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  Economia, le ragioni della crisi

Data di pubblicazione: Mercoledì, 1 Maggio 2013

TRAGUARDI SOCIALI / n.58 Maggio 2013 :: Economia, le ragioni della crisi

Perché l’Italia non cresce?

Nel campo dell’economia il futuro si crea e non si scopre.
Questo lo dovrebbero avere bene in mente tutti coloro che si azzardano nel compiere previsioni (o meglio predizioni) di breve periodo sull’andamento futuro dell’economia o che le utilizzano come se fossero oro colato.
Quello che si può fare è invece disegnare scenari di medio lungo periodo entro i quali delineare delle tendenze di fondo dei processi di accumulazione. La variabile più importante è quella del Pil (la ricchezza prodotta in un anno in un Paese) visto che sono ad essa legate, per prenderne solo due, quella della distribuzione del reddito e della disoccupazione.
I tempi com’è noto sono difficili. Secondo gli economisti del servizio studi della Banca d’Italia, nella seconda metà di quest’anno, l’economia italiana avrà una timida ripresa ma, malgrado ciò, si avrà una caduta del Pil su base annua dell’1%. Tuttavia anche se così fosse, o se la numerologia fosse diversa di qualche punto percentuale, il quadro dell’economia italiana non cambierebbe di molto visto il trend di declino iniziato da almeno un ventennio.
Solo per recuperare il Pil perso in seguito alla grande recessione dell’ultimo lustro servirebbero almeno dieci anni.
Nel nostro amato Paese vi è un esercizio, molto praticato, di scarico delle responsabilità verso fattori esterni.
Tutto ciò di buono che accade è merito nostro, le criticità invece sono importate. La crisi finanziaria originatasi negli USA e la perdita della sovranità monetaria legata all’adozione dell’euro sono le più gettonate. Un’analisi che va bene nelle campagne elettorali o nei talk show televisivi ma che alla luce dei fatti e dei dati risulta erronea.
Vediamo perché.
Tra i tanti indicatori forniti dalle statistiche economiche quello che fotografa al meglio la nostra non rosea situazione è il reddito reale pro capite che misura il grado di benessere della popolazione di un Paese, comparato agli altri. I dati relativi all’Italia ci raccontano che nel 2012 esso è tornato ai livelli raggiunti nel 1997. Insomma tre lustri trascorsi invano. Occorre invertire questa tendenza, facendolo in fretta, altrimenti il declino del nostro Paese continuerà inesorabilmente. La scatola degli attrezzi dell’economia ci fornisce due modi alternativi per osservare il reddito reale. In un suo scritto il premio Nobel del 2008 Paul Krugman ha chiarito bene la questione.
Operando una distinzione tra gli economisti d’acqua dolce (quelli che lavorano ad esempio nelle Università di Chicago e del Minnesota) interessati al lato dell’offerta aggregata dell’economia e quelli d’acqua salata delle Università della costa atlantica (Harvard e Mit di Boston) preoccupati della domanda aggregata. Sono importanti tutti e due i corni del dilemma anche se gli economisti d’acqua salata (i testimoni della vulgata keynesiana) tendono a trascurare il ruolo dell’offerta e gli altri, i neoclassici (i liberisti), tendono a dimenticarsi della domanda.
Se sposassimo il punto di vista keynesiano, tutto quello di cui avremmo bisogno sarebbe un mero rilancio della spesa aggregata. Potremmo avere una crescita del Pil ed una riduzione del tasso di disoccupazione semplicemente mettendo in discussione l’equilibrio di bilancio ed il consolidamento fiscale (fiscal compact) impostici dalla Commissione Europea. L’aumento dei consumi delle famiglie farebbe da volano anche gli investimenti delle imprese che con la loro crescita incrementerebbero anch’essi la domanda aggregata. Come risultato finale si avrebbe un aumento del Pil ed un conseguente incremento delle entrate dello Stato che ristabilirebbe l’equilibrio del bilancio.
Il deficit spending keynesiano in azione. L’Italia in questo modo sarebbe fuori dalle secche della crisi facilmente.
In quest’analisi però oltre ad una buona dose di ottimismo vi è una sottovalutazione del ruolo dei fattori produttivi (il capitale ed il lavoro). La crisi dell’Italia non è una semplice crisi dovuta all’insufficienza di spesa aggregata provocata dalle politiche deflattive imposte dalla Germania ai paesi periferici dell’Europa. O se volete non è dovuta solo a questo. Certamente lo shock della grande recessione globale, generatasi a partire dal 2008, e la successiva crisi dell’eurozona hanno ridotto le potenzialità di crescita delle economie europee e provocato un aumento del numero dei disoccupati. I macroeconomisti, prendendo il concetto in prestito dai fisici, lo chiamano “ciclo di istèresi”. La stagnazione della crescita del Pil tende a protrarsi e la disoccupazione tende a rimanere elevata anche quando lo shock economico è stato riassorbito.
Come se le cause preesistenti al fenomeno negativo generatosi continuassero a manifestare con ritardo i loro effetti. Insomma tutta la capacità produttiva, fatta di capitale e di lavoro, persa durante la recessione non tornerebbe immediatamente disponibile allo scoccare della scintilla della domanda aggregata. Assodato ciò va ricordato altresì che la riduzione delle potenzialità di crescita, della produttività e della competitività sono anteriori a questi shock di natura economico-finanziaria, generatisi a cavallo tra il 2007 ed il 2008, che hanno contribuito solo ad accentuare la tendenza.
Il reddito reale pro capite è il risultato dell’interazione di quattro fattori di offerta: 1) la produttività oraria del lavoro; 2) le ore lavorate per occupato; 3) il tasso di occupazione; e 4) il tasso di partecipazione. Nel nostro Paese sia la produttività oraria sia il tasso di partecipazione al mercato del lavoro sono i più bassi tra i paesi componenti il G7. Quello che ci penalizza è la produttività stagnante e la bassa partecipazione della popolazione attiva al mercato del lavoro. Mentre le ore lavorate ed il tasso di occupazione sono sostanzialmente nella media.
Attualmente però nel nostro Paese il dibattito è altrove.
Concentrato sui fattori che condizionano la domanda aggregata. Quali le politiche di austerità imposteci dalla Commissione Europea; l’adozione dell’euro che non ci consente di recuperare la competitività attraverso la svalutazione e che ci ha privati della sovranità monetaria.
Nel prossimo numero una serie di proposte per far ripartire l’economia italiana agendo dal lato dell’offerta dell’economia.

Marco Boleo
Ufficio Studi MCL
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