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  Beretta: “La pandemia ha dimostrato che davvero tutto è connesso”

Data di pubblicazione: Lunedì, 7 Settembre 2020

TRAGUARDI SOCIALI / n.98-99-100 Marzo / Agosto 2020 :: Beretta: “La pandemia ha dimostrato che davvero tutto è connesso”

Con uno sguardo analitico e una visione di futuro, la professoressa Simona Beretta, professore ordinario di Politica economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Centro di Ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa, ci aiuta a rileggere gli eventi che hanno sconvolto il mondo, nell’ottica della relazione. Aspetto decisivo per il dialogo sociale e per il protagonismo dei corpi intermedi.

L’emergenza Covid 19 ha introdotto misure di profilassi medica e sociale di forte rottura con i trend mondiali: di fatto, ha interrotto la globalizzazione, a partire dalla mobilità turistica e culturale, lambendo solo parzialmente quella delle merci (per le quali comunque si parla di certificazioni Covid free...). Siamo di fronte a un cambio di paradigma economico globale?
Per la verità, già da diverso tempo si stava parlando di slowbalization, ossia di rallentamento della globalizzazione economica. Da tempo si erano stabilizzati i flussi di investimenti internazionali, si stavano verificando fenomeni significativi di re-shoring (dopo i processi di delocalizzazione verso Paesi a basso costo del lavoro, le imprese stavano tornando a investire in loco). Il processo di globalizzazione economica – che resta ben presente nonostante tutto – era stato lanciato a velocità folle da un sistema di potere molto orientato al breve periodo, con l’obiettivo di perseguire un’efficienza sostanzialmente “statica” (contenere i costi, massimizzare i profitti finanziari). Non ha avuto certo l’obiettivo di costruire un sistema resiliente, capace di durare nel tempo e di far fronte agli inevitabili shock che, con molte ragioni, ci aspettiamo anche per il futuro. Ci troviamo a questo punto: una globalizzazione zoppa, con una governance ancora inadeguata. La pandemia è stata effettivamente una doccia fredda, fisica e mentale, soprattutto per i Paesi a livello di reddito medio alto (non dimentichiamo che ogni anno 10 milioni di persone si ammalano di tubercolosi, e un milione e mezzo muore per questa malattia prevenibile e curabile! poi ci sono la malaria e tutto il resto). Speriamo sia una doccia benefica, che ci svegli da un torpore colpevole. Ma non mi vorrei fare troppe illusioni: siamo ben lontani dall’aver capito davvero che “tutto è connesso” – come ripete innumerevoli volte la Laudato Sì.
Abbiamo dunque estremo bisogno di un cambio di paradigma capace di tenere conto dei nessi fra le diverse dimensioni della nostra vita sul pianeta Terra; ma questo cambiamento non si produce da sé. Crisi ambientale, crisi demografica, estrema disuguaglianza dentro e fra i Paesi, pandemie, crisi economiche e finanziarie: tutti questi fenomeni sono connessi.
Le soluzioni tecnocratiche possono tutt’al più rispondere a un problema per volta, ma non possono che avere il fiato corto. Dobbiamo ancora imparare a governare i rischi sistemici: servono soluzioni non astrattamente “ottimali” ma robuste e flessibili; serve reale collaborazione (poliarchica e sussidiaria, dice la Caritas in veritate) fra i molti attori politici e sociali che danno corpo al vivere comune a livello locale, nazionale e globale; serve una comunicazione onesta delle possibilità, ma anche dei limiti dell’intervento pubblico; ultimo ma non meno importante, occorre la capacità collettiva di alzare lo sguardo oltre il breve periodo.

Alla vigilia del summit del G-20 ad Osaka (28-29 giugno 2019), il presidente Vladimir Putin rilasciò una lunga intervista al Financial Times, in cui affermava che la democrazia liberale ha ormai esaurito il suo compito, quello di garantire a tutti le libertà personali e sociali. Sei mesi dopo la Cina blindava Wuhan e l’Europa archiviava Schengen. La pandemia è il grimaldello dell’autocrazia?
Non c’è dubbio che stiamo assistendo ad un rafforzamento di regimi autocratici in alcuni Paesi-chiave dello scenario geopolitico. Sappiamo anche che l’inerzia gioca un ruolo potentissimo nei processi politici; quindi è prevedibile che le autocrazie di oggi possano durare nel tempo. Ma la storia, anche questo sappiamo, è scritta dagli esseri umani, nella loro misteriosa natura fatta insieme di miseria e di grandezza. Una cosa mi sembra certa: per sua natura, l’autoritarismo non può essere resiliente, né capace di promuovere la partecipazione creativa dal basso che può immaginare e realizzare condizioni di buona convivenza. Nello stesso tempo, l’osservazione di Putin è anche provocante in senso buono. Perché non prendere sul serio la sfida – non solo intellettuale, ma eminentemente umana – di ripensare: cosa vuole dire democrazia? cosa vuole dire libertà?
Penso che il punto cruciale stia qui: per la mentalità comune, che inevitabilmente assorbiamo per il fatto di esserci immersi, finiamo per concepirci praticamente come individui la cui libertà si esprime di volta in volta votando come singoli cittadini/elettori, come consumatori, persino – per qualcuno - come blogger o come influencer… Veramente un’umanità dimezzata.
Invece mi sembra realistico ricordare che nell’esperienza personale “io” e “noi” sono sempre connessi, spesso anche in tensione fra loro, ma concretamente inseparabili.

La lotta al coronavirus si innesta nel processo di disintermediazione: nei prossimi anni parleremo più di smart working o di sindacato?
Cominciamo dalla parola disintermediazione, perché è molto emblematica della mentalità individualistica che ci avvolge. Come la banca dovrebbe intermediare fra il risparmiatore e l’utilizzatore dei risparmi, così immaginiamo qualcosa “in mezzo” fra l’individuo e lo spazio collettivo (il mercato, oppure la politica) che gestisca al posto nostro la situazione.
Consideriamo il mondo del lavoro: forse una delle ragioni per cui si parla sempre meno di sindacato è proprio perché è diventato un oggetto istituzionale che sta lì in mezzo, in quella specie di vuoto fra le due cose che ci sembrano contare davvero: l’individuo, da un lato; il mercato con le sue logiche dall’altro. E se in mezzo ci ritroviamo un sindacato fatto di pensionati, i giovani lavoratori che fanno? Non sorprende che non si parli più di un sindacato, se non è uno spazio dove dire “noi” in modo rilevante per la concretezza dell’esperienza personale di lavoro. Parliamo invece anche troppo di smart working. Ma spesso dimentichiamo che il lavoro può essere davvero smart solo perché le persone, non il supporto e le modalità, lo rendono tale. Il lavoro è infatti eminentemente relazione: lo spazio dove l’io e il noi si incontrano e si scontrano nell’inestricabile interdipendenza della vita economica. In ufficio o sul video, poco cambia.

Sul piano politico, la partecipazione si è sempre alimentata di un confronto delle idee supportato dalla presenza fisica dei militanti. E’ onesto dire che era già in crisi prima del Covid 19, ma Lei ritiene che abbia chances reali di risorgere?
Le cose vecchie non possono risorgere, per definizione. Sorgerà qualcosa di nuovo nella misura in cui la libertà umana si metterà in moto, dicendo “noi” con tutta la forza di tanti “io” in azione.

Il Mes e il debito pubblico: com’è possibile passare in così breve tempo dai cerberi di Maastricht al “liberi tutti”?
La collaborazione europea è un fenomeno complesso: un po’ intergovernativa (ambito in cui i piccoli Paesi hanno un peso sproporzionato), un po’ sinceramente europea e sovranazionale (pensiamo alla Bce, ma anche ad alcuni tratti delle recentissime decisioni relative al Recovery Fund). In momenti diversi prevalgono compromessi che pendono più da una parte o più dall’altra (con anche la possibilità di sciogliersi dai legami, come nel caso Brexit). Ma si tratta sempre di negoziati e compromessi, come in ogni convivenza duratura in cui si cerca di preservare la relazione, pagando qualche pegno. Tutto dipende, anche qui, dallo sguardo, cioè se prevale il gioco politico di breve respiro o l’orizzonte lungo di una possibile convivenza flessibile e resiliente.

Fino al 2019 i sistemi economici evoluti elaboravano complesse strategie di marketing per attrarre i consumatori anziani, considerati il vero futuro del mercato.
Quello che ci attende è ancora un mondo economico per vecchi?

I vecchi non potranno essere il futuro, ma certamente sono il presente del mercato; almeno dalle nostre parti. Ma attenzione alla miopia: in questo momento storico, la popolazione mondiale è caratterizzata dalla più grande coorte di giovani che si sia mai osservata. Fate voi qualche conto su come sarà fatto davvero il futuro.

Qual è la misura emergenziale del governo Conte che le è piaciuta di più e qual è quella che detesta?
E’ come chiedere a una nuora o a un genero qual è la cosa migliore e quale la cosa peggiore di una suocera: si può prenderla solo tutta intera.
Lo so bene, dato che sono una suocera…

Paolo Viana

SIMONA BERETTA

Per un’economia attenta alla persona

Simona Beretta è professore ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, insegna discipline economico-internazionali.
Laureata nel 1978 presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; M.Sc. in Economics presso la London School of Economics and Political Science nel 1981. Ha insegnato Economia politica presso l’Università degli Studi di Parma dal 1988 al 1991.
Direttore del Master in International Cooperation and Development, ASERI. Membro del Comitato Direttivo di ASERI, l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Direttrice del Centro di Ateneo per la Dottrina Sociale della Chiesa. Attualmente Membro della Social Affair Commission, COMECE, Bruxelles.
Le sue attività di ricerca sono mirate ad esaminare il legame tra persona-economia-politiche e pratiche, con riferimento a temi quali il contrasto alla povertà, l’integrazione internazionale, il buon funzionamento del sistema finanziario.
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