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  Dialogo sociale e azioni coordinate dei Governi: le chiavi per la sicurezza

Data di pubblicazione: Mercoledì, 13 Maggio 2015

TRAGUARDI SOCIALI / n.71 Aprile / Maggio 2015 :: Dialogo sociale e azioni coordinate dei Governi: le chiavi per la sicurezza

Parla il Prof. Vittorio Emanuele Parsi

In uno dei momenti più cupi del panorama internazionale dalla fine della guerra fredda a oggi, abbiamo rivolto alcune domande a margine del seminario MCL di Belgrado (su Ue e ampliamento nell’area balcanica), al prof. Vittorio Emanuele Parsi, Ordinario di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica, da anni attento conoscitore del Movimento. Tra i temi sul tappeto questioni fondamentali come la sicurezza nel Mediterraneo, l’immigrazione, gli equilibri di politica estera.

E’ dall’assedio di Sarajevo, ossia da vent’anni a questa parte, che il mondo occidentale, attraverso le varie organizzazioni umanitarie e di cooperazione internazionale – MCL in testa –, è impegnato a promuovere il dialogo sociale e a sostenere l’avvicinamento all’Ue dei Paesi balcanici. Quale bilancio se ne può trarre?

A livello di società incrementare il dialogo è servito certamente: se le organizzazioni non governative non possono essere le registe di determinate operazioni, tuttavia possono seminare, preparare il terreno e renderlo fertile. Se oggi molte società dei Balcani sono più simili alle nostre, se c’è scambio culturale, è proprio grazie a questo lavoro: è quindi un bilancio positivo. Del resto lo scopo non era condizionare l’agenda dell’Unione ma avvicinare le società. Paradossalmente, se le società si avvicinassero al punto tale da diventare simili, pur in assenza di un’adesione formale all’Ue saremmo comunque di fronte a valori, culture, sistemi politici ed economici affini ai nostri: anche la Svizzera non fa parte dell’Unione, ma non per questo la consideriamo al di fuori.

L’acuirsi della crisi Ucraina ha messo in evidenza come la Russia di Putin sia sempre più lontana dai valori occidentali di democrazia e libertà. Con quali conseguenze per la stabilità della costruzione europea?

E’ importante sottolineare che noi non abbiamo una crisi con l’Ucraina, ma con la Russia in Ucraina.
Probabilmente abbiamo sbagliato nell’aver promesso troppo facendo credere agli ucraini che saremmo stati disposti a supportarli fino in fondo, poi abbiamo rallentato e questo ha fatto riemergere il partito antieuropeo e ha rispaccato in due il quadro politico ucraino: dove siamo intervenuti ci siamo mossi con lentezza e con paura. Ma non dobbiamo mollare: la Russia deve capire che ciò che ha fatto è gravissimo, che non si possono modificare con la forza delle armi i confini pattuiti, che in Europa non si possono ‘strappare’ i trattati.

L’offensiva dell’Isis verso l’Occidente ma anche verso l’Islam è la minaccia del nostro tempo. Da un lato lo stesso mondo arabo - a parte le unilaterali reazioni agli attacchi subiti da parte di Egitto e Giordania - sembra non reggere il passo con la ferocia del califfato, dall’altro anche l’Occidente – Onu in testa - prende tempo e tergiversa.
Come arginare quest’invasione barbarica dei nostri tempi? O dobbiamo rassegnarci al declino della civiltà?


Daesh – che ha per mira la pulizia etnica del mondo musulmano - ha due scopi: la lotta agli infedeli - una forma di jihad folle -, per ripulire l’islam da tutti gli infedeli eretici; e poi la lotta contro l’apostasia, ossia contro tutti i sunniti che non condividono quella versione di islam che è cresciuta grazie ai finanziamenti e alle esportazioni da parte dell’Arabia saudita, del Qatar, degli Emirati.
Noi siamo nel mezzo e dobbiamo scegliere cosa fare: siamo minacciati frontalmente da Daesh e dobbiamo reagire perché un islam sunnita monopolizzato da Daesh e dal wahhabismo è una minaccia per chiunque, per quelli che vivono su quelle terre e anche per chi vive intorno. Ma come reagire?
La realtà, e la stiamo vedendo in Yemen e sulla questione nucleare, è che i nostri alleati in questo momento sono gli sciiti: dobbiamo valorizzare quest’alleanza senza essere risucchiati nella contrapposizione settaria che Daesh ci propone. D’altra parte non possiamo ignorare come i sauditi, gli Emirati, il Qatar abbiano mandato 250 areoplani e 150mila uomini contro i ribelli sciiti dello Yemen e non abbiano però fatto nulla contro Daesh. Insomma la comparsa di Daesh sta resettando anche le alleanze strategiche della regione.

Dal punto di vista italiano l’emergenza immigrazione rischia di trasformarsi in una vera crisi “sicurezza”: lei stesso ha parlato di un “rischio saldatura tra terrorismo e immigrazione”.
Quali possibili vie d’uscita per un Paese come il nostro, che con km di coste continua ad essere il luogo ideale per gli sbarchi degli immigrati?


In Italia c’è un grande sfoggio di retorica: si dicono cose banali facendole passare per cose geniali, come il “non bisogna confondere gli immigrati con i terroristi”. Ma è ovvio, cosa c’entra! Però rimane che un terreno del genere, così ingovernato, di anarchia totale, è perfetto per far attecchire la cultura terroristica. Ecco perché è importante che quando guardiamo all’immigrazione abbiamo in mente da un lato preoccupazioni politiche e umanitarie, ma dall’altro ci dobbiamo occupare anche di sicurezza.
Noi italiani, preoccupati della situazione libica e della presenza di Daesh, dobbiamo capire che per chiamare gli altri a coalizione dobbiamo prima essere disponibili a stare in coalizione con gli altri.
Ossia: nel momento in cui si formano coalizioni in Ucraina o nel Golfo, contro i russi o contro Daesh, noi dobbiamo esserci se vogliamo che poi gli altri siano con noi a gestire la questione libica.

Il Mediterraneo è lo snodo degli equilibri di pace europei: crocevia di culture, religioni ed etnie che faticano a incontrarsi pacificamente.
In questo contesto, ha ancora un senso continuare a parlare di dialogo sociale?


La condizione di sicurezza o insicurezza del mare dipende dalla sicurezza o insicurezza delle coste: i pirati ci sono quando le coste sono insicure.
Dunque fin quando non metteremo in sicurezza le coste, il Mediterraneo sarà un mare insicuro.
Il problema non è tanto se ‘basta o non basta’ il dialogo sociale, ma ‘chi fa che cosa’. In quest’ottica i governi non possono continuare a cavarsela solo con le chiacchiere, i volontari ecc.. Il dialogo sociale serve, anzi è una premessa importante che lavora sul lungo periodo, sui piccoli numeri, fino a quando non cambieranno le cose. Poi però la politica deve fare il resto assumendo decisioni in cui sia prevista, ad esempio, la pressione, talvolta la coercizione, talaltra la premialità. Non si può pensare che il dialogo sociale non basti sol perché si fa solo quello: anzi, anche laddove i governi fossero impegnati in prima linea, il dialogo sociale non perderebbe la sua funzione essenziale.
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