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  La guerra dei nostri giorni

Data di pubblicazione: Sabato, 23 Aprile 2016

TRAGUARDI SOCIALI / n.77 Marzo/ Aprile 2016 :: La guerra dei nostri giorni

Parla il Prof. Vittorio Emanuele Parsi

Il terrorismo di matrice islamista sta avvelenando la vita sulle sponde del nostro Mediterraneo, mare sempre più insanguinato e lontano dall’essere ‘culla di civiltà’. Un orrore continuo che semina divisioni e terrore. Cosa ci aspetta?
E come possiamo contrastare quella che alcuni hanno già ribattezzato come la “Terza Guerra mondiale”? A rispondere è Vittorio Emanuele Parsi, politologo, docente di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano e direttore, nel medesimo ateneo, dell’Aseri, Alta scuola di economia e relazioni internazionali, intervenuto a Tirana al Seminario per l’integrazione dei Balcani in Europa.

L’Europa si trova, suo malgrado, ad affrontare un vero e proprio ‘mostro’: dai combattenti dell’Isis (spesso cittadini europei di seconda o terza generazione) che sognano lo sterminio di tutti noi ‘infedeli’, alle centinaia di migliaia di profughi che premono alle frontiere di tutta l’Unione. Ma questa Europa, già sfiancata da una lunga e profonda crisi economica che ne ha messo in rilievo le lacune e la mancanza di coesione e di ideali comuni, come può, secondo lei, far fronte a un’emergenza di tale portata? Ne abbiamo ancora la capacità?
Se parliamo di affrontare il terrorismo quello che serve, anzitutto, è la volontà politica di combatterlo, la consapevolezza della condivisione dei rischi e della necessità di affrontare l’impresa…
questo vale anche in un’Europa sfarinata e stanca dove ci sono molte furbizie e ognuno cerca di stare un po’ defilato per evitare di rientrare negli obiettivi dell’Isis.
Poi ci sono le questioni relative alla componente militare e, accanto a queste, le questioni poste dal piano sociale, da quello economico e culturale, che passano attraverso la necessità di una maggiore integrazione delle comunità islamiche presenti nelle nostre città. E’ chiaro che in Ue si fa via via più pressante una domanda: se non siamo riusciti a integrare coloro che sono arrivati 25-30 anni fa – in condizioni molto migliori loro e in condizioni molto migliori noi – come faremo a integrare questi che premono oggi alle nostre frontiere? Non è che stiamo creando le condizioni per cui fra 25 anni avremo nuovi terroristi in azione? E’ una preoccupazione che si può capire e che chiede risposte concrete, non basate sulla retorica.

La rete dei fiancheggiatori del terrorismo ha mostrato, specie dopo i fatti di Bruxelles, la sua forza e la sua importanza strategica nel dare copertura ai terroristi in fuga. Come siamo potuti arrivare a questo punto e, soprattutto, come possiamo smantellare questa mentalità perversa e omertosa?
Su questo abbiamo un’esperienza maturata nella lotta contro il terrorismo interno, che pure era infinitamente meno pericoloso di questo, e nella lotta contro la malavita organizzata: all’epoca usammo la legge reale, usammo il codice Rocco nella maniera più estensiva possibile, di fatto usammo le leggi speciali… anche se la retorica vuole che non le abbiamo usate, la verità è di segno opposto.
E, d’altra parte, colpimmo i fiancheggiatori che si annidavano in quel mondo della sinistra extraparlamentare che era contiguo al terrorismo.
Ci fu anche un’azione repressiva (e quella va sempre messa in atto…), il che non volle dire mettere nel mirino tutta la sinistra extraparlamentare, ma solo coloro che erano contigui. Cosa che va fatta anche oggi nei confronti dei fiancheggiatori dell’Isis nelle città europee: non si tratta di mettere nel mirino tutti gli immigrati mussulmani, ma solo coloro che sono contigui all’Isis.
D’altra parte è importante anche il lavoro ‘politico’ per far emergere all’interno di quel mondo l’assurdità di certe posizioni, lavorando con le comunità islamiche perché abbiano più forza e vigore e meno timidezza nel denunciare chi commette o sta per commettere certi delitti, pure se condividono la stessa religione e appartengono alla stessa comunità: dobbiamo aiutarli a comportarsi da ottimi cittadini europei.
Insieme a tutto ciò è anche importante favorire la loro integrazione evitando di ghettizzarli in alcuni quartieri delle nostre città.

La crisi in Medioriente si fa via via più complicata, anche a causa dei diversi interessi in gioco e dei numerosi attori che si stanno muovendo in questo drammatico scenario di guerra: dalla Russia, alla Francia, agli Usa, alla Turchia con tutte le sue grandi contraddizioni. Cosa ritiene ci dobbiamo aspettare da questo scenario confuso e in ebollizione?
Sì, è uno scenario molto divergente, che ha messo in evidenza come fra le sponde del Mediterraneo non vi sia più convergenza. In questo momento in Siria le cose sono un po’ migliorate grazie soprattutto all’intervento militare russo che, tra l’altro, ha consentito alla Russia di tornare a sedersi al tavolo politico, e ha permesso di dare un colpo militare importante all’Isis.
Contemporaneamente, una situazione sul campo meno drammatica, più assestata, ha permesso a sauditi e iraniani anzitutto, ma poi anche agli altri attori in gioco, di stagliare meglio i proprio interessi. Quindi la soluzione politica diventa un pochino meno lontana. E questa è la dimostrazione che lo strumento militare e quello politico camminano insieme se c’è un disegno politico: nessuno di questi strumenti da solo consente di risolvere la situazione ma, allo stesso tempo, nessuno di questi strumenti può mancare per arrivare a una soluzione.

La Libia è a un passo dalla nostra Italia.
E destano grande preoccupazione le minacce che arrivano dai jihadisti che, in fuga dai bombardamenti in Siria, stanno spostando il loro centro di azione proprio in Libia. Intanto il nostro Governo sembra essere molto cauto e accorto, per non esporre il Paese a rischi troppo elevati. Cosa ne pensa? Quali dovrebbero essere, a suo giudizio, le misure più efficaci per affrontare il problema?

In Libia la situazione è ancora molto complicata, tutto è molto più abbozzato, gli attori in campo sono più deboli, né sono così chiari gli attori esterni e i loro interessi politici, le loro mediazioni, le loro pressioni.
Ma l’importante è che non ci mettiamo in testa di stabilizzare il Paese. Noi possiamo ‘accompagnare’ la situazione verso una soluzione politica, ma sono loro a dover fare il lavoro. Certo possiamo colpire militarmente gli obiettivi Isis, e saremmo stupidi a non farlo anche perché indebolire l’Isis consente più facilmente di raggiungere una soluzione politica. E poi, come italiani, dobbiamo anche considerare che abbiamo degli interessi in più: gli altri possono anche non occuparsi della Libia, noi no perché ce l’abbiamo di fronte!

Si è molto discusso ultimamente se si tratti di terrorismo islamico o islamista. Qual è il suo parere? E serve davvero questa distinzione?
No, penso solo che gli italiani impazziscono per le parole, si divertono con le parole. Il vero problema è capire che noi stiamo combattendo quegli islamisti violenti che utilizzano lo strumento del terrorismo. Stiamo combattendo, in difesa, una guerra che ci è stata dichiarata, quindi non si tratta di un’operazione di polizia, né di ordine pubblico: è un’operazione militare condotta contro attori che hanno scatenato operazioni miliari nei nostri confronti. E questo è il prodotto dell’instabilità crescente dei regimi politici del Mediterraneo orientale e meridionale, dei problemi irrisolti nei rapporti fra sistemi politici ed economici in queste regioni.
Ma possiamo solo curare la febbre, tenerla a bada, non curare i sintomi, solo arginarla.

Fiammetta Sagliocca
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