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  L’Europa globalizzata in bilico fra presente e futuro

Data di pubblicazione: Sabato, 21 Aprile 2012

TRAGUARDI SOCIALI / n.52 Marzo / Aprile 2012 :: L’Europa globalizzata in bilico fra presente e futuro

Lavoro: il posto fisso “sicuro” non esiste più

Prosegue anche in questo numero la corrispondenza da Bruxelles, curata dal giornalista Pierpaolo Arzilla.

‘Una finestra sull’Europa’ questa volta traccia il nuovo profilo dell’Europa globalizzata, dove le tutele del posto fisso non bastano più a garantire un lavoro, ma la vera discriminante è data dall’appetibilità del prodotto offerto.

Pierpaolo Arzilla


Dicono che realtà economiche emergenti come Cina, India e Brasile, ma anche Russia, Sud Africa, Turchia, Messico e Polonia, abbiano improvvisamente cambiato il mondo. Mercato, competitività, prezzi, merci, lavoro: nulla è più come prima, ci ripetono da tempo. La concorrenza è aumentata, il mondo globalizzato ha sparigliato tutto.
Ma di cosa parliamo veramente, quando parliamo di globalizzazione? Il 1° gennaio 1993, con l’entrata in vigore degli accordi di Schengen, l’Europa ha deciso consapevolmente di “ingrandire” il mondo, semplicemente abbattendo le frontiere del Vecchio Continente (a cui poi hanno fatto seguito tappe ulteriori e decisive, come l’accordo Wto sul libero commercio mondiale nel ’94 e la Cina che a fine 2001 diventa membro del Wto) e aprendo alla “libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone”. In questo senso, “libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone” significa non soltanto la praticità di viaggiare da uno Stato membro all’altro senza esibire il passaporto, ma aprire alla libera concorrenza tra merci, servizi e soprattutto tra le persone.
E se la libera circolazione delle persone equivale alla libera concorrenza tra le persone, essa diventa soprattutto libera concorrenza tra i lavoratori.
Questo è fondamentalmente Schengen. La fine di un mondo e l’inizio sostanziale della globalizzazione.
Che anche l’Italia ha voluto, insieme ai suoi partner europei, ma che, se si guarda al bilancio di questi 20 anni, sembra invece avere drammaticamente subìto. Nella sua prima relazione sul meccanismo di allerta e la sorveglianza di bilancio, la Commissione europea racconta di un’Italia che sta vivendo un “significativo deterioramento della competitività a partire dalla metà degli anni ‘90, evidente anche nelle persistenti perdite di quote del mercato delle esportazioni”. Neanche il tempo di abbattere gli ultimi muri, dunque, che il nostro Paese ha cominciato la sua parabola discendente, senza forse neanche rendersi conto di quello che stava succedendo. O non volendo capire che cosa davvero significasse Schengen, pensando quindi di rispondere a domande nuove con gli stessi strumenti di un mondo chiuso, senza concorrenza e con monete sovrane che magari bastava svalutare un po’ per ridare slancio alla propria economia: un mondo che si stava rapidamente congedando. L’Italia non ha capito Schengen, si sussurra nei corridoi della Commissione europea; ha contribuito a cambiare un mondo aperto al mercato e alla concorrenza, ma non ha voluto (o saputo) adeguarsi. E oggi siamo al redde rationem. Con un Paese sempre meno competitivo, e alle prese con la fatica di dover rientrare nei parametri della disciplina di bilancio (negli anni ’90, sono Maastricht e Schengen i due pilastri della nuova casa europea, e l’Italia ha puntualmente disatteso entrambi), con tutto quello che può comportare in termini di crescita.
Venti anni persi, dunque. Venti anni, sostiene l’Unione europea, di riforme mancate, a cominciare dall’organizzazione del lavoro e le relazioni sindacali.
Quest’ultime, con l’avvento della concorrenza avrebbero dovuto essere più collaborative e meno conflittuali, non fosse altro perché la necessità di fare prodotti migliori dei competitor imponeva di abbandonare certi schemi, che vedono da una parte il lavoratore visto come un semplice esecutore e non una risorsa su cui investire e il sindacato un impiccio, e dall’altra il “padrone” come il nemico e il salario una variabile indipendente. Quegli stessi schemi, rileva in sostanza la Commissione, che restano maggioritari in una certa idea di lavoro in Italia e che di fatto impediscono alle nostre imprese di “stare” sul mercato e al Paese di essere attrattivo per gli investimenti stranieri. In particolare, la cooperazione tra capitale e lavoro e la partecipazione dei lavoratori, sono considerati elementi fondamentali per migliorare la competitività delle nostre aziende.
La relazione della Commissione europea rivela un tempismo non indifferente con la polemica sul posto fisso che ha caratterizzato il dibattito italiano nelle ultime settimane. Che c’entra il posto fisso con Schengen? Il “consiglio” che oggi arriva da Bruxelles, ma che riflette lo spirito originario degli accordi sulla libera circolazione e della competizione tra i lavoratori, è quello di dare al posto fisso non più l’accezione “statica” che ha avuto, anche legittimamente, fino agli anni ’80, ma una dimensione necessariamente più “dinamica”: non accontentarsi, cioè, pensando che il posto fisso sia un punto d’arrivo, ma un punto di partenza.
Che piaccia o no (ma dovrebbe piacere, proprio perché l’Italia ha aderito a Schengen), il mercato e la concorrenza hanno cambiato la natura del lavoro e di un posto fisso che non può più considerarsi come una polizza assicurativa al cento per cento contro ogni rischio di perderlo (“gli italiani non hanno capito che oggi lavorare significa anche prendere dei rischi”, si sente dire spesso a Bruxelles...). Perché se è il mercato a decidere se quello che produciamo, da dipendenti o autonomi, assunti o liberi professionisti, va bene o no, è evidente allora che anche se ho il posto fisso non è detto che riesca a mantenerlo: tutto dipenderà dalla qualità del prodotto e dalla capacità di conquistare quote di mercato sempre maggiori. In Italia, da 20 anni, ci informa l’Ue, succede esattamente il contrario. Morale: chi aveva il posto fisso l’ha perduto pur avendo tutte le tutele possibili; chi invece è indipendente/free lance (o precario, secondo alcuni) magari con molte meno tutele, resta comunque competitivo perché riesce a “vendere” ciò che è in grado di produrre, un prodotto che evidentemente è ancora appetibile sul mercato. Questo non vuol dire che si caldeggia una società alla “homo homini lupus” e a un mercato del lavoro senza tutele (non è questa la flessibilità che invoca l’Ue). Le asimmetrie che caratterizzano alcuni mercati del lavoro, tra cui quello italiano, restano naturalmente un problema serio che necessita soluzioni eque, soprattutto per l’occupazione giovanile nel medio periodo. Il paradosso, è che la presunta ondata selvaggia neo liberista, che al limite comincerebbe il 1° gennaio 1993 (con il contributo dell’Italia), e non dunque con il presunto “triangolo del male” Ue-Bce-Fmi, che dopo 20 anni si ritrovano giocoforza a chiedere conto delle irresponsabilità di certi Paesi (tra quelli sotto osservazione della Commissione, oltre all’Italia ce ne sono altri 11, tra cui Francia, Spagna, Regno Unito, Svezia e Danimarca, tutti o quasi alle prese con un preoccupante ridimensionamento delle quote di mercato delle esportazioni), rimette al centro l’elemento fondamentale: il lavoro.
E’ il lavoro, in quanto tale, dice l’Ue, la vera discriminante nel nuovo mondo globalizzato; è il lavoro che decide davvero in ultima istanza chi resta nel mercato (e chi può aspirare a un’occupazione di qualità); è quello che si “fa” e che si “produce” ogni giorno. Posto fisso o no, osserva l’Europa, il mondo di Schengen e degli accordi Wto, ha in qualche modo restituito una responsabilità (un’etica?) al lavoratore e la consapevolezza che da oggi – ma in realtà già da 20 anni – nessuno è più intoccabile, e che il posto davvero “sicuro” non esiste più. In un regime di concorrenza, rileva Bruxelles, siamo tutti in discussione: praticamente la scoperta dell’acqua calda. Ma evidentemente certe sacche di conservatorismo politico, imprenditoriale e sindacale, che bloccano tuttora lo sviluppo dell’Italia, preferiscono la doccia gelata di un Paese in bilico.
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