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  L’età della tarda democrazia

Data di pubblicazione: Martedì, 7 Ottobre 2014

TRAGUARDI SOCIALI / n.67 Luglio / Settembre 2014 :: L’età della tarda democrazia

A colloquio con Lorenzo Ornaghi, Presidente Aseri

Lorenzo Ornaghi, ossia una vita spesa al servizio della cultura: un cursus honorum di assoluto prestigio - rettore dell’Università Cattolica di Milano fino al 2012, poi Ministro per i Beni e le Attività Culturali nel governo Monti, ora Presidente dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI) -. E’ un piacere approfondire con lui alcuni temi – dalle trasformazioni delle democrazie moderne alla decadenza culturale dei nostri tempi – per i lettori di Traguardi Sociali.

Nel suo ultimo libro, dal titolo particolarmente evocativo, “Nell’età della tarda democrazia” lei esamina approfonditamente alcune preoccupanti caratteristiche delle democrazie occidentali del nostro tempo: caduta della rappresentatività, usura del funzionamento istituzionale, perdita di fiducia nella politica da parte dei cittadini.
Potrebbe sinteticamente illustrare quali sono, a suo avviso, le cause profonde di questo processo storico?

Prima di rispondere, richiamo l’attenzione su un paradosso che, proprio perché piuttosto strano, è interessante da considerare e si rivela, alla fine, assai eloquente. Sono ormai molti anni che stiamo ripetendo che quella in cui siamo immersi è un’età di incessanti trasformazioni, estese e veloci, e – appunto per ciò – scarsamente governabili, oltre che spesso inquietanti. Questa constatazione, pur corretta, è stata e tuttora viene ripetuta in un modo così frequente, da essere ormai divenuta un luogo comune. O, anche, un alibi con cui giustificare non solo tutti gli ostacoli che incontriamo nel nostro agire individuale e collettivo, ma anche le nostre decrescenti capacità di saper interpretare (e voler orientare) ciò che storicamente sta cambiando. Forse, come ha ricordato Papa Francesco, è più utile prendere coscienza che un’epoca è già irreversibilmente cambiata, e che, pertanto, le res novae cui ci pongono di fronte le trasformazioni in atto richiedono un supplemento di intelligenza, un sovrappiù di azione generosa e responsabile.
Ma, pur evocando di continuo i mutamenti di questa nostra età, stentiamo a prendere atto – ecco il paradosso – che anche la democrazia si è trasformata e va trasformandosi. Si è trasformata negli oltre due secoli dalla sua nascita ‘moderna’, e con ritmo più intenso si trasforma oggi, per una quantità di fattori, da quelli economici (si pensi solo a che cos’è l’economia nell’odierna fase della globalizzazione) a quelli socio-demoscopici. A me pare, tuttavia, che una causa (o un fattore) di cambiamento meriti una particolare considerazione. Le democrazie stanno diventando ‘attardate’ (e anche in questo senso siamo in una «età della tarda democrazia») per effetto o per colpa di ciò che esse hanno maggiormente contribuito a razionalizzare e non di rado nobilitare. Vale a dire, la politica. Quando esse stesse non favoriscano il nascere e diffondersi di una ‘cattiva’ politica, le democrazie non sembrano oggi in grado di contrastarla in ogni circostanza ed efficacemente. Fra i molti processi storici che stanno cambiando e talvolta indebolendo le democrazie, terrei soprattutto sotto osservazione quello che sinteticamente indichiamo come ‘contro-politica’.
Che è anch’esso, ormai, una tendenza storica. E che, quando non rischi di produrre come contraccolpo un populismo antidemocratico, certamente agevola deformazioni, di carattere populistico anch’esse, non solo della democrazia, ma anche dei rapporti fra la democrazia e le molteplici realtà, o i ‘corpi’, da cui è necessariamente e naturalmente composta la società.

Lei professore è stato, per moltissimi anni, Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, cioè della più importante istituzione culturale del cattolicesimo italiano. Vorremmo allora chiederle se lei ritiene che, all’origine della evidente decadenza politica italiana di questi ultimi decenni non vi sia anche un’altrettanto evidente decadenza culturale e quali siano le sue principali caratteristiche.
Ringrazio, innanzi tutto, di aver ricordato nella domanda il ruolo che l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha sempre ricoperto, tenendo fede alle sue origini, all’interno e nei confronti del cattolicesimo italiano. Passo alla risposta. Vero o più temuto e immaginato che sia, irreversibile e sempre più rapido da un certo punto della sua traiettoria o ancora arrestabile e rovesciabile, il declino di un sistema politicoistituzionale è non solo un fatto storico, ma anche il destino naturale di ogni forma stabilmente organizzata di convivenza collettiva. Talmente naturale, che sin dalle sue origini il pensiero filosofico e politico si è posto il problema di capire quali siano le cause principali della decadenza e della fine di ogni sistema di poteri, il quale peraltro – sempre (e comprensibilmente) – tende a pensarsi eterno. La decadenza italiana, se davvero è ormai tale irreversibilmente, va considerata non solo nei suoi fattori più particolari e specifici, ma anche in quelli comuni all’Europa e alla perdita, da parte di quest’ultima, dell’antica ‘centralità’ geopolitica e geoeconomica. Personalmente, tuttavia, sono convinto (e sostengono questa mia convinzione i risultati delle ricerche di coloro che maggiormente hanno studiato il declino dei sistemi politici) dell’assoluta rilevanza della ‘cultura’ quale fenomeno esplicativo di ogni decadenza. In due sensi, che qui indico brevemente, anche se meriterebbero di essere trattati a lungo. Un sistema stabilmente organizzato di convivenza collettiva incomincia a declinare quando la sua cultura, che sbrigativamente potremmo definire ‘alta’ (ossia quella prodotta dal ceto intellettuale e continuamente fatta progredire nei luoghi di trasmissione e innovazione culturale, come per esempio le Università) non solo sembra diventare incapace di indicare un affidabile orizzonte futuro, ma è anche sempre più staccata e lontana dalla realtà della vita quotidiana.
In un secondo senso, e come diretta conseguenza del deperimento della cultura quale «cultura di un popolo», diceva spesso Giovanni Paolo II, i processi di decadenza si accelerano e diventano del tutto evidenti allorché, nei più comuni modi di agire e nei convincimenti più diffusi, i principi e i valori fondati su principi arretrano di fronte alle mutevoli rappresentazioni sociali e al relativismo delle opinioni scambiate o contrabbandate come ‘verità’, per il fatto di essere, o aspirare a essere, espressione di una maggioranza (di solito fatta coincidere, ovviamente, con la maggioranza dei cittadini-elettori).

“Il denaro deve servire e non comandare” è una delle frasi, politicamente, più forti ed incisive della Evangelii Gaudium di Papa Francesco che ci richiama ai gravi pericoli di una sempre più evidente finanziarizzazione dell’economia mondiale. Quali sono, secondo lei, i nessi tra questo processo di finanziarizzazione e la decadenza e lo “svuotamento” di quella che lei definisce “democrazia della tarda età”?
Il nesso c’è; ed è assai stretto. Tanto più agevolmente la finanziarizzazione si è imposta a quella che tuttora viene chiamata l’‘economia reale’, e tanto più rapidamente ha diffuso nel mercato globale le proprie propensioni (peggiori) alla mera speculazione, quanto più il denaro è sembrato non solo uno strumento di potere, ma una forma di potere esso stesso e, in quanto tale, il fine principale, se non esclusivo, di un’attività ancora chiamata ‘economica’, anche se sempre più insensibile ai bisogni e alle legittime aspettative delle persone, delle famiglie, di un’intera collettività. La finanziarizzazione stravolge il principio dell’economia ‘al servizio dell’uomo’ e sembra poter definitivamente sostituirgli quello del denaro che, servendo soltanto se stesso e la propria moltiplicazione, non è ‘al servizio’ di niente altro, e tantomeno al servizio dell’uomo. Con la finanziarizzazione, giunge al suo culmine il processo – consapevole o inconsapevole che sia stato – con cui ‘cultura’ e ‘azione’ economica si lasciano alle spalle ogni concezione antropologica e rifiutano, quasi fosse un fardello pesante e inutile, la prospettiva dell’‘umanesimo’.
In tal modo, alla stessa stregua di moltissimi aspetti – ecco il nesso – che caratterizzano la società e la politica della ‘tarda democrazia’ quando quest’ultima non si sente (senza retorica alcuna) ‘al servizio del cittadino’, anche la finanziarizzazione si rivela l’onda estrema della secolarizzazione. O, almeno, di quella crescente propensione a considerare gli scopi e gli strumenti di ogni attività privata e pubblica neutri – se non del tutto svincolati – nei confronti dell’esistenza, del rispetto e dell’applicazione di principi e di autentici valori.

Negli scorsi mesi è stato presentato dall’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân un importante e lucido documento dal titolo: “Un Paese smarrito e la speranza di un Popolo – Appello politico agli italiani”. Una delle affermazioni più coraggiose e nonconformiste è la seguente: “Per molti versi, le differenziazioni accumulate dentro il mondo cattolico sono ormai irreversibili ed hanno preoccupanti cadute all’indietro sulla stessa fede, frammentando anche il corpo ecclesiale.
Questo è il motivo per cui sono falliti i tentativi di ricondurre ad una qualche unità le diversità politiche”. Lei cosa pensa di questa analisi?

è un’analisi che reca in sé e induce anche nel lettore un’amara consapevolezza. Ma credo sia un’analisi realistica. E di realismo ne abbiamo davvero bisogno, in questi anni in cui, per tenere viva la presenza pubblica dei cattolici e per tenerla viva particolarmente nel campo della politica, sembra quasi che ogni volta si sia condannati a ricominciare daccapo. Peraltro, un consapevole ancorché amaro realismo è il solo modo per non restare impantanati nel rimpianto più o meno giustificato, o non scivolare verso inconcludenti irenismi. è anche il modo indispensabile – come dimostra proprio l’Appello politico agli Italiani promosso dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa – per cercare di smuovere le intelligenze e ridestare, soprattutto fra i giovani, interesse e un po’ di entusiasmo per la ‘cosa pubblica’.

Una delle caratteristiche più evidenti dello svuotamento della “democrazia della tarda età” è il sempre più evidente prevalere delle regole, delle costituzioni scritte e della giurisdizione sul diritto naturale e su quella che San Tommaso chiamava “potestas populi”. Si tratta del riaffermarsi egemonico del “positivismo giuridico”. Vorremmo allora chiederle: il “positivismo giuridico” va annoverato tra i sintomi più evidenti della crisi della tarda democrazia, ovvero lo si può considerare, addirittura, una delle cause culturali profonde di questa stessa crisi?
Non ho una conoscenza del positivismo giuridico così approfondita, da consentirmi valutazioni precise dei percorsi, lineari o invece deviati, da esso compiuti nella sua ormai lunga esistenza dottrinale, sino ai nostri giorni. Mi limito pertanto ad alcune considerazioni, sottolineando come vi sia certamente una serie di nessi e interdipendenze che legano l’eccesso smodato e ormai insostenibile di ‘regole’ e ‘regolette’ (basti pensare all’ipertrofia legislativa di tutti i centri – nazionali, regionali, europei – di produzione delle decisioni pubbliche, oltre che a quella burocratica dei regolamenti) con l’oggettivo e progressivo indebolimento della radicata e diffusa convinzione, secondo cui il diritto naturale non solo esiste, ma è anche, in ogni circostanza e per tutti, efficace. Tale indebolimento, come noto, è in atto da secoli, e le sue origini sono del tutto evidenti già nei primi decenni del secolo XVII con Grozio. Sotto la spinta di quella che comunemente chiamiamo ‘secolarizzazione’, soprattutto dal tardo Ottocento in poi, se il diritto naturale sembra cedere definitivamente il passo all’irrefrenabile produzione di norme ‘giuridico-politiche’ e alla loro effettualità, avanza anche quel ‘relativismo’ (o ‘politeismo’) dei valori, che sempre più caratterizzerà la vita sociale, economica e politica dell’Europa intera. In questo senso, questi lunghi processi della storia sono certamente fra le cause, in primo luogo ‘culturali’, della situazione in cui oggi viviamo, sentendoci incapaci di far fronte ai cambiamenti o pericolosamente vulnerabili rispetto alle loro conseguenze.
Su un punto vorrei però richiamare l’attenzione, anche per esprimere il mio convincimento che il diritto naturale è tutt’altro che morto. E il punto è questo.
Proprio perché, per una folla di segnali, il futuro incombente si preannuncia attraversato – nel sistema globalizzato, in ciascun sistema politico, nelle ‘tarde democrazie’ – da ineguaglianze crescenti e da un correlato grado di conflittualità, è illusorio e pericoloso ritenere che l’effettualità delle ‘regole’ basti a disciplinare, o a prevenire adeguatamente, ineguaglianze e conflitti sociali o economici. Tutta una storia più che bimillenaria ci insegna infatti che solo il diritto naturale ha saputo essere, oltre che lo scudo dell’eguaglianza, il principale fattore di promozione della socievolezza (e ‘sociabilità’) fra gruppi umani, grandi collettività, sistemi politico-istituzionali e culturali al tramonto, o invece agli inizi di un nuovo cammino, di una nuova e migliore stagione.
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