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  Istruzione e formazione dialoghino col mondo del lavoro

Data di pubblicazione: Domenica, 16 Ottobre 2016

TRAGUARDI SOCIALI / n.78-79-80 Serie 2016 :: Istruzione e formazione dialoghino col mondo del lavoro

Intervista al Sottosegretario di Stato Gabriele Toccafondi

Giovani e istruzione: un binomio esplosivo negli ultimi anni (forse sarebbe più corretto parlare di decenni) in Italia. Ne abbiamo ragionato con il giovane Sottosegretario di Stato all’Istruzione, Università e Ricerca, Gabriele Toccafondi, con il quale abbiamo allagato lo sguardo anche al campo della formazione e delle politiche europee in materia.

Una nuova e drammatica forma di esclusione sociale sono i giovani NEET, un fenomeno in continua crescita. Quali ritiene debbano essere le strategie formative, gli attori da coinvolgere per contrastare questa piaga?

Innanzitutto è necessario operare una distinzione e chiarire cosa si intende per NEET. Il termine NEET, raccoglie la fascia di giovani tra i 15 e i 29 anni in cui confluiscono sia i giovani che abbandonano precocemente il percorso scolastico o formativo intrapreso (Early school leavers), sia i giovani che non sono iscritti a scuola né all’università, che non lavorano e non seguono nessun corso di formazione o aggiornamento professionale: “Not in Education, Employment or Training“.
Il paradosso è che abbiamo 2 milioni di NEET e le aziende stentano a trovare professionalità di cui hanno bisogno. Nel nostro Paese abbiamo tardato a renderci conto che il mondo dell’istruzione e della formazione deve dialogare con il mondo del lavoro. Abbiamo rivisitato in tal senso sia l’alternanza scuola lavoro sia l’apprendistato. Far fare esperienza ai nostri ragazzi è il miglior antidoto per prevenire abbandoni e per far scoprire ai ragazzi il proprio talento e la propria vocazione. Le esperienze in contesti di lavoro arricchiscono il curricolo degli studenti e consentono loro di affacciarsi nel mondo del lavoro con maggiore consapevolezza di come funziona e con competenze coerenti con le richieste dalle imprese, che le imprese stesse hanno contribuito a formare.
Sappiamo che in molti casi le attività di alternanza e le sperimentazioni in apprendistato sono state il primo passo concreto per l’inserimento professionale dei giovani. Non sono poche le aziende che, dopo aver sperimentato la preparazione degli studenti ospitati, hanno fatto loro una proposta di lavoro.

La mancanza di raccordo tra il mondo del lavoro e il mondo della formazione è uno dei punti deboli del nostro Paese e allo stesso tempo è un fattore decisivo per lo sviluppo. Quali sono stati gli aspetti positivi e le difficoltà del programma di alternanza scuola lavoro e quali prospettive potrà avere in futuro?

Recuperare il gap che ha separato mondo della scuola e mondo del lavoro ha significato dover ricreare le condizioni per la ripresa del dialogo con le imprese, siglare protocolli a livello nazionale per favorire le convenzioni con le singole scuole, far riscoprire ai ragazzi la pratica dell’esperienza in alternanza come acceleratore di maturità individuale.
Grazie alla Buona Scuola tutto questo è stato possibile rendendo obbligatoria l’alternanza scuola lavoro, abbiamo elaborato la guida operativa per dare indicazioni alle scuole e creato il registro nazionale dell’alternanza per le imprese disposte ad accogliere i ragazzi.
Il mondo del lavoro richiede competenze qualificate, sia trasversali sia specifiche. Stiamo lavorando affinché, scuola e mondo del lavoro, collaborino strettamente nella progettazione dei percorsi destinati ai ragazzi.
Gli aspetti positivi sono stati il fatto che si sta capendo che la finalità non è lo svendere «la scuola all’impresa», e che è necessario lavorare in maniera non separata sul «sapere» (scuola) e il «saper fare» (lavoro) ma considerarli come prerequisiti non scindibili per il «saper essere». I risultati del monitoraggio, ad esempio, della sperimentazione con Enel mostrano che i ragazzi che hanno partecipato al progetto di apprendistato hanno avuto i voti più alti agli scrutini, questo ci dimostra chiaramente che non si fa «addestramento» in alternanza, ma scuola, ci si allena con i saperi e le abilità per impadronirsi di competenze nella risoluzione di problemi concreti.

Nella nostra vita di Movimento abbiamo sperimentato il positivo ruolo svolto dalle molteplici agenzie educative, come le associazioni, nel percorso formativo dei giovani, dando loro la possibilità di giocarsi nella concretezza della quotidianità. Ritiene che questo ruolo possa essere valorizzato dalle istituzioni e in che modo?

Parlare di educazione, oggi, deve necessariamente fare i conti con una società in continua trasformazione, in cui sia i sistemi di istruzione e formazione sia i sistemi educativi in senso lato sono inseriti. A tal fine, scuole, agenzie educative e formative, ed enti di formazione, devono superare la propria autoreferenzialità per ricostruire un’idea di futuro che chiede di accelerare ciò che con la Buona scuola stiamo portando avanti.
L’alternanza è, di fatto, un’innovazione che punta alla concretezza della quotidianità. Aver ampliato i campi e i settori dell’applicazione ad associazioni di volontariato, enti no profit, oltre che alle aziende, testimonia un modello di alternanza duttile rispetto alle competenze che possono essere sviluppate nel terzo settore. Sono tanti i progetti pensati e realizzati dalle associazioni, ad esempio, contro la dispersione scolastica o bandi promossi dal MIUR per promuovere il volontariato nelle scuole.
La legge 107/2015, la Buona scuola, aprendo a organismi pubblici e privati, anche del terzo settore, ha aperto le porte dell’associazionismo e della cooperazione a significative prospettive di incontro scuola lavoro, non solo per far sviluppare tutte quelle competenze trasversali richieste (lavoro di gruppo, progettazione, comunicazione e competenze di cittadinanza) ma anche per trasmettere l’importante bagaglio valoriale e motivazionale che sta alla base del proprio modo di lavorare.

La libertà di educazione è un caposaldo della nostra democrazia, eppure questo principio quando non è apertamente osteggiato, è ridotto a un semplice slogan. Come si può, invece, renderlo attuale affinché questa libertà non sia solo appannaggio di quanti possono permettersela, ma sia davvero per tutti?

Combattiamo i diplomifici, ma volgiamo tutta la nostra attenzione a chi offre un servizio in quanto si deve operare positivamente all’esercizio del diritto di scelta, per far sì che la scelta della scuola sia una scelta vera per tutti.
Dobbiamo abbattere un aspetto culturale e ideologico che rifiuta il concetto di parità scolastica come scelta educativa e ribadire che la scuola statale e paritaria è scuola pubblica. Siamo consapevoli della necessità di finanziare la libertà per renderla effettiva, infatti abbiamo inserito una rivoluzionaria norma con un contributo in favore delle scuole paritarie che accolgono bambini e ragazzi disabili. E’ un’inversione di tendenza, per la prima volta dalla legge Berlinguer. Sono oltre 12 milioni di euro l’anno e andranno nella misura di mille euro a ragazzo. Stiamo muovendo anche per la revisione del Testo Unico della scuola e in tale prospettiva stiamo lavorando per l’introduzione di un articolo, nella prima parte del T.U. che, nel recepire il contenuto dell’art.1 della l.62/2000 ne dia anche concreta attuazione, prevedendo, in via generale, l’estensione della disciplina (di primo e secondo grado) prevista per le scuole statali, anche per le scuole paritarie. Il principio costituzionale della libertà di educazione trova, infatti, realizzazione attraverso le scuole statali e le scuole paritarie ai sensi della Legge 10 marzo 2000, n. 62. Tale riconoscimento quindi, inserisce la scuola paritaria nel sistema nazionale di istruzione e garantisce l’equiparazione dei diritti e dei doveri degli studenti […] e, più in generale, impegna le scuole paritarie a contribuire alla realizzazione della finalità di istruzione e educazione che la Costituzione assegna alla scuola. In sintesi, nel sistema nazionale dell’istruzione, le istituzioni scolastiche sia statali che paritarie concorrono, nella loro specificità e autonomia, a realizzare l’offerta formativa sul territorio svolgendo un servizio pubblico.

L’Unione Europea, che sembra vacillare tra la Brexit e i populismi, ha sempre indicato nella formazione europea non un semplice fattore di crescita economica, ma un elemento essenziale per lo sviluppo della casa comune. Nel contesto attuale la formazione è ancora strategica e in che modo?

Forse in questo momento, l’importanza della formazione, in particolare nel contesto dell’Unione Europea, lo è ancora di più.
Promuovere una “crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” non è un concetto legato esclusivamente alla crescita economica, ma ad un importante salto in avanti di visione che va data alle nuove generazioni.
Il concetto stesso di “sostenibilità”, quale condizione di uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri, implica un grado di consapevolezza dell’altro e di educazione verso l’altro che può essere raggiunto solo attraverso la condivisione di valori comuni, di inclusione e rapporti di scambio e formazione.
Non si può non rendersi conto e non considerare che la tecnologia che ha accorciato lo spazio e il tempo della nostra quotidianità, e quindi dilatato il concetto di “casa”, non influenzi ogni scelta dei nostri ragazzi, da quella formativa a quella lavorativa, in relazione tra l’altro ad un mercato del lavoro ormai amplificato e che richiede figure professionali completamente nuove e da inventare, altamente specializzate e con competenze trasversali elevate. Ignorarlo sarebbe togliere occasioni di crescita ai giovani.
Il mondo del lavoro e della conoscenza non ha più confini netti, e azioni importanti quali prima il Lifelong Learning Programme poi l’ Erasmus +, il portale European Youth, diventano luoghi fondamentali per accompagnare i ragazzi nella crescita e nella propria realizzazione. Come anche l’alternanza e l’apprendistato aperti ad esperienze europee fanno sì che la parola chiave “esperienza” sia volano di autoimprenditività, non soltanto come acquisizione di conoscenze quanto come sviluppo di abilità favorite dagli ambienti di apprendimenti in situazioni diverse e lavorative anche all’estero.
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