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  Il documento del Mcl sulle Settimane Sociali

Data di pubblicazione: Martedì, 23 Ottobre 2007

TRAGUARDI SOCIALI / n.27 Settembre / Ottobre 2007 :: Il documento del Mcl sulle Settimane Sociali

100 Anni Settimane Sociali


IL DOCUMENTO DEL MCL SULLE SETTIMANE SOCIALI


       Cento anni fa si aprivano le settimane sociali con una riflessione su: contratti di lavoro, cooperative, organizzazioni sindacali e scuola.

       Un inizio che noi vorremmo ricordare con una nuova tappa, perché ora, come allora, la questione sociale legata alle problematiche inerenti al lavoro rappresenta una vera emergenza, spesso ignorata ed assorbita da ben altre questioni, certamente di non trascurabile importanza, ma che costituiscono, non di rado, un alibi per disquisizioni scientifiche intellettuali o pseudo tali.

       Tutta la dottrina sociale della Chiesa ed in particolare modo il Vangelo del Lavoro hanno sempre posto l’accento sulle necessità di riflettere sul lavoro, non solo per il suo impatto politico, sociale ed economico, ma, soprattutto, perché esso investe una dimensione della persona umana essenziale di valenza ontologica.

       Per noi del MCL, il lavoro è la ragione del nostro impegno nella società, non solo per rimarcare una specificità che comunque rivendichiamo con orgoglio, ma soprattutto perché riteniamo con profonda convinzione che il lavoro è comunque “la chiave essenziale” di tutte le questioni e attiene alla sfera della Libertà senza alcuna coniugazione al plurale.

       Tanto è vero che il santo Padre Giovanni Paolo II ha gridato che non c’è l’libertà senza lavoro, definendo la disoccupazione una vera piaga sociale.

      Occupazione e disoccupazione diventano, quindi, le facce di una medaglia forgiata in modo diverso con il conio della libertà. I diversi sistemi politici-economici rappresentano i campi di battaglia dove si gioca la vitale partita della e per la libertà; le istituzioni politiche rappresentano gli strumenti attraverso i quali si ampliano o si restringono gli spazi di libertà; le rappresentanze democratiche, nelle diverse articolazioni sociali, giocano un ruolo di vitale importanza nei processi di crescita della società; le diverse specificazioni e forme di libertà (politiche ed economiche, individuali e collettive, sociali ed istituzionali) diventano strumenti per affermare la libertà tout court, riconducibile, come abbiamo detto, al lavoro nella sua dimensione soggettiva.

       Ripensare il lavoro ed al lavoro, secondo il nostro Movimento, deve diventare una costante, capace di incidere nei meccanismi di formazione delle coscienze, corrodendo una cultura datata, vecchia ed obsoleta, che non ha proprio nessuna ragione di esistere in un sistema globalizzato, dove la naturale spinta verso l’affermazione dei diritti di libertà ben si coniuga con la naturale esigenza della persona umana a vedersi riconosciuti quei diritti inalienabili ed indisponibili che appartengono all’uomo in virtù del suo rapporto di figliolanza con il Creatore, a prescindere da qualsiasi riferimento trascendentale, che investe il rapporto tra fede e ragione. Per questo insistiamo, richiamando l’attenzione di tutti, a ripercorre la vecchia pista del lavoro, forti di una sempre più ricca Dottrina Sociale e di un Magistero sempre più attento alla grande questione del lavoro, nella consapevolezza che non ci sono altre chiavi per aprire le porte di una felicità terrena. Una felicità che si realizza certamente attraverso il soddisfacimento dei bisogni materiali (individuali e collettivi), ma anche attraverso il soddisfacimento di quei bisogni immateriali, avvertiti con sempre più forza da tutti coloro che non vogliono essere soggetti passivi di un mondo tendenzialmente proiettato verso uno sfrenato consumismo, causa ed effetto di una strisciante alienazione esistenziale.

      In questo senso, riteniamo che il problema del lavoro sia, prima che politico, economico e sociale, soprattutto di ordine culturale.

       Occorre, a nostro modo di vedere, appropriarci del senso del lavoro, nella dimensione valoriale. Questo è un processo, certamente lento, verso il quale dobbiamo indirizzare la nostra riflessione, facendo uno sforzo non indifferente per superare le tradizionali categorie mentali, che ci spingerebbero a trattare il problema del lavoro in chiave economicistica, nella sua versione classica, moderna o post moderna e pur considerando le necessarie interrelazioni esistenti tra i diversi aspetti della vita politica, economica e sociale.

       Questo modo di affrontare il problema del lavoro può avere un senso se inquadrato nella sua dimensione oggettiva, ma certamente non lo è se consideriamo che esso è “actus personae” cioè espressione essenziale della persona ed in questo senso ha un valore etico, il quale, senza mezzi termini, “rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona” che rappresenta “il metro della dignità del lavoro”. E’ proprio la dimensione soggettiva del lavoro che deve avere la preminenza su quella oggettiva (cfr Laborem exercens).

       Per essere estremamente chiari, occorre una nuova cultura del lavoro e la Dottrina Sociale della chiesa, sin dal tempi della Rerum Novarum, ci offre validi strumenti di riflessione, a cui spesso abbiamo derogato, assorbiti da ben altri, sia pur importanti, temi molto di moda nei salotti intellettuali. Parlare di democrazia, di riforma delle istituzioni, di sindacato di economia o disquisire sul sesso degli angeli ha consumato intelligenze in riflessioni autocelebrative, certamente utili ma non sufficienti per affrontare il cuore del problema.

       Il problema è antropologico. Riguarda l’individuo, l’uomo e la persona. Non è possibile continuare a pensare all’homo oeconomicus, come il destinatario finale di ogni scelta economica, l’unico a cui indirizzare l’attenzione degli uomini di pensiero e verso cui tendere per definire gli assetti politici sociali.

       Purtroppo, i valori portanti dell’antropologia cristiana sono in crisi da tempo. L’identità cristiana dell’uomo lavoratore appare offuscata da una preminente cultura del lavoro, fortemente caratterizzata da un esasperato individualismo, che si rafforza in un supermercato dove il relativismo sembra ben amalgamare la scelta di “una sola verità personale”.

       In questo senso, il lavoro non rappresenta uno strumento che favorisce la comprensione tra gli uomini, un mezzo necessario per riempire di contenuti la naturale dimensione familiare del lavoratore, ma soltanto un mezzo per soddisfare naturali e legittimi bisogni materiali, spesso alienanti, se non vissuti in una dimensione etica e con spirito di solidarietà.


I NUOVI LAVORI


       Abbiamo sempre sostenuto che il lavoro è lo strumento più importante per misurare l’efficienza e la bontà di un sistema politico, sociale ed economico. La piaga della disoccupazione, specie per i giovani e le donne, deve trovare una rapida e moderna soluzione.

       Investimenti nella formazione, detassazione e agevolazioni fiscali per nuove iniziative imprenditoriali, nuove infrastrutture, patti territoriali, flessibilità, incentivi alla produttività ecc., possono essere strumenti a breve, in attesa che si modifichino strutturalmente i presupposti politici-economici per avviare un vero processo finalizzato alla piena occupazione.

       Siamo ben consapevoli delle difficoltà e delle resistenze che occorre superare per affermare politiche veramente innovatrici, che tengano conto della necessità di adeguare la legislazione e le “istituzioni” che regolano attualmente il mercato del lavoro alle nuove realtà del mondo della produzione ed alle nuove tipologie di lavoro, esplose, specialmente nell’ultimo decennio, a causa di una serie di fenomeni concatenati, dal campo della scienza informatica al fenomeno della globalizzazione.

      Accanto alla figura del lavoratore subordinato a tempo pieno ed indeterminato (che è stata la figura dominante fino a poco tempo fa) si stanno affermando nuove tipologie di lavori e di lavoratori. Infatti, l’autonomia della prestazione lavorativa e la temporaneità del rapporto stanno diventando caratteristiche sempre più presenti nella società.

       Non cogliere questo aspetto di rilevante novità è un atto di pura miopia politica, che certamente non aiuta a risolvere il grande problema della disoccupazione.

       Concentrarsi nella difesa a tutti i costi del “posto fisso” è fuori della storia, perché non tiene assolutamente conto dei nuovi processi economici e della mutata struttura del mercato globalizzato.

      Occorre, però, contrastare con forza, quella tendenza,   ancora presente, in certa cultura vetero-liberista, nostalgica di un passato, che non potrà mai più ritornare, con tutto il suo carico di miserie ed ingiustizie.

       Un mercato del lavoro necessariamente più flessibile richiede una saggia politica, per evitare che la tanto invocata flessibilità si trasformi in precarietà, con inevitabili ricadute negative sui tassi di disoccupazione e sottoccupazione.

       Ciò richiede una formazione permanente e politiche attive del lavoro, oltre ad una radicale riforma (in parte già avviata) dei servizi all’impiego, che favoriscano l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro.

       Occorre poi che la formazione e la riqualificazione professionale siano affidate a strutture che ben conoscono le esigenze del settore produttivo e che sappiano riconvertire le professionalità obsolete in nuove competenze.

       Un ruolo importante in questo campo compete alle Regioni ed agli enti locali. Spetta a loro il compito non facile di sostenere attivamente i lavoratori, fornendo loro le informazioni e la formazione necessarie per collocarsi o ricollocarsi nel mercato del lavoro, con particolare attenzione agli over cinquantenni. Gli enti di formazione potrebbero avere un ruolo attivo in questo campo, con una azione di efficace supporto nei confronti delle Regioni e dei lavoratori.

       La tanto osteggiata legge Biagi già prevede molte riforme innovative. Riforme che hanno già sortito i primi effetti positivi e che lasciano ben sperare per il futuro, prefigurando un mercato del lavoro dinamico, nel quale giocare le partite del lavoro con le armi di una sana competizione, accuratamente preparata da una formazione continua, che accompagni i lavoratori dai vecchi ai nuovi lavori. Speriamo che la miopia politica di alcuni non prevalga
sul buon senso e non vanifichi gli sforzi di quanti, sia pur tra non poche difficoltà, hanno cercato di contestualizzare un progetto per un futuro immaginabile e possibile.

       Comunque, non bisogna mai dimenticare che senza il collante della solidarietà e della sussidiarietà non è possibile costruire una politica di sviluppo compatibile con le esigenze di lavoro e con il diritto inalienabile dell’uomo a vivere, qualunque sia il suo stato sociale, una vita libera e dignitosa. Il nostro specifico ruolo di Movimento Ecclesiale presente nei diversi campi della vita sociale ci deve spingere ad operare per affermare una nuova cultura del lavoro, nella consapevolezza che non potranno essere sufficienti le sole leggi del mercato per creare occupazione.

       Occorre ripensare il lavoro come variabile indipendente a cui dovranno essere ricondotte tutte le scelte politiche, comprese quelle di politica economica.

       Abbiamo sempre affermato che era, ed è, necessario fare uno sforzo per superare la tradizionale contrapposizione tra capitale e lavoro, per andare oltre i condizionamenti dell’ ”homo oeconomicus”, perché lo sviluppo economico (di per sé positivo) è solo una componente dello sviluppo complessivo. Esso investe la persona umana nella sua espressione individuale e collettiva, ampliando la sua sfera di libertà e rafforzando la sua dignità.

       Per questo, pensiamo che qualsiasi politica di sviluppo sostenibile, necessariamente deve essere accompagnata da un efficiente Stato Sociale che protegga dignitosamente tutti i soggetti deboli, non solo dalle ripercussioni negative dei periodi di congiuntura che ciclicamente caratterizzano l’economia di mercato, ma soprattutto dalle tante situazioni di disagio collegate a patologie, che oggettivamente impediscono a questi soggetti “sfortunati” di vivere una normale vita di lavoro e di relazioni.

       In altre parole, ciò significa efficienti “ammortizzatori sociali”, dai sussidi alla disoccupazione agli assegni di mantenimento, per finire con pensioni dignitose, che non mortifichino, dopo una vita di lavoro e sacrifici, il diritto di tante persone a vivere una stagione di meritato riposo.


UNA PROSPETTIVA APERTA


       Giovanni Paolo II è stato il Pontefice che, più di ogni altro, ha fatto del tema del lavoro uno dei punti forti di tutto il suo papato: le sue Encicliche sono sempre state orientate al futuro.

       L’esperienza di questa “settimana sociale” dei cattolici italiani non può che collocarsi nella tradizione di un movimento cattolico, che guarda con particolare attenzione alle “cose nuove” per orientarci verso il futuro.

       Dobbiamo riportare il lavoro e l’uomo che lavora al centro dei nuovi processi sociali ed incominciare ad insegnare ai giovani che il lavoro è certamente “ fatica”, perché è scritto che “col sudore del tuo volto mangerai il pane”, ma è anche gioia, perché ci libera dalla schiavitù del peccato originale, rendendoci compartecipi all’opera creatrice di Dio.

       Dobbiamo portare i problemi del lavoro all’attenzione di tutti; dobbiamo incanalare l’esperienza   del lavoro verso una responsabile partecipazione, facendo della solidarietà un momento di sostanziale condivisione.

      Dopo aver recuperato il senso della realtà - alla fine dell’illusione seguita al crollo del muro di Berlino - c’è bisogno di intensificare la lotta per un domani migliore.

      I persistenti aspetti negativi del sistema liberista; le persistenti aberrazioni del comunismo e dei “nuovi dittatori“; il trionfo di nuovi e feroci integralismi, con le conseguenti ricadute in termini di terrorismo globalizzato, non possono non renderci consapevoli della necessità di una nuova stagione di impegno .

       In questa cornice il lavoro dovrebbe continuare ad essere al centro dell’impegno dei cattolici e l’uomo lavoratore il punto di riferimento per ogni progetto di sviluppo e progresso.

         Prima di affrontare i problemi della disoccupazione, della precarietà, del lavoro nero e dei tanti sfruttamenti, è necessario, secondo l’MCL, collegare il Bene comune al lavoro, così come Giovanni Paolo II ci ha insegnato.

      Un collegamento necessario perché ci spinge a guardare oltre l’individuo, coniugando il bene di ciascuno con il bene di tutti. Il lavoratore lavora per sé, ma lavora anche per gli altri e con gli altri, creando una rete di rapporti interpersonali che, ai vari livelli, esprimono una naturale esigenza sociale.

      Questa esigenza sociale si manifesta prima di tutto nella e con la famiglia, sintesi di un bisogno naturale, che fonda le radici nella realtà dei due generi (maschio e femmina), creati per completarsi, in forza di una ragione anche a prescindere da qualsiasi riferimento trascendente.

       Mettere al primo posto il lavoro, significa, quindi, riconsiderare il ruolo della famiglia nella sua realtà sociale, tenendo in debito conto la necessità di conciliare i tempi del lavoro con i tempi della famiglia, ostacolando quella invadente cultura secolarizzata e pragmatica che mira a mettere al centro l’individuo. Significa però anche riconsiderare il giorno del riposo, per riappropriarci di una cultura che deve mettere al centro il momento dello stare insieme, che per noi cristiani ha anche un significato religioso, perché “ la domenica . . . è la festa della gratitudine e della gioia per la creazione . . . “, così si è espresso il Santo Padre Benedetto XVI nel suo recentissimo discorso nella Basilica di Santo Stefano, in Austria.

       Comunque, a prescindere da qualsiasi riferimento religioso, ridurre la domenica ad un momento qualunque della settimana da dedicare al lavoro o al tempo libero, mal si concilia con quella cultura del lavoro che vogliamo considerare l’unico valido strumento per servire l’uomo.

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