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  Educare i giovani per vincere la droga

Data di pubblicazione: Domenica, 17 Giugno 2007

TRAGUARDI SOCIALI / n.26 Maggio / Giugno 2007 :: Educare i giovani per vincere la droga

A colloquio con don Luigi Larizza



A COLLOQUIO CON DON LUIGI LARIZZA


       Don Luigi Larizza non è un prete come tanti. E’ balzato all’onore delle cronache in tempi molto recenti, per aver presentato il famoso ricorso al Tar del Lazio che ha poi determinato la sospensione del decreto del Ministro Livia Turco sull’aumento della quantità di droga ‘leggera’ detenibile legalmente. Ma don Luigi è soprattutto un prete “di strada”, uno che vive tra la gente e che conosce bene la realtà del mondo giovanile, troppo spesso bruciato in fretta dalla dannazione della droga. Parroco al Sacro Cuore di Taranto, don Luigi è anche assistente spirituale del Mcl. A lui abbiamo chiesto il da farsi per sconfiggere il flagello della tossicodipendenza.


EDUCARE I GIOVANI PER VINCERE LA DROGA


La piaga della tossicodipendenza continua a mietere vittime tra i giovani e non solo. Anzi, nonostante i vari tentativi (e tentennamenti) della politica, il mercato della droga sembra essere sempre più fiorente. Esiste una ricetta per vincere questo flagello?

       La piaga della tossicodipendenza è una realtà nota a tutti. Una ricetta non c’è; sarebbe bello se ci fosse. Credo però che, prima di parlare di ricetta, come per curare qualsiasi malattia, sia necessario scoprirne le cause. Bisogna prima esaminare queste e poi trovare il rimedio adatto. Lo sbaglio della nostra società è proprio quello di tentare i rimedi senza aver trovato la cause del disagio.

       Credo che si vogliano ignorare le cause proprio perché trovarle comporta la capacità di mettersi in discussione. E’ facile proporre rimedi agli altri, ma riconoscere di aver contribuito a “creare disagio” con i propri comportamenti e con gli esempi sbagliati, significa assumersi la propria parte di colpa. Nessuno vuole mai ammettere di aver sbagliato. Basta rileggere la Genesi per vedere come questo sia insito nella nostra natura. Adamo dice: “La donna che mi hai messo accanto mi ha detto di mangiare, ed io ho mangiato”. Eva dice: “Il serpente mi ha detto di mangiare ed io ho mangiato”.

       Questo atteggiamento di rimpallo di responsabilità è oggi ricorrente di fronte alle varie devianze. La famiglia sostiene che è colpa della scuola, la scuola che è colpa dello Stato, gli uomini di Stato affermano che è colpa di chi non riesce a stare al passo. Tutti si sentono a posto, quasi che scaricare la colpa sugli altri sia la panacea delle proprie coscienze. Secondo il mio modesto parere, le cause risiedono nel voler essere alla moda, deresponsabilizzandosi e non avendo il coraggio di porsi dei limiti.

       Se guardiamo i nostri Soloni, notiamo come, nel desiderio di essere osannati, credono di fare il bene dei giovani invitandoli al libertinaggio: droga libera, sesso libero, vietato vietare, fa’ quello che vuoi e sarai felice. Sembrano essere questi i nuovi comandamenti. Ma non si accorgono che stanno confondendo la libertà col libertinaggio, provocando caos e disordine morale e mentale.

       La droga, infatti, che nell’Ottocento e all’inizio del Novecento era usata solo dai giovani che, grazie ai soldi di papà, erano deresponsabilizzati, ha incominciato ad essere fenomeno di massa.

       Un diffuso malessere, causato dalla perdita di valori, ha reso vuoti i giovani. Le nuove generazioni, prive di punti di riferimento certi - la Famiglia, la Società, la Fede - si sono creati idoli che, incapaci di saziare la fame di felicità, li ubriacano con le sostanze e con l’effimero.

Un’efficace prevenzione parte necessariamente dalla collaborazione tra famiglia e scuola. Cosa suggerirebbe a questo proposito?

       Non voglio essere un laudator temporis acti, ma sarebbe auspicabile una presa di coscienza delle peculiari responsabilità della famiglia e della scuola.

       Oggi, purtroppo, il giovane viene visto dalla famiglia come una tasca da riempire di soldi e dalla scuola come un contenitore da riempire di nozioni. E’ importante che la famiglia torni ad essere il luogo dell’affetto, del dialogo, dell’incontro. Il luogo dove i figli possano dialogare con i genitori e dove il giovane venga responsabilizzato. Col facile pretesto “non voglio che mio figlio soffra come ho sofferto io”, ai giovani vengono spianate tutte le strade e quindi non li si educa ad affrontare problemi. Ogni desiderio viene non solo esaudito alla sua richiesta ma, spesso, anticipato, generando nel giovane l’idea del “tutto mi è dovuto”.

       La possibile soluzione, per me, è un dialogo efficace tra Famiglia e Scuola, capace di far capire al giovane che nulla è contro di lui, ma che tutto concorre alla sua formazione, alla sua crescita, anche il richiamo alla serietà, all’impegno, alla fatica e alla rinuncia.

Il dibattito sull’efficacia e sulla validità dei metodi delle comunità terapeutiche continua a tenere banco: quali strumenti occorrono, secondo la sua esperienza, per ottenere dei risultati validi?

       Personalmente credo che la comunità sia l’unica risposta al problema della tossicodipendenza. Certo, bisogna rivedere i tempi, le metodiche, gli interventi, ma al di fuori di queste strutture non c’è, al momento, altra scelta.

       Gli stessi Ser.T. (servizio tossicodipendenze) sono visti dagli assistiti solo come centri di distribuzione di metadone. I dialoghi, gli incontri, le varie analisi, sono solo tappe obbligate per avere il metadone, non un desiderio di uscire. Quanti giovani stanno lunghi anni a 100, 120 cc. di metadone? Quanti, pur prendendo il metadone, poi sono positivi agli esami?

       La comunità, con tutti i suoi limiti, obbliga il giovane a “vivere senza dipendere né dalla roba né dal metadone” e, con l’aiuto del gruppo, a rivedere la propria vita, a ritrovare e ricostruire il proprio “Io” distrutto dalla droga. Per me bisognerebbe rivedere la Legge sulla tossicodipendenza, rendendo obbligatoria la comunità al tossicodipendente che ha da scontare una pena per dei reati specifici. Quindi, non facoltativo, ma obbligatorio, il cammino terapeutico.

Lei è stato promotore del ricorso al Tar del Lazio, che si è pronunciato poi contro il decreto Turco. Cosa ci può dire su questa vicenda?

       Il ricorso è stato motivato dal fatto che la nuova legge, approvata dalla Turco, elevava - da 0,5 a 1 grammo - la dose di sostanza da poter detenere legalmente. Sembra una cretinata ma è necessario capire. Già 0,5 grammi di sostanza attiva sono un limite alto; sono l’equivalente di circa 20 spinelli. La Turco, quindi, aveva previsto il raddoppio, da 20 a 40 spinelli circa, della dose da considerare legale, come uso personale.

       Questo è un assurdo per i seguenti motivi:
• non può il Ministro della Salute banalizzare sulle conseguenze del fumo di “erbe”. Il giovane, in presenza del placet del Ministero della salute, si convince che tutto va bene.
• Su un pacchetto di 20 sigarette di tabacco si scrivono tutte quelle frasi per favorire un atteggiamento di attenzione e cautela, ma il Ministero della Salute dice che 40 spinelli vanno bene.
• Non c’è nessun dipendente che vada in giro con 40 spinelli. Chi porta tale quantità lo fa unicamente per spacciare, non per consumare; quindi il decreto era un decreto che favoriva lo spaccio.
• La bugia più grande è la presunta distinzione “droga leggera – droga pesante”.
• Basta! La droga è droga, senza altri aggettivi. Devo poter star bene senza dipendere da nulla. Nel momento in cui io, per stare bene, devo dipendere da qualcosa, sono tossicodipendente e questo, per uno Stato serio, non può essere accettato. Uno Stato serio deve, sempre, tutelare la salute del cittadino.

       Logicamente, pur certo delle mie idee, non potevo attaccare il Decreto sul piano legislativo. Io sono un semplice cittadino, i Ministri fanno i Decreti. Ma, grazie all’intuizione dell’avvocato Filippo Vari, del foro di Roma, è stato possibile attaccare il provvedimento per l’incompetenza e per la carenza dei pareri degli esperti. E il T.A.R. del Lazio ci ha dato ragione.


T.S.

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