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  La riforma del mercato del lavoro, aprile 2002

Data di pubblicazione: Lunedì, 1 Aprile 2002

STAMPA E PUBBLICAZIONI / Opuscoli :: La riforma del mercato del lavoro, aprile 2002

La riforma del mercato del lavoro
Le proposte Mcl
per un'economia sociale di mercato
aprile 2002

Per un’ Economia Sociale di mercato

LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO

Le proposte MCL


INTRODUZIONE


di Carlo Costalli
Presidente Mcl


Il Vento Europeista Nelle Riforme Del Lavoro

Un volume dell’Organizzazione internazionale del lavoro, pubblicato nella primavera del 1993, puntava il dito sulla più grave disfunzione del mercato del lavoro italiano: l’esistenza di un forte dualismo tra un settore iper garantito e iper regolamentato, quello dei contratti a tempo indeterminato, e un settore all’insegna della massima flessibilità e più piena mancanza di tutele, rappresentato dal lavoro “nero”, dalle collaborazioni coordinate, e così via.

L’accusa contenuta nel rapporto – Unemployment and labour market flexibility – era tanto più cocente in quanto non veniva da organizzazioni spocchiose come il Fondo Monetario e l’Ocse, ma dall’ente internazionale creato nel lontano 1919, proprio per la tutela dei lavoratori. A rendere ancora più amaro il boccale, la traduzione italiana del libro venne pubblicata dall’Ediesse, la casa editrice di quella Cgil che si ergeva a tutela della più fitta regolamentazione del mercato del lavoro e che aveva appena contribuito a far bocciare, in Parlamento, il decreto legge n°1/1993 con cui il Governo Amato aveva tentato, tra l’altro, di modificare gli aspetti più rigidi della normativa.

Molta acqua è passata da allora sotto i ponti del percorso verso l’euro. Alla fine del 1993, l’insieme di proposte note come il pacchetto Treu, giungeva in Parlamento; si sarebbe arrivati ad una graduale apertura a rapporti di lavoro (come il tempo parziale, il tempo determinato e l’interinale) più flessibili. Nei “patti sociali” del luglio 1993 e del dicembre 1998 si sarebbe previsto un riassetto della contrattazione. Ed in seguito a due sentenze della Corte di Giustizia Europea, si sarebbe mandato in soffitta il monopolio pubblico del collocamento.

A mordere ancora più delle sentenze, fu poi il continuo confronto con le politiche degli altri Paesi del convoglio europeo, tramite i “piani d’azione nazionali” messi ogni anno a raffronto in un documento della Commissione Europea, in ottemperanza agli obiettivi di piena e buona occupazione, quali definiti al Consiglio straordinario dei Capi di Stato e di Governo dell’EU tenuto a Lisbona nel marzo 2000.

Sino al rapporto pubblicato lo scorso settembre, le analisi comparate dalla Commissione non sono state particolarmente elogiative di quanto fatto dall’Italia: non solo ne hanno messo in evidenza le contraddizioni interne, ma hanno posto l’accento, con costanza e coerenza, sul fatto che, nonostante i graduali miglioramenti, la politica del lavoro tendeva a segmentare il mercato tra “non tutelati” e “tutelati”, suddividendo questi ultimi in miriadi di rivoli.

Queste analisi sono state lo sprone del Libro Bianco pubblicato dal Governo in ottobre. Quale che sia l’opinione su ciascuna delle proposte, non si può mettere in dubbio che il suo tema conduttore è l’Europa della moneta unica: il suo assunto è che dopo aver portato l’Italia negli anni ’90, nel gruppo di testa dell’euro, adesso occorre portare l’Europa in Italia e modellare sugli schemi meglio riusciti nel resto d’Europa le nostre politiche e strategie economiche e sociali.

In linea con questo assunto, l’obiettivo della politica dell’occupazione e del lavoro delineata nel Libro Bianco, consiste nel portare a livello europeo (ossia al 63%) il tasso di occupazione, oggi ancora stagnante al 53,5%. E’ in pratica identico a quello che emerge dal rapporto 2001 sull’occupazione della Commissione: le aree in cui è indispensabile intervenire vengono individuate nella riduzione degli squilibri regionali, nella lotta al sommerso e al lavoro nero, nell’aumento dell’occupazione femminile, nel potenziamento del sistema formativo. Alcuni dati che emergono dal confronto europeo sono eloquenti: il tasso di occupazione femminile è prossimo al 40%, mentre l’obiettivo intermedio fissato dal Consiglio Europeo di Stoccolma è giungere al 57% entro il gennaio 2005; l’incidenza del lavoro “atipico” sul totale dell’occupazione è pari al 16,1%, la metà del valore registrato in Francia e Spagna per non parlare dei Paesi Bassi (54,3%).

Nel Vertice Europeo tenuto a marzo a Barcellona, i Governi Europei hanno fatto ulteriori passi avanti.

Il “Libro Bianco” del Professor Biagi, delinea una strategia “europea” che renda più flessibile il mercato del lavoro tramite incentivi ai rapporti di lavoro a tempo parziale (soprattutto per incentivare l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro), la liberalizzazione dei servizi per l’impiego, misure per promuovere i contratti di partecipazione, l’introduzione di nuove forme di rapporto di lavoro e, naturalmente, la riforma degli ammortizzatori sociali. Una strada ancora lunga, che senza l’euro, non avremmo neanche iniziato.

Le proposte che illustriamo di seguito e che lasciamo al dibattito e al confronto di tutte le parti sociali e politiche, nonché delle strutture periferiche del nostro Movimento, per i necessari approfondimenti, sono il frutto del lavoro dei nostri esperti e delle valutazioni emerse durante il Convegno di Studio che si è tenuto a Roma il 22 e 23 marzo 2002, sul tema: “Economia Globale e Mercato del Lavoro: in Italia, in Europa”, cui hanno partecipato autorevoli relatori: Natale Forlani, Amministratore Delegato di Italia Lavoro; Luigi Marino, Presidente di Confcooperative; Raffaele Bonanni, Segretario Confederale CISL; Edo Patriarca, Portavoce del Forum Terzo Settore, a conferma della nostra scelta di fare del MCL un Movimento che punta alle proposte, ai progetti, ai programmi e, avendo come compito primario, il sostegno alla coesione sociale.

Con una consapevolezza: tutte le riforme hanno una componente problematica, e di conflitto, perché si cambia l’esistente per un risultato futuribile. Non c’è un consenso immediato, ma solo cambiamenti che una leadership lungimirante ritiene utili e necessari. E’ stato così per la scala mobile e la concertazione: ci sono state contestazioni di massa ma anche di leadership che sono stati in grado di guidare il cambiamento.

Carlo Costalli






Ammortizzatori Sociali


Riguardo agli ammortizzatori, il Libro Bianco sottolinea l’esigenza di un sistema più sviluppato, anche per fare fronte a un mercato del lavoro in cui aumentano i percorsi lavorativi irregolari. Si propone:

• di estendere anche a settori esclusi il livello delle tutele minime, prevedendo trattamenti omogenei, con il passaggio da una molteplicità di strumenti, ad un “regime assicurativo di protezione dal rischio di disoccupazione, unitario per tutti i lavoratori dipendenti o assimilati”, a cui potranno sovrapporsi schemi a carattere mutualistico-settoriale, senza oneri per la finanza pubblica;

• di minimizzare eventuali effetti disincentivanti per il lavoro;

• di affiancare a tale sistema uno schema assistenziale, quale il reddito minimo di inserimento già sperimentato.

Pur sottolineando la coincidenza dell’impostazione generale del Governo con la nostra, laddove si responsabilizzano le parti a costruirsi strumenti a base mutualistico-contrattuale, le proposte sembrano deboli, o almeno incomplete. Infatti sembra che si pensi a un regime in cui vi è un unico trattamento di disoccupazione con prestazioni superiori a quello attuale, ma in cui quei settori che vogliano assicurarsi protezioni ulteriori (anche in costanza del rapporto di lavoro) debbano costruirseli con schemi a carattere mutualistico-settoriale, senza oneri per le casse dello Stato. Contemporaneamente le prime dichiarazioni del Governo, al tavolo di confronto, andavano nella direzione di ampliare da subito l’applicazione del reddito minimo di inserimento, attualmente in sperimentazione in 40 Comuni, lasciando a un secondo momento l’intervento sugli ammortizzatori.

Partendo da quest’ultimo punto, abbiamo innanzi tutto chiarito che anche noi abbiamo in mente un ammortizzatore di ultima istanza a carico della fiscalità generale, ma in forma differente dal reddito minimo di inserimento, la cui sperimentazione, peraltro, ha dato risultati controversi. Riteniamo che l’erogazione di un sussidio contro la povertà, si giustifichi solo per soggetti considerati ragionevolmente inoccupabili, cioè se legato anche all’età avanzata, oltre che alla prova di avere un reddito inferiore a una certa soglia, mentre per i giovani in difficoltà nella ricerca di lavoro vanno potenziate le altre politiche (politiche attive, incentivi), fino a immaginare aiuti specifici in forma di incentivi alla mobilità territoriale. In ogni caso, vista la difficoltà nel reperimento delle risorse, prima del reddito minimo va affrontata la riforma degli ammortizzatori sociali.

Questa va realizzata chiarendo che:

• l’aumento della durata e del livello del trattamento ordinario di disoccupazione deve avvicinarsi il più possibile alla misura dell’indennità di mobilità;

• gli schemi di cassa integrazione e di mobilità nei settori che oggi ne beneficiano devono restare in piedi;

• la nascita di fondi contrattuali nei settori esclusi da CIG e mobilità vanno incentivati dallo Stato con sgravi fiscali, quindi non possono essere a costo zero;

• lo stretto collegamento tra politiche attive del lavoro ed erogazioni di ammortizzatori.

E’ improponibile qualunque forma di flessibilità in uscita senza aver definito un accordo sugli ammortizzatori sociali, senza la tutela di quei lavoratori che a cinquant’anni si trovano improvvisamente fuori dal mercato.



Formazione Continua


Viene espressa con forza l’esigenza generale di sostenere la domanda di una maggiore diffusione di formazione. Il Governo infatti, oltre ad ipotizzare dei bonus ai lavoratori e alle famiglie, ritiene che debba essere risolto il problema di dare adeguata informazione sull’offerta formativa e di intervenire sugli standard minimi di formazione, legandoli a una più profonda conoscenza dei fabbisogni professionali espressi dai processi produttivi.

Viene inoltre attribuito alle Regioni un ruolo attivo nella raccolta delle informazioni, si insiste sulla maggiore efficacia dei sistemi diretti di agevolazione al settore, si sostiene che il ruolo delle parti sociali debba stimolare e non vincolare l’offerta formativa, invitando le parti sociali ad una riflessione critica sull’efficacia delle attività finanziate con il fondo dello 0,30%.

Si tratta di uno dei temi che più ci avevano preoccupato ad una prima lettura del Libro Bianco. L’impianto del sistema formativo in Italia, infatti, attribuisce un rilevante ruolo alle parti sociali, che hanno partecipato alla definizione dell’accreditamento degli Enti e alla strutturazione di varie parti del sistema, e hanno dato vita ai Fondi interprofessionali dello 0,30%, entrati in vigore con la finanziaria 2001 (art. 118). Il documento governativo, pur contenendo elementi apprezzabili, sembra ignorare o voler superare quanto di positivo è stato realizzato e inoltre non chiarisce come strutturare i vari ambiti del sistema. In particolare non si danno indicazioni sulla evoluzione verso un sistema di “life long learning” (apprendimento lungo tutto l’arco della vita) che consenta a tutta la popolazione attiva di partecipare ad attività di aggiornamento e riqualificazione attraverso la formazione in accesso, la formazione continua (lavoratori occupati) e quella permanente (di cittadinanza).

In tempi più rapidi sarebbe però opportuno:

• incentivare e agevolare la partecipazione dell’utenza alla formazione promossa dai gestori dei Fondi interprofessionali bilaterali. Va ricordato che si stanno avviando 4 fondi (nei settori cooperazione, artigianato, terziario e industria) e un quinto è in fase di discussione avanzata;

• legare la fruizione degli ammortizzatori sociali anche alla partecipazione ad attività formative.

Siamo comunque preoccupati che non siano previsti specifici stanziamenti di risorse nella finanziaria su un tema oramai da tutti ritenuto centrale.

In questa prima fase del confronto possiamo evidenziare, come importante risultato, il fatto che il Governo ha assunto pienamente l’itinerario precedentemente tracciato dalle parti sociali, con un ripensamento, o chiarimento, sul ruolo dei fondi interprofessionali, che viene riconosciuto. E’ stata pure condivisa l’opinione di legare la fruizione degli ammortizzatori sociali alla partecipazione ad attività formative.

Più in generale è stato preso l’impegno per l’attivazione di un tavolo con parti sociali e Regioni sulla formazione, come da noi richiesto. Da parte nostra sottolineiamo che la bilateralità come via privilegiata alla formazione non è più un auspicio, ma una scelta strategica da cui non si torna indietro, una realtà da rafforzare, come anche in Europa ci invitano a fare da tempo.



Riforma Del Collocamento


Per proseguire nella modernizzazione dei servizi pubblici per l’impiego il Governo ritiene assai urgente un intervento che, nel rispetto delle competenze di Province e Regioni, consenta una accelerazione del processo di riorganizzazione, a partire dagli investimenti per migliorare la professionalità degli operatori.

La seconda direzione sarà quella di favorire un regime di competizione/cooperazione tra pubblico e privato, superando il vincolo dell’oggetto esclusivo e riconducendo tutte le attività legate all’incontro domanda/offerta ad un unico regime autorizzativo (simmetricamente si propone di superare l’esclusività dell’oggetto sociale anche per l’interinale). In terzo luogo va riformato l’attuale SIL, che definirà gli standard e gestirà la connessione tra i vari sistemi regionali e locali.

Siamo da sempre favorevoli ad ampliare il ruolo degli operatori privati nel mercato del lavoro, questione su cui il precedente Governo era stato assai debole, eliminando il vincolo dell’oggetto sociale esclusivo, purché la loro azione rimanga senza costi a carico dei lavoratori, e purché il regime autorizzativi garantisca trasparenza e professionalità. Siamo in ogni caso consapevoli che questa azione si rende necessaria a causa del non funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego, essa cioè non è un obiettivo in sé, è semmai un rimedio ai forti ritardi che si sono accumulati nella riforma del collocamento pubblico, iniziata nel 1997 e ancora non portata a compimento.

Condividiamo pertanto l’attenzione che il Governo presta alla accelerazione del processo di implementazione della riforma dei servizi pubblici per l’impiego, soprattutto il preannunciato intervento di accelerazione e di investimenti.

A nostro avviso le priorità devono essere:

• attuare/applicare la legislazione esistente e le proposte (già definite) di modifica del decreto legge 181;

• costruire/potenziare il servizio informativo (SIL) integrando pubblico e privato e garantendo omogeneità sul territorio;

• garantire l’applicazione su tutto il territorio degli standard minimi per i servizi per l’impiego;

• potenziare i servizi per le fasce deboli del mercato del lavoro (già previsti dal D.L. 181);

• realizzare formazione mirata per gli operatori.

Il sindacato ha anche posto il tema, di grande rilievo, di come favorire l’ingresso delle parti sociali come operatori nel collocamento, proposta a dire il vero, che ha ricevuto molta attenzione. Sarebbe particolarmente significativo che venissero attenuate le garanzie fideiussorie sul capitale sociale, superate dalle garanzie di affidabilità che le parti sociali sono in grado di offrire. Si tratterebbe di un’occasione per recuperare una cultura che, sin dall’inizio, è stata patrimonio delle organizzazioni dei lavoratori.

Intanto l’11 aprile u.s. il Governo ha approvato lo schema del decreto legislativo che riforma e regionalizza il collocamento pubblico.

Il riordino di tutta la materia sarà completato sul versante del collocamento privato, dal disegno di legge delega sul mercato del lavoro in discussione al Senato che prevede, tra l’altro, la possibilità per le agenzie di lavoro interinale di fare anche attività di collocamento.

Un provvedimento importante è stato l’ultimo lavoro del Professor Marco Biagi.

Il decreto legislativo prevede come novità:
1. Identikit del disoccupato;
2. chiamata diretta per tutto;
3. abolizione del libretto del lavoro, sostituito dalla scheda professionale;
4. soppressione delle liste di collocamento ordinarie e speciali;
5. un rifiuto che costa: chi rifiuta le iniziative lavorative o una qualsiasi offerta di lavoro a tempo indeterminato o a termine, superiore a otto mesi, perde lo status dei disoccupati.



Incentivi All’Occupazione


Riguardo agli incentivi vi è innanzitutto la proposta specifica di introdurre bonus fiscali e contributivi per favorire l’assunzione di lavoratori a bassa qualifica. Più in generale il Governo si pone due obiettivi:

• aumentare la selettività degli incentivi;

• favorire complessivamente il ricorso al tempo indeterminato.

Sono senz’altro condivisibili gli obiettivi generali, soprattutto quello di favorire il rapporto a tempo indeterminato.

Fra gli strumenti della occupabilità, ha pieno titolo la riforma degli ammortizzatori sociali, che non può più essere rinviata, soprattutto oggi, con una difficile situazione economica collegata alle note vicende internazionali.

Il Mezzogiorno merita una valutazione a parte…




Part-Time


Si parte dalla constatazione che in Italia il part-time viene utilizzato in misura ridotta rispetto agli altri Paesi europei. In particolare vi sono ancora ostacoli normativi che ne impediscono una maggiore diffusione, nonostante gli incentivi economici che sono rimasti, infatti, largamente inutilizzati, anche perché collegati alla sola ipotesi di nuova occupazione, e non anche a ipotesi di trasformazione.

A tale proposito la recente legge di trasposizione della direttiva sul part-time non ha valorizzato abbastanza l’aspetto promozionale, come richiesto dalla direttiva stessa. Il Governo ritiene di dover superare, in particolare:

• l’eccessiva rigidità delle norme relative alle c.d. “clausole elastiche”;

• la norma sui diritti di precedenza;

• le norme sul lavoro supplementare.

Ovviamente viene condiviso appieno l’obiettivo di favorire una maggiore diffusione del part-time, in Italia ve ne sono sicuramente gli spazi, e dovrà essere questo uno dei principali strumenti per raggiungere gli obiettivi prefissati sul tasso di occupazione, complessivo e femminile.

Rispetto all’analisi governativa sul recente testo legislativo, si concorda sull’eccessiva rigidità in ordine alle clausole elastiche e al lavoro supplementare che va senz’altro corretta, ma la proposta è di ottenere tale obiettivo affidando il più possibile la loro definizione alla contrattazione collettiva. Non si condivide, invece, il giudizio negativo sui diritti di precedenza, che devono rimanere per favorire la reversibilità tra tempo parziale e tempo pieno e viceversa all’interno delle aziende, elemento molto importante per rendere più appetibile il part-time tra i lavoratori, questione che spesso viene trascurata. Quanto allo scarso utilizzo degli incentivi, si concorda sul fatto che il loro collegamento alle sole ipotesi di nuovi posti di lavoro ne abbia penalizzato le potenzialità. Andrebbe inoltre effettuata una verifica delle eventuali rigidità burocratiche che possano avere scoraggiato l’utilizzo degli incentivi economici. Si ritiene anche che, anziché incentivare il part-time in maniera generica, sia più interessante recuperare il meccanismo, peraltro mai applicato, dell’art. 13 della legge n° 196/97, in base al quale vengono maggiormente incentivati i part-time lunghi. Va anche potenziato e incentivato il meccanismo, introdotto a suo tempo dalla legge n° 223/91, che consente il passaggio al part-time dei lavoratori prossimi al pensionamento.




Statuto Dei Lavori


Si propone di individuare uno “zoccolo duro e inderogabile di diritti fondamentali che deve costituire la base di un moderno Statuto dei lavori da applicare a tutti i prestatori di lavoro”. Il Governo immagina poi, per ulteriori istituti di diritto del lavoro, campi di applicazione sempre più delimitati, con una diversificazione delle tutele a seconda delle tipologie contrattuali considerate.

A ciò dovrebbe aggiungersi un avvicinamento dei regimi previdenziali tra le diverse tipologie contrattuali, che contribuirebbe a sdrammatizzare il problema qualificatorio.

Ovviamente il giudizio da esprimere non può che dipendere da quali sono queste tutele e da come saranno organizzati i cerchi concentrici. Il Libro Bianco lascia intendere con chiarezza che non si può “estendere rigidamente l’area delle tutele senza prevedere alcuna forma di rimodulazione all’interno del lavoro dipendente”. Se alle condivisibili esigenze di estendere a tutti alcune tutele di base e di riavvicinare i costi contributivi, si accompagna l’indicazione di una rimodulazione dei diritti dei lavoratori dipendenti, l’approccio non è accettabile.

Si è consapevoli “di essere all’anno zero”. Quattro sono i punti che ci aspettiamo vengano affrontati dal legislatore:

1. la definizione degli ambiti di utilizzo di questi rapporti;
2. la definizione di alcune tutele di base;
3. la definizione delle tutele da rinviare alla contrattazione collettiva specifica del lavoro parasubordinato;
4. l’introduzione di procedure per la certificazione del rapporto di lavoro a carico di enti bilaterali.

Finalmente tutti parlano dei “lavoratori non tutelati” e di Statuto dei Lavori.

Non si vuole rivendicare di essere stati i primi a sottolineare questa esigenza, mentre quasi tutti parlavano di tutele ai lavoratori regolari, ma attenzione: è da massimalisti sostenere la necessità di estendere a tutti i soliti diritti del settore “regolato”, esattamente quei diritti che hanno creato un mondo del lavoro sregolato.

Pensare di teorizzare l’inserimento al lavoro come obbligo di Magistratura in un’azienda di cinque/dieci dipendenti, vuol dire “non sapere di cosa di parla”.





Lavoro e Mezzogiorno
Impegnarsi per una nuova strategia
che garantisca le risorse necessarie
a sostenere sviluppo e occupazione al Sud


L’avvenire dell’Italia passa per il Mezzogiorno. Si è all’inizio del terzo millennio e ancora la questione meridionale non ha fatto grandi passi in avanti …

Il dualismo economico rischia di trasformarsi in dualismo tra Nord e Sud, con tutti i conseguenti problemi in termini politici e con inevitabili riflessi sul sistema istituzionale: una modifica costituzionale in direzione di un vero federalismo, improntato ai principi della solidarietà e sussidiarietà, passa attraverso la soluzione dell’annosa questione meridionale.

Il bilancio delle politiche di sviluppo mostra ritardi dovuti alle incertezze procedurali e anche il Governo sembrava, nei primi mesi, non avesse al centro delle priorità il Mezzogiorno.

La partita ora si gioca sul tavolo del confronto Governo – Sindacati, confronto che in questi giorni ha fatto registrare consistenti passi avanti. La novità principale è che il Governo ha detto sì alla richiesta dei Sindacati (CISL in particolare) peraltro condivisa da Confindustria: la cumulabilità, solo per le Regioni meridionali, del credito di imposta con la Tremonti bis. Il MCL plaude a questa novità. Sappiamo bene che l’UE su questo punto non ha mai nascosto forti perplessità. Il Governo dovrà convincere i Commissari europei sull’utilità del provvedimento sino al 2006.

Oltre ai problemi fiscali, determinanti sono i problemi della sicurezza e legalità, le infrastrutture (compreso il Ponte sullo Stretto), ed una maggiore flessibilità d’impiego: per risolvere in tempi più brevi questi problemi la Confindustria ha recentemente lanciato l’invito ai Sindacati per “stringere un’alleanza”. Un “Patto per il Sud” a cui sembrerebbe disponibile la CISL (e anche il MCL); Patto respinto subito da Cofferati.




Democrazia Economica, Partecipazione


Tema che sta “molto a cuore” al MCL. Si rivendica di essere stati i primi in Italia in virtù d’ottimi rapporti internazionali, ad affrontare questi temi in Convegni e Seminari di Studi. Poi è arrivata la CISL, ma solo la CISL.

Non si tratta di dar vita a vecchie o rinnovate forme di cogestione, quanto di favorire modalità di partecipazione economica dei lavoratori, sotto forma, ad esempio, di azionariato popolare collettivo, inquadrate in un nuovo e più aperto sistema di relazioni industriali. “L’impresa che non sviluppa ricerca, formazione continua e qualità, e si rinchiude nella struttura tradizionale, è destinata ad una dimensione insufficiente e quindi a una deriva competitiva”. In questa chiave, il MCL propone “il modello di partecipazione strategica, organizzativa e finanziaria. In esso il fattore lavoro si integra nel profilo gestionale, assume in solido ed in proporzione il rischio d’impresa, fa emergere un nuovo profilo relazionale, espande la capacità comunicativa, valorizza l’occupazione”.

Il Libro Bianco del Governo sul Welfare “apre finalmente un discorso nuovo sulla democrazia economica e sulla partecipazione dei lavoratori, anche perché per la prima volta il Governo riconosce esplicitamente l’esigenza di un sostegno che favorisca la partecipazione finanziaria dei dipendenti.

L’idea è quella di una cornice che riservi alla contrattazione un ruolo di regolazione a livello essenziale”.

“Altro argomento da evidenziare è il ruolo degli incentivi fiscali e, in senso più ampio, la disponibilità di risorse finanziarie aggiuntive che costituiscono un requisito essenziale per il diffondersi e il consolidarsi delle esperienze di azionariato, come ampiamente dimostrato dalla legislazione di altri Paesi. Gli incentivi fiscali previsti nel nostro ordinamento sono largamente inadeguati: una norma specifica dovrebbe prevedere un ricorso più ampio a questo strumento, per offrire vantaggi concreti ai dipendenti azionisti e alle aziende che adottano piani di azionariato dei dipendenti”.

“Altra questione è quella delle risorse finanziarie aggiuntive.

Nelle recenti esperienze di privatizzazione di grandi aziende, ai lavoratori che acquistavano le azioni delle aziende veniva offerta la disponibilità del Tfr maturato. Non è difficile immaginare che, in una prospettiva vicina, la previdenza complementare assumerà un ruolo di rilievo nell’equilibrio del sistema previdenziale e che il Tfr rappresenterà il fondamentale canale di finanziamento della previdenza complementare: la disponibilità del Tfr maturato, riguarderà una parte dei lavoratori dipendenti, cioè quelli di media e alta anzianità”.

Ma il Tfr non può coprire tutto, bisogna pensare anche ad altri strumenti di approvvigionamento finanziario: negli USA le risorse aggiuntive vengono assicurate dalle banche, che anticipano le risorse finanziarie per l’acquisto delle azioni destinate ai dipendenti e depositate presso il Fondo; l’azienda annualmente ripaga debito e interessi detraendo le somme dal reddito imponibile dell’impresa.

Il MCL spezza una lancia a favore dell’azionariato collettivo, ricordando che, al momento, la normativa prevede solo l’azionariato dei dipendenti di tipo individuale. Ma proprio l’esperienza maturata durante le privatizzazioni, ha dimostrato che questo tipo di azionariato non diventa elemento significativo e duraturo nell’assetto proprietario delle S.p.A. privatizzate, proprio perché resta un fatto speculativo e non diventa elemento significativo di una nuova cultura partecipativa. L’azionariato dei dipendenti diventa esperienza duratura e stabile solo se è anche esperienza culturale/partecipativa e tale obiettivo si persegue solo dando riconoscimento all’azionariato collettivo.

Dobbiamo comunque avere chiaro che il primo snodo del modello partecipativo è quello della bilateralità.

Quest’ultima dal punto di vista tecnico è la caratteristica in grado di recuperare l’informazione, la mutualità e altre cose che altrimenti la democrazia economica non riuscirebbe ad avere.

Non vedo altro modello possibile ed efficace che quello del sistema bilaterale: azienda – sindacati. In questo rapporto vanno recuperate tutte le pulsioni positive.

Sull’azionariato dei lavoratori, si pensa a una sorta di legge di sostegno, o a elementi contrattuali che favoriscano la partecipazione dei dipendenti. Quello di azionista e quello di sindacalista sono due ruoli complementari: non si sovrappongono.

Infine il recente decreto governativo che recepisce l’accordo governo/sindacati/imprenditori sulla istituzione dei C.A.E. - Comitati Aziendali Europei -, va nella giusta direzione perché tende a migliorare il diritto all’informazione ed alla consultazione dei lavoratori nelle imprese che operano in più Paesi della Comunità Europea.





Riforma Fiscale


Confermare la progressività delle Aliquote.
Ridefinire il quadro delle detrazioni e delle deduzioni fiscali
a favore delle famiglie monoreddito e con figli a carico


I principi ispiratori e gli obiettivi di fondo della riforma,   almeno nei termini in cui sono dichiarati nella relazione che accompagna il provvedimento del Ddl-delega, non si possono non condividere.

Trasparenza, semplificazione, stabilità nel tempo, in modo da garantire ai contribuenti una effettiva conoscibilità delle norme, unite ad un alleggerimento della pressione fiscale, dovrebbero non solo dare maggiori certezze ma, nelle intenzioni dei proponenti, verrebbero a promuovere una riscrittura del patto tra contribuente e fisco: una tassazione più semplice, chiara e meno onerosa può essere percepita come meno ingiusta dal cittadino-contribuente.

Al di là di queste buone intenzioni, emergono una serie di perplessità ed interrogativi: è evidente che la riforma avrà problemi di gettito ed è necessaria grande attenzione affinché ciò non abbia ricadute pesanti, sulla riforma del nuovo Welfare.

Un conto è riformare, riqualificare, superare sempre di più le forme di semplice assistenza con politiche attive, ma niente legittima, una drastica riduzione di risorse che comporterebbero ricadute sociali inaccettabili.

Per il MCL determinante sarà la conferma della progressività delle aliquote e ridefinire il quadro delle detrazioni e delle deduzioni fiscali, in modo ben determinato, a favore delle famiglie, in particolare di quelle monoreddito e con figli a carico.





Previdenza

Regolamentare in modo chiaro le procedure di certificazione
del diritto alla pensione maturata
Sviluppo della previdenza complementare


Il Governo ha presentato un documento con i contenuti della delega che qui si riassumono brevemente. Vengono confermati i cinque punti di orientamento:

1. certificazione del conseguimento del diritto alla pensione di anzianità al momento stesso della maturazione dei requisiti;
2. introduzione di sistemi di incentivazione di carattere contributivo che incentivino la continuazione dell’attività lavorativa;
3. liberalizzazione dell’età pensionabile;
4. eliminazione progressiva del divieto di cumulo tra pensioni e redditi da lavoro;
5. sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari.

Su questi orientamenti di massima non ci sono obiezioni.

Occorre ora vedere con chiarezza i principi e i criteri direttivi a cui il Governo dovrebbe attenersi per concretizzare le indicazioni sopra elencate.

Il lavoratore potrà decidere se proseguire l’attività lavorativa con le attuali regole previdenziali, oppure optare per un incentivo economico derivante dall’esenzione totale dei versamenti dei contributi, sia quelli a carico del datore di lavoro che del lavoratore che saranno destinati al lavoratore nella misura inferiore al 50%, mentre la parte rimanente dovrebbe essere destinata a riduzione del costo del lavoro.

Con tale scelta la pensione viene congelata al momento dell’opzione e rivalutata automaticamente in base al costo della vita. Al lavoratore che matura i requisiti per la pensione di anzianità verrà garantito l’ottenimento da parte dell’ente di competenza, della certificazione della propria posizione previdenziale, attestando il diritto al conseguimento della stessa e la possibilità per il lavoratore di esercitarlo in un qualsiasi momento successivo alla data di maturazione.

Le condizioni per l’opzione:

1. che il lavoratore si impegni a posticipare per almeno due anni l’accesso al pensionamento;
2. che il lavoratore e il datore di lavoro risolvano il contratto in essere e stipulino un contratto a tempo determinato di durata pari a due anni;
3. l’opzione è esercitabile più volte e dopo il primo periodo può essere esercitata anche per periodi inferiori.

- Si prevede la liberalizzazione dell’età pensionabile per coloro che abbiano conseguito i requisiti per la pensione di vecchiaia con l’applicazione degli incentivi, previo accordo con il datore di lavoro e salvaguardate le norme vigenti per quanto riguarda le disposizioni di legge vigenti in materia di pensionamento di vecchiaia per le lavoratrici.

- Superamento progressivo dell’attuale divieto di cumulo tra pensione di anzianità e redditi da lavoro dipendente o autonomo.

- Ridefinizione del trattamento previdenziale e aumento dei contributi per i lavoratori iscritti alla gestione commercianti presso l’Inps e per i lavoratori non iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria (vedi per esempio i Coordinati Continuativi), prevedendo che parte di questo aumento sia destinata a prestazioni di carattere sociale e formativo.



Previdenza complementare


Vengono previste delle misure per incentivare le forme della previdenza complementare con l’utilizzo del Tfr:

- conferimento del Tfr ai fondi di pensione; nel caso di silenzio assenso viene destinato ai fondi contrattuali;

- riduzione non inferiore ai 3 e non superiore ai 5 punti degli oneri contributivi dovuti dal datore di lavoro alle forme di previdenza pubblica nel caso di assunzione con contratto a tempo indeterminato di lavoratori privi di anzianità assicurativa, da destinarsi a diminuzione del costo del lavoro senza effetti negativi sulla determinazione dell’importo pensionistico (si mantiene ferma la aliquota di computo e lo sgravio viene posto a carico dell’Inps e compensato dallo Stato);

- per compensare lo smobilizzo del Tfr, si prevedono facilitazioni al credito per le piccole e medie imprese e la eliminazione del contributo relativo al finanziamento del fondo di garanzia del trattamento di fine rapporto, ad elevazione fino ad un punto percentuale del limite massimo dell’imponibile contributivo delle erogazioni previste dai contratti collettivi aziendali o di secondo livello;

- inoltre si prevede il riordino della disciplina dei fondi pensionistici, la riorganizzazione degli organismi di vigilanza e una serie di altre indizioni per la gestione dei fondi pensione, tra cui la disciplina fiscale della previdenza complementare per ampliare la deducibilità fiscale;

- si dovrebbero realizzare misure specifiche volte all’emersione del lavoro sommerso dei pensionati e completare il processo di separazione tra assistenza e previdenza.



Giudizio


Il nostro è come sempre un giudizio articolato. E’ sicuramente positivo che siano salvaguardate le pensioni di anzianità, non era affatto scontato, come è importante che non sia passato il passaggio al sistema contributivo, cosa non scontata e sulla quale abbiamo dovuto resistere nei confronti dei precedenti Governi su cui vi era il consenso della Cgil. Altro elemento interessante è che tutto il Tfr passi ai fondi contrattuali e che sulla riforma degli enti ci si sia impegnati ad aprire un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali.




Impresa e Responsabilità Sociale


Il libro verde sulla responsabilità sociale dell’impresa, che la commissione europea ha adottato nel luglio del 2001, descrive questo concetto come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là, investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le parti interessate.

Il dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese va collocato nel contesto della proposta della Commissione per una strategia europea in materia di sviluppo sostenibile approvata dal vertice di Goteborg nel giugno 2001: il messaggio di fondo è che crescita economica a lungo termine, coesione sociale e protezione dell’ambiente sono interdipendenti. Questo principio ha numerose implicazioni per i rapporti delle imprese con i dipendenti. Una gestione socialmente responsabile delle risorse umane, ossia una gestione sostenibile nei confronti della società generale, implica un impegno in direzioni quali l’apprendimento lungo tutto il corso della vita (formazione continua), la salute e la sicurezza, il migliore equilibrio fra lavoro, famiglia e tempo libero, le pari opportunità, la partecipazione agli utili e i programmi di azionariato per il personale.

Il Governo italiano dichiara di condividere (lo ha fatto attraverso il Libro Bianco), le indicazioni della Commissione Europea, auspicando che gli operatori economici italiani possano sviluppare una cultura orientata verso la “responsabilità sociale”. Proprio di cultura si tratta: coesione sociale anziché contrapposizione frontale, primato della persona anziché la mera logica di profitto, attenzione a favorire la crescita di uno spirito di comunità anziché al marcare le differenze.

Nel Libro Bianco del Ministro Maroni, si avanza la proposta di sperimentare codici di condotta di tipo volontario ma è difficile pensare che alcuni temi (ad esempio l’ambiente), vengano lasciati alle buone intenzioni degli operatori che, invece, sono invitati ad andare oltre le stesse norme di legge spesso insufficienti a garantire una reale tutela dell’ambiente.

Eppure una gestione delle imprese “socialmente responsabile” avrebbe un impatto diretto sugli utili, attraverso una maggiore produttività, minore ricambio di personale, maggiore disponibilità al cambiamento, maggiore innovazione, maggiore e più affidabile produttività.

Il principio interessa anche i rapporti delle aziende con il mondo esterno, a livello locale, nazionale, europeo e globale.

Altro concetto discusso è quello di “investimento socialmente responsabile” per cui i capitali vengono incanalati alle imprese che rispettano determinati criteri sociali anzichè le altre. L’ISR sta incontrando una crescente popolarità e costituisce potenzialmente uno strumento importante per promuovere la responsabilità sociale.

Il tema della responsabilità sociale dell’impresa ha forti ripercussioni sul mercato del lavoro.

Basterebbe pensare alle direttrici fondamentali della politica per l’occupazione dell’Unione Europea (i cosiddetti quattro pilastri dell’occupazione) definiti dal Consiglio europeo straordinario del Lussemburgo nel novembre 1997: nuova cultura imprenditoriale dell’occupazione, dell’adattabilità, delle pari opportunità. Come si vede l’impresa è fortemente chiamata in causa (non solo a richiedere perentoriamente la riforma dell’art.18), ad iniziare da una prospettiva d’innovazione che è il motore della crescita dell’impresa e dell’occupazione stessa. Inoltre un contesto altamente innovativo consente di creare posti di lavoro di elevata qualità.

Quale sia l’importanza che l’Unione Europea attribuisce alla innovazione nella prospettiva di un incremento dell’occupazione è dimostrato da diversi pronunciamenti comunitari ad iniziare dalla comunicazione della Commissione: “L’innovazione in un’economia basata sulla conoscenza” con l’indicazione di cinque obiettivi prioritari per l’azione pubblica ed il documento conclusivo del consiglio Europeo del marzo 2000 a Lisbona.

Le statistiche dei paesi membri dell’UE dimostrano come all’aumentare della forza lavoro con elevate conoscenze necessarie alle aziende che hanno avviato progetti innovativi, corrisponde una elevata creazione di posti di lavoro nel resto del sistema produttivo. Un fatto che sembra indicare che i settori ad elevata conoscenza non solo creano lavori che richiedono una formazione superiore, ma creano lavori per persone con più bassi livelli di formazione.

Ne deriva che una delle sfide maggiori che le imprese devono affrontare è di attrarre e conservare i lavoratori qualificati anche attraverso quell’attenzione a fattori più complessivi quali appunto quelli portanti della responsabilità sociale: buon rapporto con la comunità di riferimento, tutela della salute e buon ambiente di lavoro, cura del tempo libero, coinvolgimento nella gestione e partecipazione agli utili.

C’è però carenza di queste figure professionali, c’è un deficit di competenze che caratterizza i Paesi dell’Unione (e particolarmente l’Italia). Questo implica perdita di opportunità sia per le imprese che per i lavoratori. Le imprese non riescono a produrre quello che vorrebbero e nella misura in cui lo vorrebbero.

I lavoratori perdono opportunità di occupazione e di redditi addizionali in quanto non dispongono delle qualifiche necessarie. La perdita per la società è, dunque, secca.

Riguarda tutti. Senza maggiori dosi di formazione è illusorio pensare di poter risolvere il problema della disoccupazione. La via maestra per il pieno impiego passa attraverso una più elevata formazione oltre che una calibrata flessibilità. Non a caso la strategia per l’occupazione dell’UE fa della formazione il nucleo di tre dei quattro pilastri sui quali si articola. Proprio perché la formazione è essenziale, l’impresa deve contribuire a strutturarne l’offerta; non può limitarsi a cercare sul mercato le competenze di cui ha bisogno, ma deve fattivamente contribuire a formarle. Sia direttamente, se si tratta di grandi imprese, sia indirettamente, ossia tramite le proprie organizzazioni, se si tratta di PMI o imprese artigianali. Allo stesso modo il problema della formazione e l’altra faccia della medaglia, ossia l’innovazione, andrebbero posti tra le priorità dell’azione sindacale. Ciò in quanto se, come deve essere, la politica del sindacato è quella di un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione, formazione e innovazione ne costituiscono due elementi di fondamentale importanza. Ne deriva che risulta fuorviante e limitativo ridurre la discussione (che pure va affrontata) alla flessibilità e all’art.18. L’Europa ci aiuta ad andare oltre, a non farci coinvolgere dalle eccessive pressioni, a ricordare che tutela dell’ambiente, crescita economica e coesione sociale, sono strettamente interdipendenti.




Economia Sociale di Mercato
come modello di società


L’economia sociale di mercato è un ordinamento sociale ed economico. Non pretende di invadere la sfera delle decisioni politiche, ma poiché, una parte essenziale della nostra vita trascorre nell’ambito di circostanze economiche e sociali quotidiane, ha anche una rilevanza politica.

Possiamo tentare di chiarire i contenuti dell’economia sociale di mercato partendo dalla domanda più semplice: che cos’è? Questo modo di abbordare l’argomento potrà sembrare troppo generico. Eppure non ce n’è un altro, se davvero vogliamo capire il sistema. Si ottiene uno scarso risultato partendo dalla terminologia che definisce il sistema come una economia di tipo libero con obiettivi e finalità sociali.

Questo insieme di parole suscitò sorprese nel momento in cui fu coniato, e cioè nel’46, epoca in cui il dirigismo economico aveva assunto un ruolo egemone anche in materia di sicurezza sociale. Sembra paradossale che qualcuno torni a vedere nell’economia di mercato, spesso volutamente denigrata a motivo di una sua asserita antisocialità, un ordinamento migliore, atto a soccorrere più vasti strati della popolazione. Adesso invece è pacifico che un’economia di mercato attuata cum grano salis, e resa stabile da un ordinamento realmente concorrenziale, può garantire il benessere.

Attraverso l’elaborazione concreta di interventi conformi alle leggi del mercato, e attraverso la redistribuzione dei redditi fatta dallo Stato mediante la sua politica finanziaria, il processo di socializzazione basato su un libero ordinamento diviene realtà. Tanto più che i benefici ricavabili dagli effetti della concorrenza costituiscono il fondamento economico di qualsiasi intervento sociale.

In questa luce, economia sociale di mercato non significa rinuncia da parte dei pubblici poteri, agli interventi sociali e sociopolitici. In Germania hanno potuto infatti realizzare un sistema completo di politica economica semplicemente coordinando gli interventi pubblici con le regole dell’economia di mercato, che ovviamente hanno bisogno di essere garantite.

La contiguità del nostro sistema con il neoliberismo è stata causa di qualche equivoco. Così è comprensibile: ma è inesatto considerare l’economia di mercato derivazione da quello. Non c’è bisogno di negare la contiguità con il neoliberismo; noi gli dobbiamo numerosi suggerimenti, spesso decisivi; ma rispetto ad una concezione che considera il meccanismo concorrenziale come unico principio organizzatore, l’economia sociale di mercato rivela ben altre radici. Esse vanno ricercate nell’humus di correnti antropologiche e filosofiche sviluppatesi negli anni venti, in una diversa concezione dello Stato ed infine nell’ulteriore sviluppo del concetto di “stile” , generalmente rifiutato dal neoliberismo (le funzioni coordinate dell’economia sociale di mercato non corrispondono affatto alle regole meccaniche della concorrenza; i principi strutturali si riferiscono allo Stato ed alla società, e da essi
mutuano i loro valori.

L’economia sociale di mercato non è dunque sistema esclusivamente concorrenziale; essa può semmai essere qualificata come una concezione globale dell’esistenza, nel senso che persegue un coordinamento tra i settori vitali del mercato, lo Stato ed i gruppi sociali.

La sua impostazione è perciò ad un tempo sociologica ed economica, statica e dinamica. Si tratta di una visione dialettica, in cui gli obiettivi sociali posseggono una loro importanza corrispondente a quelli economici, e che racchiudono quindi la politica economica e la politica sociale in un unico insieme.

Nella storia europea, da sempre le manifestazioni di responsabilità sociale hanno trovato nella fede il loro autentico spessore.

Nessun ordinamento sociale può fare a meno del sostegno d’una scala di valori quale presupposto del senso di responsabilità verso il prossimo. Invece il puro e semplice meccanismo del mercato, più che arricchire o addirittura sostituire la base dei valori, la svuota. E’ insostituibile la funzione della coscienza cristiana sul nostro agire sociale. Necessario appare, d’altra parte, accentuare l’autonomia dell’ordinamento strumentale nel quale tale coscienza è inserita. La società in cui viviamo è anche una società pluralistica, nella quale convivono cattolici e laici. Il suo ordinamento complessivo può ricevere contributi importanti da tutti questi gruppi. Il problema organizzativo di un ordinamento globale “liberale” consiste appunto nel fatto che in esso debbono coesistere diversi orientamenti.



Natura dell’economia sociale di mercato


Cosa significa quindi economia sociale di mercato, intesa come modello politico-economico e sociopolitico?

Si è già detto che si tratta di un ordinamento che accoglie dei valori, ma non ne impone, e che in questi limiti non ha un fondamento teologico. Essa rappresenta uno stile di comportamento che batte determinate e non altre vie per la soluzione dei problemi sociali.

Esaminiamo questa funzione in modo ancor più preciso.

La nostra società è un tutto, nel quale alcuni gruppi aspirano di più alla loro libertà, altri gruppi più alla loro sicurezza sociale e nella quale tutti gli individui sono interessati allo sviluppo, ma solamente nella misura in cui la sfera personale di ciascuno non ne risulti turbata in maniera eccessiva.

Quindi, come si usa di frequente nella teoria monetaria ed in quella del commercio con l’estero, possiamo parlare di un triangolo magico, i cui vertici sono rappresentati dagli obiettivi della libertà personale, della crescita economica e della sicurezza sociale. Obiettivi contrastanti, che hanno dato origine in passato ad una situazione di conflitto, per il fatto che ognuno cercava di realizzarsi a spese dell’altro. Ciò ha portato ad impostazioni estremistiche, di marca radical-liberale o radical-socialista, ed è sfociato o in una rigida difesa della tradizione, o nella commissione disordinata di tutti i principi, come avviene nelle politiche economiche dominate dall’intervento pubblico.

L’economia sociale di mercato non è una filosofia del fondamento dei valori della nostra società. Lascia questo compito al sistema normativo, che basa il proprio giudizio su criteri religiosi e filosofici. Essa è invece una guida alla pace sociale, una strategia irenistica in mezzo al conflitto che nasce dalla diversità degli obiettivi che le varie componenti della società desiderano realizzare. E’ una formula di vita, attraverso la quale si cerca di portare gli scopi essenziali della nostra società libera ad un equilibrio pratico, finora storicamente mai realizzato.

L’esperienza ha indicato come questo programma, facile ad enunciarsi, presupponga invece una concezione assai raffinata dell’ordinamento. L’economia sociale di mercato è anche una formula riconciliante e integratrice, attraverso la quale si cerca di portare le principali forze sociali ad una forma di autentica cooperazione.

La situazione conflittuale della nostra società non deve essere più vista come una tensione statica, alla quale si possa ovviare con un tipo di coordinamento “una tantum” fra economia di mercato e sicurezza sociale. La nostra società è sottoposta a continue trasformazioni storiche ed esige che si ricerchino, ogni volta ex novo, le formule dell’equilibrio irenistico che si vuol conservare e tramandare.

L’economia sociale di mercato è quindi una strategia di governo della società.

L’essenza dell’economia sociale di mercato consiste nel ricercare, al di là di una politica conservatrice, capace solo di tramandare i valori del passato, o di un dirigismo economico, atrofizzatore della libera iniziativa; ed anche al di là di una meccanica di mercato non guidata e non controllata, un assetto sociale in cui tutti gli obiettivi confliggenti trovino un punto di equilibrio, il più realistico possibile.

La formula riconciliante ed integratrice dell’economia sociale di mercato è applicabile sempre e comunque. Ma essa risulta particolarmente feconda nella nostra epoca e nella nostra società, nelle quali il ritmo straordinariamente accelerato del progresso in tutti i settori rende praticamente obbligatorio contemperare le esigenze in contrasto. Il valore della formula è stato confermato dalla nostra esperienza.

Sì, è fondamentalmente possibile convogliare la moderna società di massa nell’alveo di un sistema di libertà.

Con ciò non si stacca un biglietto per un viaggio a tempo indeterminato, ma si indica la strada lungo la quale dobbiamo procedere. Lo scopo è di rendere tollerabili alla società di massa le inquietudini di questa epoca di profondi cambiamenti, e anche di metterla in condizioni di raccogliere i frutti di tanto sviluppo.



Obiettivi politico-sociali dell’economia di mercato[/b][/center]

[justify]Come formula riconciliante, come unità “stilistica”, l’economia sociale di mercato non suppone solamente un sistema economico coordinato ad una logica di mercato.

L’aggettivo “sociale” ci avvisa che il sistema persegue obiettivi di natura sociopolitica. L’importanza di questo elemento non fu messa sufficientemente alla luce nella prima fase di attuazione dell’economia sociale di mercato in Germania. Si constatarono anzi, con sorpresa, gli effetti sostanzialmente positivi di un ordinamento concorrenziale, e per il resto si contentò di attribuire alla parola “sociale” un significato ristretto, simile a quello che aveva avuto in passato, di intervento assistenziale a favore di determinate categorie di non abbienti. Sembra però che sia arrivato il momento di riportare in primo piano, accentuandolo come merita, l’obiettivo sociopolitico dell’economia sociale di mercato. Via via che il tenore di vita di vastissimi strati della popolazione s’innalza, il quadro si modifica. I gruppi che avanzano le istanze più urgenti si raccolgono in determinate categorie. Il panorama sociopolitico cambia nella misura in cui viene risolto il primario problema della cosiddetta democratizzazione della domanda qualitativa di beni (le barriere fra tipi di consumo dovuti alle differenze di classe vanno scomparendo).

La piena occupazione è ormai quasi una realtà per paesi europei, e siamo ormai in un regime di assistenza sociale generalizzata. Ma proprio mentre arriva obiettivamente a soluzione il problema della povertà, merito dell’ordinamento economico da noi scelto, si è diffuso nell’opinione pubblica uno strato di disagio e di irrequietezza. E per quanto illogiche possano essere certe sue manifestazioni, il fenomeno è reale e ci invita a riflettere meglio sulle questioni di fondo della nostra società, che ha sì tratto enormi vantaggi dalla piena occupazione, ma è ancora lontana da un assetto di vero equilibrio. Lo sviluppo tecnologico e le trasformazioni strutturali della nostra economia contribuiscono anch’essi a distruggere le forme sociali del passato, e ci ricordano la necessità di trovare sintesi nuove.

Qual è dunque il modello sociopolitico dell’economia sociale di mercato? E’ sicuramente erronea l’opinione professata dal vecchio liberalismo, secondo cui un’economia di mercato sarebbe di per sé il surrogato di una politica, perché configurerebbe un quadro completo delle posizioni sociali e delle relazioni interpersonali. Indubbiamente il mercato può essere un mezzo indispensabile per coordinare e sincronizzare le attività e i progetti dei singoli individui e delle imprese. Il coordinamento può anche avere un effetto positivo nella misura in cui contribuisce a oggettivizzare le relazioni interumane e ad aumentare i conflitti sociali, e la concorrenza può certo limitare le posizioni monopolistiche e contributive alla crescita dei salari di vasti ceti sociali. Ma essa rimane un processo meccanico, indifferente rispetto ai valori degli obiettivi. Noi dobbiamo sostenere i processi del mercato con un’ attività politica congiunturale e di sviluppo: ebbene, questo vale ancor più per il modello politico-sociale, che però può essere promosso e sviluppato solo a partire da obiettivi e valori supremi. L’economia sociale di mercato può contribuire alla realizzazione del modello politico-sociale in questo senso: essa è una tecnica al servizio della politica sociale prescelta; ci spiega come raccogliere sotto un comune denominatore obiettivi tra loro divergenti. Dopo una prima fase (che si estrinsecò nella ricostruzione economica e in una felice impennata verso un più elevato tenore di vita ed un miglioramento delle condizioni generali) l’economia sociale di mercato è entrata ormai in una seconda fase, nella quale, pur portando avanti quello che è stato cominciato, deve rileggere tutti i problemi in una chiave globale.

Secondo il nostro convincimento, noi dovremmo, al termine di un attento studio, far sì che questa fase conceda assoluta priorità agli obiettivi sociopolitici, approfittando del fatto che i problemi economici più angosciosi sono ormai risolti o si prevede che lo saranno grazie alla crescita produttiva degli anni a venire.

Quali considerazioni si possono fare già adesso su questo argomento? Come abbiamo detto più su, l’economia sociale di mercato può essere paragonata ad un triangolo che modera la tensione esistente fra i suoi vertici: necessità di sviluppo economico, bisogno di libertà e di iniziativa personale, esigenza (individuale e collettiva) della sicurezza sociale in ogni suo aspetto.

Quando si parla di una direttrice sociopolitica dell’economia sociale di mercato, non vogliamo affatto progettare un ordinamento di tipo razionalista o fideista, socialista o liberale.

Negli ultimi secoli ci siamo occupati anche troppo di simili modelli teorici, i quali, nel confronto con la pratica, anche se non hanno perduto il loro splendore e la loro attrattiva, hanno però smarrito la loro efficacia. Facciamo riferimento, invece, alla realtà concreta. Essa è un intreccio di relazioni, di condizionamenti da parte di gruppi numerosi e di interessi particolari, di conflitti, di consonanze. Compito della politica sociale deve essere quello di fornire alla società una formula integratrice che pur non promettendo un superamento totale e definito di divergenze, conflitti, contrasti, intervenga tuttavia in modo costruttivo per imbrigliare efficacemente le tensioni e per offrire una piattaforma ragionevole alla vita collettiva. Presa sul serio, questa idea mi sembra molto vicina all’altra, che abbiamo sperimentato valida nei decenni scorsi: la contraddizione esistente fra progresso economico e progresso sociale è solo apparente e comunque non insuperabile.

Il modello dell’economia sociale di mercato si rivolge all’intera società. Si deve quindi cercare di conciliare i problemi alla ribalta della politica quotidiana con una visione più organica e globale. Certamente vi sono questioni che interessano in particolare i ceti medi, gli agricoltori, gli operai, ma noi non possiamo perdere di vista quelle che riguardano tutti e, che abbracciano la società con un uniom. A questo proposito si vuole ribadire che anche in una economia di mercato di tipo molto aperto le condizioni sociali ed ambientali medie possono essere migliorate con l’intervento pubblico, inteso nel senso più ampio dell’espressione. La funzione pubblica si esprimerà attraverso la politica finanziaria, gli investimenti, la creazione di infrastrutture determinanti in rapporto all’attività economica. L’inquinamento dell’ambiente naturale, il sovraffollamento delle nostre città, la distruzione del paesaggio a causa di uno sviluppo disordinato, sono piaghe da combattere con uno sforzo che deve essere sostenuto e guidato da tutti gli enti pubblici territoriali e dalla società intera, se si vuole recuperare un equilibrio armonico tra progresso e qualità della vita.

Il settore degli “investimenti culturali”, nella più vasta accezione del termine, ha bisogno di promozione intensa. Nella misura in cui l’assistenza sociale diventa meno impegnativa nei confronti di ceti sociali emergenti, la nostra politica dovrebbe rispondere all’imperativo categorico di programmare, accanto all’imponente crescita della produzione e dei consumi, anche un miglioramento delle condizioni generali dell’esistenza.

Se tutto ciò non viene interpretato come una professione di fede puramente formale, ma accettato come una proposta operativa, una politica di tal genere dovrà essere integrata da provvedimenti a favore di particolari gruppi e categorie di cittadini. In via di principio non si dovrebbero creare zone e ambiti speciali all’interno della società, ma converrete con me che la convinzione secondo cui la libera concorrenza, da sola, sarebbe sufficiente a promuovere il benessere del ceto medio o dei contadini è altrettanto erronea quanto l’opinione che la politica sociale si debba esaurire nella difesa di tali gruppi. L’economia sociale di mercato è perfettamente compatibile con l’adozione di misure compensative capaci di assicurare il movimento di determinanti ceti verso posizioni più adeguate.

Questo nel caso che settori come l’agricoltura e l’industria, risultino esposti in modo particolare ai contraccolpi della dinamica economica, o soccombenti di fronte alla concorrenza di prodotti alternativi o di mercati più ampi.

Nell’economia sociale di mercato dobbiamo fare sempre buon viso al progresso economico e tecnico, ma anche tener presente la necessità di favorire, mediante supporti finanziari o facilitazioni ricche di idee, i quali, pur senza rinnegare i fondamenti del sistema, vogliano tentare di ridurre le tensioni sociali, caratteristiche di questa nostra epoca di transizione.

Ed ancora! Una politica sociale non deve semplicemente richiamarsi ad un modello ideale che dica quale forma a lungo termine, si debba imprimere alla società nel suo complesso.

Essa deve nello stesso tempo tenere sotto esame i processi di trasformazione costantemente in atto, e trovare il giusto mezzo tra un atteggiamento ostile a qualsiasi trasformazione e il suo contrario. Dovrà dunque sforzarsi di pilotare i processi evolutivi che si possono ragionevolmente prevedere, e ciò allo scopo di fare in modo che abbiano luogo tensioni insopportabili.

La politica sociale deve riservare, inoltre, particolare attenzione alla difesa di un tessuto quanto più ampio possibile, di piccole e medie imprese indipendenti, ed anche al progressivo emergere di singole personalità all’interno dei gruppi di operai e di impiegati.

Oggi sempre più spesso si deve parlare di pregiudizi e spesso salta agli occhi la diffidenza di alcuni circoli culturali ed economici che al solo sentire parlare di economia sociale di mercato, arricciano il naso e scoprono vecchie crociate anticattoliche, nel mentre, sotto un nobile scudo concettuale, finiscono col difendere soltanto gli interessi concreti di pochi.


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