese, mira a migliorare la competitività di queste attività
che sono il motore dell’Italia e dell’Europa.
Un dato, purtroppo, incontestabile – lo dimostra l’esito disastroso dei referendum sulla Costituzione europea laddove si sono tenuti! – è il fatto che i popoli europei percepiscono l’Unione come qualcosa di lontano da loro, governata da una logica più burocratica che democratica, quasi l’Europa fosse più fatto di “elites tecnocratiche” che di popolo. Cosa si può fare per invertire questa tendenza e ricostruire il legame tra Europa e popoli europei?
Partiamo da un fatto: abbiamo bisogno di più Europa.
Dico questo perché lavorando da dieci anni all’interno delle istituzioni europee, mi sono reso conto che se gli Stati Membri vogliono contare di
più non possono isolarsi e fermarsi solo ai problemi che trovano all’interno dei propri confini. Occorre essere capaci di adottare uno sguardo globale.
Lo dimostra la crisi che, come dicevo prima, può essere superata solo coralmente, ma lo dimostra anche la politica internazionale. Se Adenauer,
De Gasperi e Schumann avevano pensato ad un progetto chiamato Europa unita, l’hanno fatto per dare una risposta alla guerra ed esportare un modello
fatto di democrazia, pace e sviluppo. è necessario quindi evitare di chiudersi nella cosiddetta “tecnocrazia”, come di recente è capitato con la
Presidenza della sinistra italiana alla Commissione europea che ha messo in atto un governo figlio di una scelta politica non pienamente corrispondente
né alla tradizione popolare né a quella socialista.
Quale può essere, a suo avviso, il ruolo del Parlamento Europeo - unica istituzione democraticamente eletta – per ricostruire il rapporto di fiducia
tra istituzioni europee e popoli europei?
Di una cosa sono certo: l’Europa conta. Questo non è solo il giudizio di chi lavora all’interno delle istituzioni europee da oltre dieci anni, ma soprattutto
di chi, guardando anche alle statistiche, si è reso conto di quanto ciò che l’Ue decide abbia un’incidenza molto forte all’interno dei Paesi comunitari.
Forse non tutti sanno che oltre il 70% delle leggi che vengono recepite in Italia sono la ratifica di direttive che provengono da Bruxelles. Un dato che
lascia sgomenti, soprattutto alla luce del fatto che soltanto il 2% dell’informazione politica parla di Europa. Qui sta la forza e insieme la debolezza di un’Istituzione che non ha ancora fatto i conti con la
propria identità. Il prossimo giugno 16 milioni di europei voteranno per la prima volta i loro rappresentanti a Bruxelles. Sarà un importante momento
di partecipazione che coinvolgerà l’Italia e altri 26 Stati membri, quantificabili in quasi 500 milioni di abitanti il vecchio continente. Questi numeri ci richiamano al significato dello stare in Europa: batterci per trovare una soluzione al deficit di democrazia.
I nostri cittadini, dunque, hanno nelle mani una grande opportunità.
Il 19 marzo 1958, di fronte al Parlamento europeo, di cui fu il primo presidente, Robert Schuman affermò: “Tutti i Paesi dell'Europa
sono permeati dalla civiltà cristiana. Essa è l'anima dell'Europa che occorre ridarle”. C’è secondo lei un collegamento tra il fatto che l’Unione Europea sembra aver abbandonato questa impostazione originaria dei padri fondatori
e la disaffezione dei popoli verso le istituzioni europee?
Sicuramente c’è un chiaro nesso tra questi due aspetti. L’Europa deve ancora riconoscere le sue radici.
Una profonda amicizia cristiana legava i padri fondatori dell’Europa. Un legame che ora si sta cercando di negare in ogni modo. è un chiaro esempio
la battaglia che si è scatenata attorno al simbolo dell’Unione europea. Il sito dell'Ue oggi si limita ad affermare che "il numero delle stelle non dipende dal
numero degli Stati membri" e che "le stelle sono dodici in quanto il numero dodici è tradizionalmente simbolo di perfezione, completezza ed unità". Niente di più vago. Il concorso di idee bandito nel 1950 dal Consiglio d'Europa fu vinto da un pittore allora poco noto, Arsène Heits: dodici stelle bianche disposte in cerchio su sfondo blu. Arsène Heits trasse lo spunto per il bozzetto della bandiera dalla cosiddetta “Medaglia Miracolosa” che portava al collo, la stessa che indossava Bernardette Soubirous a Lourdes.
Il numero dodici, poi, compare ripetutamente nell’antico e nel nuovo testamento, dodici i figli di Giacobbe e le tribù di Israele, dodici gli apostoli di
Gesù, dodici, come le porte della Gerusalemme Celeste, le edicole in San Giovanni, l’antica basilica lateranense cattedrale di Roma. Le stelle sono quelle dell'Apocalisse al dodicesimo capitolo: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una Donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle». è il tentativo di negare
l’evidenza e di non chiamare le cose con il proprio nome. Solo quando sarà capace di affermarle come patrimonio e ricchezza, potrà intraprendere un cammino davvero comune e riscoprire così il proprio orizzonte e la propria dimensione.
In una sua recente intervista a “L’Osservatore Romano” lei ha citato una frase di Giovanni Paolo II che sottolineava come “ la libertà religiosa
non è una libertà come le altre, ma una sorta di cartina al tornasole delle altre libertà”.
Oggi assistiamo, anche nell’area dell’Unione Europea, ad una forte recrudescenza di episodi di discriminazione e di attentati contro
la libertà religiosa, precipuamente nei confronti dei cristiani. Non pensa che tali episodi possano essere precisi sintomi di una vocazione
prepotentemente illiberale del pensiero relativista e di un oggettivo pericolo di restringimento degli spazi di libertà complessiva anche nell’area dell’Unione Europea a seguito della sua incombente egemonia?
Credo che sia più che altro dettata dalla volontà di controllo e di discriminazione da parte di chi ha una visone ideologica del potere. Tuttavia, la situazione non è più clandestina. Dopo la prima tavola rotonda indetta lo scorso 5 marzo a Vienna si è potuto discutere di un tema che non fa notizia: la discriminazione dei cristiani. La morte di Hrant Dink, le minacce contro Orhan Ant, l’episodio della sospensione dal lavoro in Inghilterra di un dipendente aeroportuale colpevole di aver esposto un’immagine di Gesù, l’incendio presso la scuola cattolica e la cappella di Notre Dame de Fatima in
Francia sono solo alcuni dei casi d’intolleranza e di discriminazione nei confronti dei cristiani, sia a Est e Ovest di Vienna, senza contare le violente
persecuzioni che colpiscono le comunità cristiane al di fuori dell’area Osce. Queste discriminazioni appaiono in diverse forme e, di conseguenza, ritengo
ci sia bisogno di un approccio multiforme. è il contributo delle Ong che operano in questo campo e anche il contributo portato dai rappresentanti
delle Chiese cristiane che si adoperano per controllare le difficoltà, affrontare i problemi e migliorare lo scambio. Tuttavia, occorre rimettere in moto pienamente l’impegno di ogni singolo Paese in materia di libertà di religione affinché si garantisca il diritto all’obiezione di coscienza, condannando tutte
le forme di discriminazione contro i cristiani. C’è ancora molto da fare per garantire la libertà religiosa.
In particolare, sono venuti alla luce i problemi legati all’occupazione turca della parte nord di Cipro, la condizione del Patriarcato ortodosso in Turchia,
le discriminazioni nei confronti di coloro che sono cristiani e vivono in repubbliche ex sovietiche dove c’è l’influenza di società orientate da governi
di matrice filoislamista. In particolar modo pesano ancora i contrasti relativi alla restituzione dei beni dopo gli anni di comunismo e, in qualche modo,
anche le condizioni in molti Paesi legati al meccanismo cosiddetto della registrazione, cioè il fatto di doversi dichiarare cristiani per avere uno status civile, che è un fenomeno che somiglia molto ad altre situazioni che avremmo voluto dimenticare.

Intervista a Mario Mauro, VICEPRESIDENTE DEL PARLAMENTO EUROPEO
di Pier Paolo Saleri
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