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  Conferenza Nazionale Programmatica, novembre 2003

Data di pubblicazione: Sabato, 1 Novembre 2003

STAMPA E PUBBLICAZIONI / Opuscoli :: Conferenza Nazionale Programmatica, novembre 2003

Conferenza Nazionale Programmatica

"Lavoro e solidarietà per costruire la nuova Europa - Un impegno di cattolici per un progetto comune"

novembre 2003

Indice:


- Introduzione di Noè Ghidoni

- Omelia di Mons. Leonardo Sandri

- Relazione di Carlo Costalli

- Intervento di Natale Forlani

- Intervento di Michele Tiraboschi

- Intervento di Pier Ferdinando Casini



INTRODUZIONE

NOE' GHIDONI

Responsabile per la Formazione MCL


E’ stato un percorso lungo e articolato quello che ha portato oltre tremila delegati alla Conferenza nazionale programmatica del Movimento Cristiano Lavoratori, svoltasi a Roma alla fine del novembre 2003, sul tema Lavoro e solidarietà per costruire la nuova Europa – Un impegno di cattolici per un progetto comune.
Una conferenza a metà del mandato congressuale, che si è inserita in quel filone di riflessione e di attenzione alle tematiche europee, che da sempre hanno caratterizzato l’azione del nostro Movimento, e che si è intensificato già a partire dalle manifestazioni del 2001/2002, per il 30° della fondazione, passando attraverso diversi momenti formativi, documenti pubblicati, articoli, interviste, convegni (tra cui quello svolto all’interno del Parlamento di Bruxelles), fino al seminario di fine estate a Senigallia con la presenza di autorevoli relatori.
In questo cammino degli ultimi mesi non a caso si sono inserite due ‘attenzioni’: la prima per la salvaguardia e promozione del carattere festivo della Domenica (che ha trovato, oltre al consenso di centinaia di migliaia di persone, anche il conforto in itinere del Papa che, nell’Esortazione apostolica Ecclesia in Europa, ha spronato a un impegno specifico per una corretta regolamentazione dei tempi del lavoro); la seconda per il riconoscimento delle radici cristiane d’Europa, non con l’atteggiamento di coloro i quali rivolgono al passato il loro sguardo venato dalla nostalgia ma di chi, come noi, pensa ad un’Europa riunificata non su convenienze, ricatti o pretese di egemonia, ma su solide basi etico-valoriali, le cui fondamenta poggiano proprio sull’esperienza cristiana dei nostri popoli che da questa hanno tratto la loro identità.
Il cammino verso l’Assemblea nazionale si è articolato ai vari livelli locali ed in particolare nelle realtà regionali dell’associazione con momenti di dibattito molto partecipati e di qualità, segno di un movimento che vuole esserci, che vuole affermare la sua presenza, che vuole dare il proprio originale e autonomo contributo alla costruzione della ‘città’.
Questo fascicolo intende raccogliere gli interventi della giornata conclusiva dell’Assemblea nazionale che, significativamente, si aprono con il contributo offerto da S.E. il Sostituto alla Segreteria di Stato e si chiudono con quello del Presidente della Camera dei Deputati.
Si racchiude in questa icona il senso stesso della nostra esperienza associativa che trae la sua origine dall’esperienza cristiana e che la intende concretizzare nella comunità civile.
Riforme istituzionali, sussidiarietà e federalismo, piena occupazione, welfare, sviluppo sostenibile, democrazia partecipativa (anche economica), equità fiscale, vita e famiglia, riconoscimento politico dei corpi intermedi, affermazione della cultura no-profit, ripresa del confronto per la Costituzione europea e per il futuro della Unione, sono alcuni dei tanti temi sui quali il MCL si sente impegnato e per i quali il presidente Carlo Costalli ha rivolto un appello di impegno comune ai ‘riformisti’ - che pure ci sono, anche se spesso nascosti -, affinché si arrivi insieme a determinare le condizioni per quel “rinnovato ordinamento sociale” che è l’obiettivo vero del nostro cammino associativo.




S.E.R. MONS. LEONARDO SANDRI
Sostituto Segreteria di Stato della Santa Sede


Fratelli e Sorelle nel Signore,

sono lieto di condividere con tutti voi, cari rappresentanti del Movimento Cristiano Lavoratori, la Celebrazione eucaristica di questa mattina e ringrazio l’Assistente ecclesiastico, Monsignor Francesco Rosso, per l’invito che ha voluto rivolgermi; ringrazio inoltre il Presidente del Movimento Carlo Costalli per l’indirizzo di saluto a questa celebrazione.
Questo incontro a Roma rappresenta un momento molto importante di verifica per la vita e l’attività della vostra Associazione, che trova il suo vertice nel ritrovarci insieme intorno all’altare, per ascoltare insieme la Parola di Dio, partecipare allo stesso Banchetto eucaristico e invocare da Dio aiuto e protezione per la Chiesa e per la società civile.
Fortificati da questa sosta di preghiera, di comunione ecclesiale e di rinnovato attaccamento ai valori e agli impegni di vita, potrete proseguire con rinvigorito slancio il vostro cammino personale e associativo e affrontare con maggiore consapevolezza l’impegno specifico del Movimento: la testimonianza dei valori cristiani nel mondo del lavoro, secondo la dottrina sociale della Chiesa e seguendo le indicazioni del Magistero in questo importante ambito.
La Liturgia di questi giorni, mentre sta per concludersi l’anno liturgico e nell’imminenza del ‘tempo forte’ dell’Avvento, insiste nell’invitarci a guardare con gli occhi della fede allo sviluppo della storia e a vivere con un atteggiamento di speranza cristiana il coinvolgimento attivo e responsabile nel progresso della società.
E’ questo, infatti, il messaggio fondamentale proposto dal libro di Daniele. La visione che abbiamo ascoltato oggi preannuncia l’avvento del regno di Dio, che verrà consegnato al “popolo dei santi dell’Altissimo” (Dn 7, 27). Il messaggio di speranza contenuto nell’odierna prima lettura viene completato dal brano evangelico poc’anzi proclamato. In esso Gesù ci invita ad avere un costante atteggiamento di attesa e di vigilanza: “Vegliate e pregate in ogni momento” (Lc 21, 36). Questi richiami già anticipano in qualche modo i temi fondamentali dell’Avvento che inizia domani, sintetizzando il modo con cui ogni cristiano deve inserirsi nella società nella quale si trova a vivere.
La vigilanza ci stimola a non accontentarsi di un benessere esclusivamente materiale, sottoposto a una logica egoistica e consumistica, che scende a compromessi con le ingiustizie e rimane sordo ai bisogni dei fratelli più poveri. Il senso di attesa ci spinge a guardare oltre a un orizzonte strettamente terreno, per cercare in un’ottica di fede il senso più profondo dell’esistenza umana e degli avvenimenti della storia. La preghiera costituisce la fonte primaria per l’impegno verso la santificazione personale e a favore di uno sviluppo integrale della società, che ponga al centro il valore fondamentale di Dio e della persona umana, creata a sua immagine.
Si tratta di un messaggio che riguarda, evidentemente, tutti i credenti, ma che, come dice il Concilio Vaticano II, tocca in particolare la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo. Proprio questo messaggio è fatto proprio dal Movimento Cristiano Lavoratori, movimento orientato direttamente a testimoniare i valori della dottrina sociale della Chiesa nell’ambito del lavoro, della produzione e dell’economia.
Questo aspetto della missione dei cristiani è stato illustrato tante volte dai documenti ufficiali della Chiesa ed è stato ribadito con forza nella Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, con la quale il Santo Padre ci ha consegnato le linee direttive per il cammino della Chiesa mentre sta ‘prendendo il largo’ nel vasto orizzonte del terzo millennio cristiano. “Il versante etico-sociale – ricorda Giovanni Paolo II – si propone come dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana” (n. 52). Le chiare parole del Papa sono confermate dalla sua personale testimonianza. Infatti, com’è noto, egli ricorda volentieri e con una certa nostalgia, gli anni del suo lavoro di operaio in fabbrica. Nella sua persona il luogo di lavoro diventò, davanti agli sguardi ammirati ed affettuosi dei suoi colleghi, provvidenziale seminario.
Sua Santità, che ho informato di questo nostro incontro, mi ha incaricato di portarvi il Suo saluto e la Sua benedizione, come segno di incoraggiamento e di augurio perché possiate proseguire con entusiasmo e in profonda sintonia con i Pastori della Chiesa la vostra bella testimonianza dei valori della dottrina sociale della Chiesa.
Vorrei aggiungere anche il mio personale augurio per voi qui presenti e per tutti gli aderenti al Movimento sparsi nel mondo, perché questo incontro di Roma porti abbondanti frutti di bene e vi aiuti a svolgere sempre meglio il compito che vi siete assunti a vantaggio della Chiesa e per il bene della società.



                        
CARLO COSTALLI
Presidente Generale MCL


Cari amici,

la situazione politica, economica e sociale presenta sempre forti novità. Viviamo in continua transizione, in lunghi periodi di forti tensioni sociali; a volte fatichiamo a comprendere appieno tutti gli aspetti e spesso avvertiamo l’inadeguatezza del nostro bagaglio analitico-interpretativo.
Dobbiamo avere un quadro di riferimento modificato, più ampio, perché il processo di globalizzazione sta andando avanti e la costruzione dell’Europa sta diventando un fatto irreversibile, aperta anche a Stati che, soltanto qualche anno fa, era impensabile immaginare.
I problemi di ‘casa nostra’ debbono necessariamente essere inquadrati nel contesto della nuova Europa, che noi vogliamo costruire con il lavoro e per il lavoro, con la consapevolezza che senza il forte collante della solidarietà, non sarà mai possibile costruire una realtà europea fondata sulla pace e sulla giustizia sociale.
L’Europa dei popoli che noi desideriamo, ci impegna a lavorare per costruire assetti istituzionali ed economici, ponendo al centro l’uomo, la sua libertà e la sua dignità.
Come garantire un’assistenza adeguata agli anziani non autosufficienti? Come conciliare vita familiare e vita lavorativa? Quali politiche per le giovani generazioni? Quali aiuti concreti per la famiglia? Come promuovere la ‘prossimità’ e combattere l’esclusione sociale? Quali politiche attive per il lavoro? Quale Stato sociale? Quale Europa? Sono, queste, alcune domande a cui il Movimento Cristiano Lavoratori ha cercato di rispondere, nella speranza di sensibilizzare le forze politiche sui reali bisogni della gente.
E’ una ‘domanda sociale’ che non può essere elusa dalla politica. E su questo fronte noi continueremo a batterci, consapevoli di uno specifico ruolo politico che il nostro Movimento può e deve avere, assieme al variegato mondo dell’associazionismo, un mondo che, più di ogni altro, è capace di intercettare i reali bisogni della gente.
Consapevoli che la politica senza l’aggettivo ‘sociale’ è come un corpo senza anima, non ci stancheremo mai di richiamare l’attenzione del Governo e dei partiti sulle grandi questioni sociali, sollecitando provvedimenti concreti capaci di fronteggiare le sempre più numerose e differenziate domande che si levano dalla società civile.
Al riguardo, occorre tenere presente che sulle questioni sociali è necessario modificare anche le modalità di approccio di stampo assistenzialista, caratterizzate da interventi ‘a posteriori’, forse utili per alleviare le povertà tradizionali, ma insufficienti per prevenire e rimuovere sia le vecchie che le nuove forme di discriminazione ed esclusione sociale.
E’ questo un modo nuovo per fornire risposte ai bisogni degli individui e delle famiglie, alla ricerca di una valida protezione dai diversi handicaps che (è necessario sottolinearlo) non sono solo quelli fisici, ma anche quelli economici, di pari opportunità, di collocazione geografica, di status lavorativo, ecc., promuovendo reti di relazioni tra persone e comunità. Il tutto sulla base del diritto di cittadinanza di ognuno.
D’altro canto, una politica sociale realmente moderna non può più essere quella di una indifferenziata offerta di prestazioni e servizi, uguali per tutti e su tutto il territorio nazionale. ‘Universalismo’ e selettività non sono affatto termini contrapposti. Occorrono misure flessibili, ritagliate sulle esigenze delle comunità territoriali e gestite con efficienza a livello locale, perché abbiamo ritenuto profondamente ingiusto uno Stato sociale che dà eguali prestazioni a tutti. Se i bisogni sono diversi, diverse devono esser le risposte. Se la politica, senza l’aggettivo sociale è, almeno per noi, un concetto fortemente riduttivo, occorre che tutte le politiche di bilancio tengano conto in modo prioritario delle questioni sociali, improntando delle ‘finanziarie’ che non penalizzino i costi della spesa sociale, prendendo coscienza che, in un periodo medio-lungo, tali spese avranno delle ricadute positive anche in termini di crescita economica e sviluppo complessivo, oltre agli effetti immediati in termini di giustizia sociale.
In questo contesto si inseriscono le politiche fiscali, in quanto strumenti importantissimi attraverso i quali è possibile realizzare politiche sociali adeguate ai reali bisogni delle fasce più deboli della popolazione, indirizzando e promuovendo un equilibrato sviluppo in funzione dei fini che la comunità sociale vuole raggiungere e dei valori che vuole salvaguardare o perseguire.
In questo particolare momento, riteniamo che la famiglia sia assolutamente un valore da salvaguardare e rafforzare ostacolando quel tentativo culturale strisciante e pervasivo che tende a minare dalle fondamenta un antico istituto giuridico.
Purtroppo, il pragmatismo, il secolarismo, e l’individualismo imperanti sembrano avere il sopravvento, nonostante i ripetuti appelli del Santo Padre, cooptando comportamenti e condizionando scelte (anche di molti cattolici) nel nome di pseudo battaglie di civiltà.
Su questo punto noi vogliano essere chiari: la famiglia è prima di tutto un valore laico (anche se per i cristiani è qualcosa di più) e noi vogliamo difenderla nella sua soggettività, promuovendo una adeguata legislazione, che favorisca la costituzione di famiglie ‘regolari’, basate sul matrimonio tra un uomo e una donna. Rafforzare e valorizzare il ‘contratto’ di matrimonio costituisce un presupposto indispensabile per una società ordinata, destinata a conservare nel tempo i fondamenti di una civile convivenza. Un tema, questo, su cui occorre un impegno più forte, perché da anni tutte le politiche sembrano andare in direzione contraria rispetto al rafforzamento e alla tutela del nucleo familiare.
Anche la leva fiscale è uno dei tanti strumenti attraverso i quali è possibile concretamente   aiutare le famiglie. Su questo fronte, noi diciamo con molta chiarezza che è giunta l’ora di considerare il reddito del nucleo familiare quale fonte soggettiva e unitaria di imposizione.
Riteniamo altresì necessario riconsiderare il sistema delle detrazioni e delle deduzioni fiscali in funzione di una politica sociale più attenta alle fasce più deboli della popolazione.
Rendere più equo e giusto un fisco prevalentemente vessatorio, era un preciso impegno programmatico dell’attuale Governo: non ci sembra che sia stato fatto molto (colpa dell’11 settembre? Del buco di bilancio ereditato? Dell’alto rapporto tra debito e PIL che continua a persistere?), anche se rispetto ai precedenti governi si deve oggettivamente registrare una inversione di tendenza. E poi, non bisogna dimenticare che la leva fiscale costituisce anche un efficace strumento attraverso il quale si esprime concretamente la solidarietà.
Mentre assistiamo, in termini positivi, a un radicale mutamento nei rapporti tra durata della vita e tempo di lavoro, tra modalità e ritmi della produzione del reddito, che necessariamente si riflettono sulle condizioni socio-economiche, sugli stili di vita, sui modelli di comportamento e sulle relazioni interpersonali dei singoli individui e dei nuclei familiari, assistiamo anche a una povertà sempre crescente e a una tendenza alla esclusione sociale, relegando in una marginalità sempre più diffusa l’Altro diverso da noi.
Occorre governare questi imponenti processi di trasformazione, prendendo coscienza dell’esistenza di questo dualismo socio economico, che ci obbliga ad agire politicamente per affermare il diritto inalienabile di tutti a vivere una vita libera e dignitosa.
La lotta contro l’esclusione sociale, in favore della piena soggettività di individui e famiglie, non costituisce quindi solo un impegno morale, ma è anche un preciso impegno politico dei cattolici per una società per l’uomo, nella consapevolezza che tale impegno costituisce anche un pre-requisito essenziale per lo sviluppo del nostro Paese, nel contesto di una sempre più crescente competitività internazionale. Infatti, un Paese può meglio fronteggiare i ritmi incalzanti della sfida mondiale solo se dispone di un tessuto sociale coeso e reattivo.
Per questo siamo convinti che investire nel sociale, oltre che essere giusto, umanamente doveroso e politicamente vantaggioso, è anche economicamente utile, a prescindere da qualsiasi riferimento alla nostra fede, che ci spinge ad atti di carità per la nostra appartenenza alla Chiesa.
Non diversamente da quanto attiene al problema dell’occupazione e del mercato del lavoro (sul quale mi soffermerò più avanti), le politiche sociali sono chiamate a svolgere un ruolo cruciale nel processo di sviluppo complessivo, e costituiscono un forte collante che lega lo sviluppo ai valori fondanti di una società, collegando democrazia e benessere.
Ciò richiede, però, una obiettiva analisi dei processi sociali, guardando in faccia la realtà in una prospettiva a medio-lungo termine.
Non si può, ad esempio, non segnalare l’incombente fenomeno di   un ‘baratro’ demografico, che pone seri problemi (non solo al nostro Paese), mettendo una seria ipoteca sul nostro futuro.
E qui si inserisce il ‘tema pensioni’. E’ fuor di dubbio che il sistema pensionistico del nostro Paese rappresenti una anomalia, tra le tante anomalie del sistema Italia, specialmente se confrontato con i sistemi previdenziali degli altri Paesi europei. Ricondurre le spese previdenziali nei limiti delle compatibilità del sistema è certamente un obiettivo da perseguire, soprattutto perché le pensioni delle generazioni future non possono essere compromesse da politiche sbagliate o da decisioni rimandate sine die. Trattasi di un doveroso e necessario equilibrio generazionale. Occorre però essere chiari, perché a nostro avviso:
·    i diritti acquisiti non possono essere in nessun modo toccati;
·    la riforma non deve incentrarsi (come invece sembra indicare la proposta governativa) solo sulle pensioni di anzianità. Certamente l’allungamento della vita e il forte calo delle nascite (cioè, ragioni demografiche) ci impongono comunque di ritoccare l’età pensionabile, pur se con gradualità e con le dovute eccezioni (vedi ad esempio i lavori usuranti), sensibilizzando i lavoratori sul fatto che c’è un momento in cui occorre comunque mettere un punto, e rinunciare anche a qualche piccolo privilegio a vantaggio dei propri figli;
·    occorre trovare un giusto equilibrio tra sistema contributivo e retributivo, incentivando veramente le pensioni integrative;
·    la riforma delle pensioni deve necessariamente essere inquadrata nel contesto di una più generale riforma di tutto il welfare;
·    infine, c’è un problema di metodo, che in politica è sostanza: qualsiasi riforma che investe principalmente i lavoratori, deve essere preventivamente contrattata con le parti sociali, sindacati in primis, per riempire di contenuti il tanto proclamato principio del ‘dialogo sociale’, fermo restando il diritto-dovere del Governo di decidere, in assenza di proposte concordate (ma dopo, solo dopo, non prima, annunciandolo magari in TV!).
Se il modello tradizionale di welfare State ha prodotto coesione sociale e sviluppo economico all’interno di mercati aperti, fortemente caratterizzati da un controllo nazionale, oggi tale modello non regge più. Infatti ci troviamo di fronte a una crisi irreversibile, conseguenza anche degli effetti distorti di una spesa sociale fuori controllo, che ha necessità di essere riqualificata nel contesto di una politica sociale europea.
Nel vecchio modello, le politiche di protezione sociale venivano definite al centro, a livello nazionale. Oggi ciò non è più possibile, perché si impongono rapporti cooperativi tra centro e periferia e tra Stati europei e non.
Occorre superare la tradizionale concezione di una politica sociale relegata negli stretti confini nazionali e governata dal centro, nell’ottica di sistemi fortemente caratterizzati da quel principio di sussidiarietà a cui ci richiama anche il Magistero della Chiesa. Ciò significa passare da una concezione dell’uguaglianza sociale statica e ben circoscritta ad una concezione dinamica, scommettendo su un futuro da costruire.
Il fatto che viviamo in un’epoca di interdipendenza economica, non implica automaticamente un’evoluzione verso l’integrazione delle ragioni della solidarietà, perché ognuno tende a comportarsi e ad agire secondo i propri specifici interessi. Occorre superare questo dato di fatto. E’ questa la sfida che, come ci ammoniscono i Vescovi, “immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore” (cfr. doc. Evangelizzare il sociale), ci lanciano nel nuovo millennio che stiamo vivendo.
Vincere questa sfida è possibile se tutti, specialmente noi che ispiriamo la nostra azione politico-sociale alla dottrina sociale della Chiesa ed agli insegnamenti del Magistero, riusciremo a trasferire, attraverso la politica, nelle istituzioni quel principio di solidarietà che trova il suo presupposto soprattutto nelle ragioni dell’umanità. Certo, non è un lavoro semplice, perché si tratta di incidere sulle coscienze dei popoli, per affermare quella cultura della libertà che rende gli uomini veramente liberi dal bisogno.
Tutti gli uomini hanno gli stessi diritti. I diritti fondamentali, ovunque nel mondo, devono essere garantiti e tutelati.
Pensare a una solidarietà globale significa, quindi, pensare a uno Stato globale, ma questa è forse pura utopia. Pensare però a uno Stato europeo, che potrebbe affacciarsi dopo la moneta unica, è forse realistico.
Schuman diceva che “l’Europa non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme, essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.
Partiamo, quindi, da questa realizzazione concreta, che è rappresentata dall’euro, per incominciare a pensare a una politica europea della solidarietà, da esportare in tutto il mondo.
E’ proprio questa visione cosmopolitica che ci induce a rafforzare la nostra storica fede europeista, convinti come siamo che è possibile costruire una Europa delle genti. E’ un processo culturale lento, ma irreversibile.
La nostra fede europeista spiega la nostra particolare attenzione alle questioni istituzionali e, in modo particolare, a quella relativa alla Costituzione europea.
In moltissimi convegni, nazionali e internazionali, abbiamo affrontato il ‘problema Europa’ in tutti i suoi aspetti: dall’allargamento verso est, così come verso il Mediterraneo, alla politica militare e la politica estera; dalle politiche dell’immigrazione alla politica del lavoro; dalle politiche di bilancio alle politiche fiscali; per finire con le recentissime posizioni sulle radici giudaico-cristiane, da non smarrire, pena lo smarrimento di una identità storica che ha permeato la vita, la cultura, le democrazie dei popoli e degli Stati europei. Comunque, a prescindere da uno specifico riferimento nel preambolo della nuova Costituzione, la nostra battaglia sulle radici cristiane continuerà anche dopo, per affermare la centralità della persona umana.
Ma quale persona? Assistiamo a una specie di egemonia culturale dell’individualismo, che ripiega l’individuo su se stesso. Il cristianesimo ci spinge a guardare alla persona umana come l’Altro: l’Altro come me; l’Altro con me. Le conseguenze non sono di poco conto: questa scelta, impersonata da Colui che è morto per l’Altro, anzi per i peccati dell’Altro, fa la differenza, e segna profondamente la vita di ognuno di noi, le nostre relazioni interpersonali e comunitarie, il nostro impegno politico-sociale, liberandoci da molti idoli che continuamente ci schiavizzano.
Ecco perché combattiamo con forza quell’individualismo esasperato che tende a considerare l’altro ‘per me’, ossia per il mio benessere. In questa prospettiva, l’altro conta soltanto se serve a me, quindi se è sano, se lavora, se produce ricchezza e benessere, strumentalizzando e mercificando, e così in ogni relazione umana. In realtà la persona conta anche se non è ‘utile’: anzi, proprio la condizione di debolezza, di minorità e di minoranza dovrebbe costituire titolo preferenziale per un’attenzione specifica e prioritaria da parte della comunità sociale e politica.
La scelta preferenziale per i poveri della Chiesa universale diventa fatto politico ed impegna, in modo particolare i cattolici, in un’incessante azione politico-sociale, per affermare i diritti inalienabili dell’uomo e della persona umana, quali diritti di cittadinanza, diritti che hanno una valenza e una pregnanza laica. Dalla consapevolezza che il benessere di ‘mio fratello’ dipende molto da ciò che faccio o che non faccio, scaturisce quella responsabilità sociale che mi impegna in una azione di servizio.
Queste riflessioni costituiscono la chiave di lettura del nostro impegno nella società, sia quando operiamo concretamente attraverso i nostri servizi, sia quando agiamo ‘culturalmente e politicamente’.
Questo ci consente di proporre dei valori laici, condivisi o condivisibili, impegnandoci laicamente, anche nelle istituzioni, inserendoci anche nel dibattito in atto sulle riforme. Ad esempio, è da tempo che noi diciamo che la nostra Carta costituzionale deve essere rivisitata per aggiornarla e renderla compatibile con la mutata situazione nazionale ed internazionale. Occorrono interventi correttivi e integrativi, non solo sulla seconda, ma anche sulla prima parte della nostra Carta fondamentale. La sola modifica del Titolo V non è sufficiente. Occorre esplicitare meglio i principi democratici, personalisti, solidaristi, autonomisti e internazionalisti, per ricondurre ad elemento fondante del presupposto costituzionale l’uomo e la persona umana, rafforzando il principio di subordinazione dello Stato alla stessa persona umana. Occorre un intervento organico: non è assolutamente possibile procedere a ‘pezzettini’, come è avvenuto per la giustizia, e a colpi di maggioranza.
Stiamo attraversando un periodo di grande conflittualità sociale. Il Movimento Cristiano Lavoratori non si è mai rassegnato e mai si rassegnerà alla deriva conflittuale del sistema di relazioni italiane.
Non possiamo nasconderci che sono presenti anche nel Governo e nelle Associazioni imprenditoriali forze che hanno il comune obiettivo strategico di riduzione del peso e dell’influenza dei corpi intermedi nella vita del nostro Paese. Questo atteggiamento non è nuovo e non è certo monopolio solo dell’attuale Governo di centro destra. Esso infatti ha obiettivamente tratto forza dalle azioni di delegittimazione dell’esperienza della concertazione che, a partire dal 1998, ha coinvolto gli stessi governi di centro sinistra, con il ‘volenteroso’ supporto della Cgil. Si tratta, ora come allora, di un’illusione che vuole ammantarsi di modernismo, ma al fondo è una posizione conservatrice.
Ci sono forze di opposti fronti che auspicano un impossibile ritorno al passato: riconsegnare il destino delle relazioni al puro rapporto di forza. Noi dobbiamo, veramente e seriamente, superare culturalmente questa concezione, da tempo fuori dalla storia.
La nuova regolazione pattizia e collettiva del rapporto di lavoro deve superare questo vecchio modo di intendere le relazioni, sostenendo quella cultura della partecipazione, necessaria per costruire un impianto normativo del lavoro moderno, capace di fare fronte alle sfide della globalizzazione.
E’ indubbio che, nell’attuale maggioranza di Governo, ci sono delle forze politiche che la pensano come noi; a queste guardiamo con grande attenzione e a queste ci appelliamo per evitare dannose derive. Sosteniamo da tempo che la concertazione, nella nuova e più moderna veste di ‘dialogo sociale’, debba essere rilanciata, stabilendo regole e percorsi che consentano alle parti di esprimersi assumendo coerenti e responsabili comportamenti. Ma, nello stesso tempo, auspichiamo anche regole ben precise per impedire qualsiasi diritto di veto a chicchessia: nelle vere democrazie, non esiste il diritto di veto, mentre esiste il diritto alla partecipazione responsabile e al dissenso.
Non ci stancheremo mai di insistere sul fatto che, per modernizzare il Paese, occorre un rinnovato patto tra tutti i soggetti sociali   (tutti, non solo i sindacati) ed istituzionali.
Su questa strada perde la vita Marco Biagi, colpito dagli avvoltoi del terrorismo da sempre pronti a incunearsi negli spazi lasciati aperti dal radicalismo conflittuale, ideologicamente chiuso a qualsiasi tentativo di riforma. Come più volte abbiamo sottolineato, ci siamo trovati ad agire in un quadro molto complesso, caratterizzato da molte contraddizioni.
Il bipolarismo pone a tutti noi molti problemi e ci costringe a riflettere con attenzione sul ruolo del nostro Movimento, che rivendica con forza il riconoscimento di soggetto politico. Le difficoltà che registriamo, anche tra le organizzazioni sindacali, non sono solo riconducibili al merito delle singole questioni, ma riguardano anche un diverso modo di intendere il rapporto tra le diverse rappresentanze sociali e i diversi schieramenti politici e con la politica in genere. Per molti anni, anche dentro la CISL (il nostro ‘sindacato di riferimento’), si è discusso, e si discute tuttora, su questa importante questione. E’ una questione che, secondo me, deve continuare a restare aperta, perché qualsiasi soluzione univoca snaturerebbe la funzione del sindacato stesso, compromettendo seriamente la sua autonomia, che è un valore da salvaguardare se non si vuole comprimere la rappresentanza sociale.
Altri hanno scelto una strada diversa: quella di schierarsi apertamente a favore di uno schieramento politico, se non addirittura a favore di un partito, con iniziative chiaramente strumentali (basti, ad esempio, ricordare la tenace battaglia sull’art. 18, che ha rischiato di spaccare il Paese su un falso problema). Ciò vale per i sindacati, e vale anche per alcuni movimenti e/o associazioni (anche cattolici!). Anche se assistiamo da tempo a frequenti pentimenti. E’ successo dopo i fatti violenti del G8 a Genova, è successo dopo la strage di Nassiriya: il pentimento è per noi cattolici un sentimento molto importante ma non abusiamone troppo.
Noi abbiamo scelto, in continuità con la nostra storia, e con un’idea di società che rifugge i radicalismi e i massimalismi per collocarsi in quella posizione di riformismo, moderatismo-europeismo che ci è più consona, che ha nel DNA la ‘cultura della partecipazione’.
Siamo obbligati a riflettere attentamente in quanto tutto sta cambiando: il nostro Paese, l’Europa, il mondo; come sta cambiando il modo di produrre e di lavorare; come le dinamiche globali si ripercuotono sulla scena nazionale ed europea. Sono questioni che incidono profondamente sui modi di vita, di benessere e di sicurezza di milioni di persone, a cui necessariamente devono essere collegate nuove forme di promozione, tutela, partecipazione e rappresentanza. Proviamo a pensare, al di là delle angosciose problematiche inerenti all’alto tasso di disoccupazione persistente, al nuovo approccio che, specialmente le giovani generazioni, hanno con il lavoro, tendente a relativizzarne il peso, ad accentuarne la sua valenza strumentale, per renderlo compatibile con gli altri interessi di vita. Proviamo a pensare come le nuove tecnologie ci impongono continui cambiamenti professionali e di stili di vita. L’innovazione tecnologica e l’informatizzazione avanzata ci obbligano a pensare a nuove forme di lavoro, non più ingessate nel posto fisso.
Sono, queste, tutte problematiche ambivalenti, perché ci inducono a guardare al futuro, ma nello stesso tempo ci preoccupano. Comunque, tra coloro che guardano al futuro con tutto il carico di incognite, e coloro che vorrebbero mantenere lo status-quo, magari con qualche riverniciatura gattopardesca, il Movimento Cristiano Lavoratori certamente sta tra i primi.
Per questo riteniamo (per tornare al tema del lavoro) che sia nostro compito, ma è principalmente compito del sindacato, promuovere una nuova cultura del lavoro, che tenga conto delle nuove e, sotto certi aspetti, inedite, esigenze del mercato, intervenendo per creare le condizioni affinché la necessaria flessibilità non si trasformi in precarietà, se non addirittura in disoccupazione, ma in nuove opportunità di lavoro. Anche il sindacato, quindi, deve fare i conti con il nuovo che inesorabilmente avanza, prendendo atto che la struttura del mercato, dell’impresa e del lavoro è modificata.
Una struttura che vede da una parte un mercato globalizzato ed una impresa che valorizza sempre più le cosiddette ‘risorse umane’ e, dall’altra, un nucleo stabile di lavoratori, professionalmente super-tutelati, e un’area variabile, sempre più ampia, caratterizzata da rapporti di lavoro sempre più flessibili, che restringono la forbice tra lavoro dipendente ed autonomo.
Come si fa a non tenere conto di questo passaggio dal lavoro ai lavori, cioè alle tante tipologie di lavoro, ai cosiddetti lavori atipici? Come si fa a non pensare seriamente a forme di tutela, magari differenziate, ma generalizzate, per tutti i lavoratori (siano essi subordinati, parasubordinati o autonomi)?
Su questi temi, si è aperta una grande partita: il risultato dipenderà molto dalle scelte delle forze sociali, e in particolar modo dai sindacati, dalla disponibilità a giocare o meno una partita politica: laicamente. Altrimenti, altri comunque decideranno, perché le esigenze esistono: ciò vale per il mercato del lavoro, per le pensioni, per il welfare.
Abbiamo più volte espresso giudizi sostanzialmente positivi sulla riforma del mercato del lavoro, voluta dal prof. Marco Biagi. Certamente va nella giusta direzione e rappresenta il punto di partenza per un progetto complessivo di modernizzazione del mercato del lavoro. Una riforma del lavoro che può aiutare a rilanciare anche il Mezzogiorno dove solo la trasparenza del mercato del lavoro può reinnescare un processo di sviluppo economico, di crescita dell’occupazione regolare e di rafforzamento della coesione sociale.
Adesso il passo ulteriore è la codificazione di uno Statuto dei lavori: un testo unico destinato a tutti i lavoratori, in modo da superare definitivamente quel dualismo, oggi esistente, tra ipertutelati e precari. Un atto di civiltà, abbiamo più volte affermato. Il prof. Tiraboschi nel suo libro Morte di un Riformista ci ricorda che il prof. Biagi fin dal febbraio 2002, nelle ultime settimane della sua vita, aveva predisposto una proposta di delega al Governo per “la redazione di un testo unico in materia di disciplina di tipologie contrattuali: uno Statuto dei lavori”. Partiamo da là. Un progetto che, partendo dalle tutele fondamentali applicabili a tutte le forme di attività lavorative rese a favore di terzi, prevede una riscrittura delle norme del diritto del lavoro, per estendere i livelli minimi di tutela a tutti i lavoratori, compresi quelli atipici o parasubordinati, oggi privi di garanzie, e nello stesso tempo punti a modernizzare le tecniche di protezione dei lavoratori subordinati, senza compromettere le garanzie attualmente esistenti.
Lo Statuto dei lavoratori, di cui alla legge 300 del 1970, è stata una importantissima conquista; a trentatré anni di distanza però, risente del suo tempo: oggi occorre passare, come ho già detto, dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori. Allora non esistevano i lavori atipici e il modello di lavoro era spiccatamente industriale, e inoltre occorre ormai, tra l’altro, tenere presente una nuova realtà dell’impresa che, più di ogni altra, ha necessità di ricorrere, per caratteristica propria, a contratti di lavoro flessibili. Trattasi della cosiddetta ‘impresa sociale’, sviluppatasi in quest’ultimo decennio, con l’espandersi del cosiddetto ‘terzo settore’.
La crisi del welfare State, causa ed effetto dell’irruzione, nella società e nel mercato, di nuovi soggetti, spontaneamente nati per promuovere, organizzare e gestire la solidarietà, specialmente nell’ambito dei servizi alla persona ed alla collettività, ha posto un problema politico di rilevante importanza: quello della sussidiarietà verticale ed orizzontale.
Questa crisi può essere portata a piena e positiva maturazione, promuovendo una adeguata legislazione, che dia piena cittadinanza al settore del no profit, sulla base di quel principio di sussidiarietà, che noi vogliamo sancire costituzionalmente. Lo sviluppo di attività senza fine di lucro ha interessato tanto l’associazionismo cattolico quanto quello laico, e si è sviluppato esclusivamente su base volontaristica, incanalando la spinta verso l’altro in azioni concrete di solidarietà, che tanto bene hanno fatto e fanno alla collettività e alle singole persone, qualunque sia la motivazione di fondo che spinge alcuni a interessarsi di altri. La crescita organizzativa, economico-finanziaria ed il ruolo che queste spontanee associazioni hanno assunto nel tempo ci spinge, da un lato, a rivedere modelli organizzativi, sistemi operativi e criteri gestionali, favorendo una crescente professionalizzazione degli operatori e, dall’altro, a sollecitare una legislazione più organica, per definire in modo chiaro il confine tra profit e no profit, con un impianto normativo adeguato.
Nel complesso, il progressivo contrarsi dell’intervento statale, la dilatazione di un potenziale lavorativo non tradizionale, la capacità di suscitare la partecipazione e l’autorganizzazione dei cittadini, l’adesione a un sistema valoriale solidaristico, hanno prodotto un modello di azione sociale ed economica che può certamente implementare un nuovo welfare di ispirazione comunitaria.
I temi che riguardano l’impresa sociale e quello attuale della responsabilità sociale dell’impresa non possono non vederci presenti e protagonisti anche per evitare che il confine tra profit e no profit diventi sempre meno visibile e più confuso, come testimonia talvolta il dibattito sulla funzione ‘sociale’ (distinta da quella propriamente inerente alla funzione economica) dell’impresa profit.
E’ molto positiva l’approvazione nei giorni scorsi, alla Camera dei deputati, ed a larga maggioranza, del disegno di legge-delega sull’impresa sociale; ringraziamo la senatrice Sestini per il prezioso lavoro svolto anche in questa direzione. Mentre per la responsabilità sociale delle imprese seguiamo con grande attenzione la proposta italiana fatta dal ministro Maroni a Venezia due settimane fa: su questi temi è necessario approfondire una riflessione seria e organica.

Conclusioni

Il sistema di relazioni fondato sulla partecipazione deve costituire una forza propulsiva dello sviluppo e della crescita dell’occupazione; il vero carburante per realizzare gli obiettivi di Lisbona: tasso di occupazione medio al 70%, sviluppo economico e sociale fondato sulla conoscenza. La conflittualità fine a se stessa, se prorogata, potrebbe cancellare queste possibilità per un lungo periodo a venire; soprattutto in un momento in cui sembrano intravedersi segnali di ripresa economica.
Alcuni attori sembrano interessati a sottrarsi alle loro responsabilità sociali ed alla semplificazione forzosa del sistema di governance democratica del Paese, con la riduzione drastica del peso sociale delle organizzazioni dei lavoratori, dei corpi intermedi in generale. Sono tentazioni mal fondate, semplificazioni che danno fiato alle componenti che fanno del conflitto sociale il loro obiettivo per ragioni squisitamente politiche.
Le forze che vogliono fare del sistema partecipativo di relazioni il nerbo della competitività del sistema Italia e della coesione sociale lo scopo della loro azione collettiva, debbono uscire allo scoperto e costruire una strategia credibile.
Esistono nella maggioranza oltre ai nazionalisti, populisti, liberisti, anche riformisti in grado di impegnarsi in questa direzione?
Nell’opposizione, oltre ai girotondisti, ai teorici del conflitto permanente, ai sacerdoti dell’intransigenza di classe, c’è un’area di riformismo in grado di sostenere con coerenza queste proposte?
Noi vogliamo, nonostante tutto, pensare che all’interno degli schieramenti ci siano molti che ritengono che i temi del lavoro non debbono essere risucchiati in una logica di bipolarismo esasperato, in cui prevalga, al di là del merito, l’interesse di schieramento. Molte forze sono pronte ad assumersi le proprie responsabilità, e noi fra queste, ad indicare le strategie e gli strumenti.
Di qui il nostro appello ai riformisti, principalmente quelli che partono da comuni radici cristiane, per rinnovare il sistema di relazioni e farne la leva della nuova modernizzazione in una logica di coesione sociale, per creare un luogo dove tutti coloro che hanno veramente a cuore il futuro del Paese e la sua necessaria modernizzazione possano incontrarsi, confrontarsi, progettare.
A noi, a ciascuno di noi, la responsabilità in questo tempo di utilizzare pienamente le nostre idee e la nostra forza per costruire nel nostro Paese cose nuove e cose buone per i lavoratori, e per i giovani in cerca di lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, per rinnovare le loro tutele, modernizzare e rinnovare la capacità competitiva dei nostri territori e del sistema Italia.
Noi faremo con umiltà, ma con determinazione, la nostra parte. Il nostro stare insieme associativo e le nostre strategie si fondano sui valori di giustizia e di solidarietà, di pluralismo, di autonomia e di democrazia che pongono la centralità delle persone come misura del tutto. Il legame che ci unisce non si fonda su un’ideologia. Noi non dobbiamo fare i conti con fatali sconfitte della storia.
L’altro elemento unificante (che viene anch’esso da lontano, e che le nostre scelte congressuali hanno sempre rafforzato), è il nostro radicamento sul territorio, con presenze organizzate da integrare sempre più, specialmente sul tema della formazione e della fruizione dei servizi.
Presenze organizzate non solo in tutta Italia, ma anche in quasi tutti i Paesi UE (compreso quelli dell’allargamento) e con sedi ed iscritti in tutti i grandi Paesi del Sud America (Brasile, Argentina, Venezuela, Uruguay, Cile) e nord America (Stati Uniti e Canada). Di fronte a queste sfide l’azione formativa e di testimonianza del Movimento dovrà diventare sempre più incisiva.
Non posso qui non ricordare il percorso formativo e di azione sociale “la domenica è festa” che ha visto tutto il Movimento impegnato per un semestre con una petizione popolare a sostegno del riposo settimanale domenicale. Nel silenzio dei grandi organi di informazione abbiamo raggiunto un grande risultato: quasi quattrocentomila firme. Qui finisce la prima tappa, ma l’impegno andrà avanti.
Valori e radicamento sociale ci permettono di non sottrarci alle sfide del cambiamento, di riprogettare e costruire un ruolo del Movimento dei lavoratori in grado di vincere queste sfide, tenendo assieme sviluppo, giustizia, libertà.




DR. NATALE FORLANI
Amministratore Delegato di “Italia Lavoro”


Grazie, presidente, per l’invito che accolgo con estremo piacere: con voi mi sento a casa, libero di fare riflessioni, anche coraggiose, che nel dibattito culturale del nostro Paese non sempre è possibile sostenere con la profondità che sarebbe necessaria.
Con il vostro presidente ho concordato di fare un intervento nel quale cercherò di individuare quali sono le ragioni del riformismo, oggi, nel mercato del lavoro; lascerò invece al professor Tiraboschi il compito di affrontare come la riforma di Marco Biagi sia già riuscita a incidere profondamente nella direzione del riformismo che noi auspichiamo.
Ebbene, il mio ragionamento, tagliato un po’ col coltello, è questo: vorrei analizzare il nostro mercato del lavoro – dalla evoluzione della produzione fino ai rapporti di lavoro –, senza peraltro avere la pretesa di approfondire a 180° i problemi, per capire quali ragioni inducono oggi all’esigenza di essere riformisti; vorrei guardare poi a quello che stanno facendo gli altri Paesi per cercare di capire come siamo posizionati, in Italia, rispetto a queste tendenze innovative, magari cercando anche di vedere quali siano gli ostacoli culturali che impediscono al nostro Paese di essere all’altezza dei tempi, e quali guasti tutto ciò possa comportare.
Noi stiamo vivendo una stagione di grandi cambiamenti ed è persino superfluo dire che abbiamo di fronte grandissime opportunità: l’umanità forse mai come oggi ha le potenzialità tecnologiche e finanziarie per risolvere problemi di portata storica. Se non riesce a farlo è perché gli uomini non hanno ancora individuato i modi giusti per metterle a frutto, queste potenzialità, per combattere povertà, discriminazioni, malattie, con intere aree del mondo che rimangono alienate perfino da quote poco marginali di progresso.
Siamo dentro a una rivoluzione tecnologica, ed è questa che sta cambiando il modello di produzione. Oggi, cioè, è possibile guardare ai consumatori in maniera personalizzata: stiamo diventando un’economia di servizi perché, anziché immagazzinare, possiamo ormai guardare alle esigenze delle persone e personalizzare la produzione.
La flessibilità dei processi produttivi non è un’idea che nasce dai capitalisti internazionali come conseguenza della ristrutturazione: è piuttosto il cambiamento indotto dalle tecnologie. Questo è un elemento profondo: noi, cioè, siamo dentro questo cambiamento perché ne siamo i protagonisti, come cittadini e come consumatori, e non solo perché c’è un modello di produzione in cui qualcuno decide di cambiare.
Guardate, questa è una prima valutazione importante da fare: quando si sente parlare delle grandi multinazionali, con una visione da ‘grande fratello’ che protegge la vita di tutti noi (e che poi evoca anche radicalismi ideologici), siamo di fronte a una finzione ridicola. Mai come oggi il potere è stato decentrato nel mondo, anzi esiste il problema di come riuscire a ricostruire processi di governabilità di questa diffusione del potere che diventa sempre più difficile da governare: il terrorismo è uno degli aspetti di questa difficoltà, che noi tutti vediamo. E’ più facile governare i processi con la guerra fredda piuttosto che in un mondo globalizzato, in cui anche componenti marginali riescono a condizionare la vita di miliardi di persone.
La seconda valutazione da fare è che questo cambiamento è ampiamente diffuso. Sono cioè cambiati i fattori di competizione: una volta erano le materie prime, i capitali, le tecnologie, a determinare il progresso, mentre oggi tutto ciò gira per il mondo, e va dove c’è un’organizzazione capace di ‘attrarre’, dove ci sono le intelligenze, dove si investe in risorse umane, dove ci sono le infrastrutture giuste. Insomma, non è più necessario avere il carbone o l’acciaio o l’energia per attrarre i capitali: ci sono Paesi che hanno tutto questo eppure attraggono pochissimi capitali; è piuttosto la capacità di creare le intelligenze e la capacità di utilizzare le innovazioni che hanno questo potere attrattivo.
Questi cambiamenti, che hanno in sé una straordinaria potenzialità, creano però anche grandi preoccupazioni, come diceva giustamente Costalli. I cambiamenti creano delle asimmetrie tra il forte e il debole, tra chi riesce a stare nel circolo e chi ne viene spiazzato: lo vediamo sia da noi che nel resto del mondo. Aumenta il tasso di mobilità: siamo ormai al 20% di posti di lavoro che cambiano ogni anno; e la mobilità è un fattore di preoccupazione, non è soltanto un fattore di crescita.
Stiamo dentro un circuito in cui, paradossalmente, aumenta il reddito (chi può dire che oggi stiamo peggio di come stavamo 20 anni fa?) eppure c’è una percezione negativa di questo cambiamento: perché c’è l’ansia, c’è la paura di perdere, c’è la sensazione che quello che hai e quello che stai facendo non sia poi così sicuro, come magari invece percepivi per il poco che avevi prima.
E c’è anche una perdita di identità e di mobilità verticale: prima si cresceva, mentre oggi c’è una grande difficoltà. Noi stiamo facendo un progetto per 800 quadri dirigenti che ieri erano di primissimo livello nelle aziende e che oggi hanno il problema di essere ricollocati; perché anche i quadri, cioè coloro che hanno professionalità di tasso elevato, vivono oggi la crisi del cosiddetto ‘ceto medio’. Il ‘ceto medio’ era la solidità del Paese, della classe dirigente, ossia di coloro che si sentivano stabili - e intorno alla loro stabilità garantivano gli assetti e la stabilità degli altri -. Era uno degli assi portanti della Democrazia Cristiana, che ha campato anni su quest’idea della costruzione del ‘ceto medio’ e, attorno a questo, del moderatismo nazionale, del filtro. Oggi invece è proprio il ‘ceto medio’ che subisce gli scombussolamenti più elevati: questo è un elemento importante per la nostra riflessione, che produce effetti anche sulla nostra tradizione culturale perché è un elemento che ha un impatto diretto sulla politica.
Cambia il rapporto di lavoro, per cui i sistemi sono diventati molto flessibili: la flessibilità è interna alle aziende (gli orari, i turni, gli impianti) ed esterna (sia amplia e si accorcia la produzione, si prendono lavori a termine, c’è il lavoro interinale).
Ma, soprattutto, assistiamo a un forte processo di individualizzazione. Spesso l’individualizzazione è male accolta in quanto viene letta come il tentativo da parte di chi comanda di separare il collettivo, cioè l’interlocutore sindacale, chi fa massa. In realtà si tratta di un fenomeno che nasce soprattutto dal livello delle responsabilità che tutti, nel luogo di lavoro, sono chiamati ad assumere in maniera più alta rispetto al passato. Per fare un esempio: se una volta il portiere d’albergo lo potevano fare un po’ tutti, oggi invece se non parli almeno due lingue non lo puoi fare. E poi devi avere gentilezza, cortesia. Insomma, nei servizi alle persone la responsabilità individuale, l’etica, i valori, sono tutto; non tratta di macchine che se sbagli le puoi aggiustare, in questo campo se sbagli hai fatto un danno a una persona.
L’individualizzazione in realtà nasce dalla responsabilità, quindi non è un processo che va visto solo nei suoi aspetti contrattuali collettivi (cioè il datore di lavoro che preferisce trattare con uno anziché con un altro); piuttosto è un processo che va colto nella partecipazione del lavoratore, che può trovare anche nel collettivo una dimensione di valorizzazione: è, in definitiva, il tema della partecipazione nel moderno mercato del lavoro.
I temi che abbiamo toccato fin qui segnano dei cambiamenti molto profondi, che investono l’etica, i valori, la dimensione del lavoro e le tradizionali forme del diritto del lavoro. Sono cambiamenti che sia governi di destra, che di sinistra, come di centro, devono affrontare.
Questo avviene dappertutto: se guardiamo all’Europa, i vari governi stanno tutti avviando dei processi difficoltosi di cambiamento dei sistemi di welfare consolidati, corporativi; certo, laddove esistono dei diritti acquisiti affrontare dei cambiamenti non è mai cosa facile. Ma negli Stati europei ci sono anche delle direttrici precise sulle quali i governi si stanno muovendo in questa fase delicata. Intanto il primo ragionamento che viene fatto è rendersi conto che il diritto industriale, quello delle fabbriche, lascia il tempo che trova: è fatto, cioè, solo per alcune organizzazioni stabilizzate, grandi, collettive, impersonali per certi aspetti; ma non è più valido per governare processi di cambiamento di questo tipo. Certo, non che sparisca subito nel nulla, che si dissolva…
Gli Stati Uniti si reggono oggi per l’85% su un’economia di servizi; e ci arriveremo anche noi, fra 10 anni, a queste percentuali: questo è il destino delle società moderne. Le componenti a più basso valore le produrranno, per nostra fortuna, i Paesi che affluiscono nel mercato internazionale (altrimenti come potrebbero entrarci, nel mercato internazionale?). Noi diventeremo invece economie sviluppate di tecnologie applicate ai servizi, che cambieranno la mentalità delle persone.
Bisogna introitare questa nuova concezione: tutti ormai stanno andando verso un ripensamento dei diritti industriali, e stanno investendo molto nella formazione perché l’aggiornamento delle persone, le doti delle persone, sono il fondamento, il primo livello di tutela: significa dare alle persone la capacità di stare nel mercato del lavoro, di riposizionarsi.
Sta in definitiva cambiando il mix fra sostegni attivi e passivi nelle politiche del lavoro: fuori dal linguaggio tecnico ciò significa che mentre prima, per continuare con l’esempio, all’estero davano a tutti il sostegno al reddito (la cassa integrazione per alcuni), adesso, pur continuando comunque a erogare tale sostegno, tuttavia lo condizionano al fatto che il beneficiario ricerchi un lavoro: cioè richiedono che egli sia soggetto attivo. Dopodiché gli offrono un servizio di informazione, gli danno un orientamento, e così via. Insomma, investono molto nelle politiche attive, per dotare le persone di caratteristiche tali che consentano loro una posizione mobile, forte, nel mercato del lavoro. In questo contesto investono molto anche nelle politiche di formazione, ovviamente. Ma il dato più significativo è che essi scollegano il welfare dal lavoro, quando invece tutto il welfare nel mercato occidentale è tradizionalmente legato al posto di lavoro: la pensione è legata al posto di lavoro, la sanità è legata al posto di lavoro, ecc.. In America invece stanno cercando di costruire una rete di protezione che sia relativamente scollegata al posto di lavoro: preferiscono tutelare le persone nel mercato del lavoro, nei diritti di cittadinanza e, ovviamente, per far ciò cercano di flessibilizzare i sistemi, cioè di organizzare dei modelli di tutela più adeguati alle nuove condizioni di lavoro (flessibilità salariale e normativa).
Ma fanno una cosa soprattutto: investono nell’aumento del tasso di occupazione. L’Europa è vecchia. E l’invecchiamento comporta nuovi problemi (pensiamo alle malattie croniche). La sanità da noi è una rigidità, è un dovere sociale che va riposizionato. Negli Usa stanno ripensando i modelli pensionistici, sono aperti verso le nuove priorità ma, soprattutto, partono dal presupposto che la prima tutela dei redditi familiari è l’allargamento del tasso di occupazione. Il problema quindi non è la flessibilità in sé, ma che la flessibilità aggiunga posti di lavoro: perché se ci sono tre redditi in famiglia, il lavoro a termine non è poi un grande problema, anzi è il modo in cui un giovane comincia a camminare da solo. Se invece ci sono due redditi a termine in famiglia, già il problema comincia a essere un po’ diverso… per non parlare dell’ipotesi in cui, con un tasso di disoccupazione molto elevato, ci sia in famiglia un solo reddito, caso in cui il problema diventa ancora più grande: quindi la prima valutazione da compiere è quella del tasso di occupazione
Rispetto a questi processi noi siamo lontani anni luce: abbiamo un tasso di occupazione inferiore di venti punti rispetto a quello che è il punto di riferimento della comunità europea, che è il 70% (ossia 70 persone che lavorano su cento che potrebbero farlo): noi siamo solo al 55%. Anche la componente femminile da noi è ancora troppo bassa: con il nostro indice del 42% siamo distanti di 30 punti rispetto al 60% di media europea, e al 70% che dovrebbe essere il tasso di riferimento medio globale. Siamo l’unico mercato europeo che ha ancora un Sud, cioè che ha ancora questo tipo di squilibrio. I nostri anziani partecipano poco al mercato del lavoro, e stiamo parlando di lavoratori che hanno in media 55 anni… io a quell’età ci arriverò fra cinque anni, ma se mi chiamate ‘anziano’ o ‘pensionato’ mi incavolo! Perché non è possibile pensare di alienare cervelli ed esperienze in maniera così assurda! E questi cambiamenti sono in corso nella società civile molto più di quanto l’abbiano recepito i regolatori, istituzionali o no che siano. Le donne stanno rientrando nel mercato del lavoro italiano, e noi però continuiamo a pensare che una persona di 55 anni sia da mandare in pensione… Quando dico ‘noi’ sto pensando non solo a noi riformisti delle organizzazioni sociali, parlo anche degli imprenditori che hanno ancora questo tipo di approccio, per carità! Perché è un approccio culturale, questo qui, non è solo un approccio di coloro che devono farsi carico dei problemi sociali.
In Italia siamo lontani dagli obiettivi: abbiamo una bassa qualità dei servizi, investiamo male in formazione, in politiche attive, abbiamo una bassa componente di flessibilità, siamo il Paese che ha meno lavoratori atipici di tutta l’Europa, nonostante tutti parlino di precarizzazione. E questo è uno dei motivi per cui abbiamo poco part-time e partecipano poco le donne: perché hanno pochi servizi, cioè si investe poco nella rete di tutela ‘reale’, non teorico-normativa. Affrontiamo i problemi della disuguaglianza con la centralizzazione salariale, con un welfare tutto concentrato sulle pensioni, con sistemi formativi ridicoli: il retaggio italiano è il retaggio corporativo.
Lo dico ai miei amici del sindacato, da dove provengo io stesso: questi problemi non si affrontano con la logica corporativa degli interessi segmentati (in cui qualcuno ha la cassa integrazione, qualcun altro non può essere licenziato dal pubblico impiego, qualcun altro invece si arrangia perché non ha la rappresentanza); questi problemi si affrontano con la logica e con la capacità di organizzare gli interessi generali, di inquadrare il futuro e governare questi processi. E’ questo il problema italiano: serve arrivare a una flessibilità regolata, bisogna far crescere le opportunità, non lavorare per difendere quel poco che è rimasto, ma far crescere le opportunità di lavoro e organizzare un sistema sociale ben articolato dal punto di vista regolamentare.
La legge Biagi è il primo vero, radicale tentativo di portare il nostro Paese in questa direzione, e con un intervento anche massiccio di innovazioni, tale da portare la normativa (non i comportamenti, ché ci vorrà tempo per arrivare ai comportamenti) al miglior livello di innovazione europea. Sui comportamenti, come dicevo, bisogna ancora lavorare per capire cosa realmente ostacola il riformismo.
Ancora due riflessioni: perché in Italia non si riesce a dare a questi straordinari cambiamenti una regolamentazione istituzionale e sociale adeguata? Partiamo dal presupposto che c’è una tradizione istituzionale democratica consolidata (almeno su questo pensiamo di esserci arrivati), che i sindacati sono forti, che c’è una organizzazione di società civile abbondante (di cui fa parte anche il MCL), che è uno dei Paesi in cui non mancano le reti di solidarietà, che c’è ancora una tenuta del sistema ecclesiale di grande portata… allora perché non si riesce?
Qui c’è un problema culturale di fondo che dobbiamo affrontare, e di cui accennavo all’inizio: ci sono due modi di analizzare le cose. C’è chi pensa che tutto quello che sta capitando sia il prodotto di una sorta di ‘grande fratello’ neo-capitalista, cui bisogna opporsi facendo l’alleanza con i fratelli islamici. Sì, perché c’è anche chi pensa, da sinistra, che si possono fare le alleanze coi fratelli islamici e che il terrorismo di radicalismo religioso sia una forma di lotta al neo-capitalismo internazionale… e questa non è una minoranza, in Italia è una componente diffusa, e lo vedete nelle televisioni… Poi naturalmente c’è chi lo dice, come il Casarini che raccoglie i 10 euro per la solidarietà ai fratelli islamici, e c’è chi invece dice che “sì, quelli lì forse sbagliano, però ci sono delle ragioni”, perché “sono patrioti” e “Osama Bin Laden, in fin dei conti, è una vittima di questa ristrutturazione che dà risposte sbagliate!”. Cioè: non è il frutto, la malattia del sistema, è uno dei metodi sbagliati per combatterlo! E guardate che questa componente è molto diffusa nella nostra società: è la componente di coloro che pensano che la ristrutturazione si faccia attraverso un semplice allargamento dei diritti, cioè ritengono che una società sia indistintamente una sommatoria di diritti, per cui l’attacco ai diritti è ovviamente un attacco che proviene dagli alleati del filo-capitalismo (in cui poi mettono tutta una trafila di rivali e traditori).
Biagi? E’ morto per questo, per questo modo di concepire le cose! La società moderna è intesa come una società di diritti, non di gente responsabile che ai diritti accompagna i doveri ed è partecipe e attiva alla costruzione di una società civile. Per cui chi parla di riforma delle pensioni e dice che forse bisognerà dare una mano agli anziani cronici, anziché mandare la gente in pensione a 55 anni, è una specie di ‘nemico della classe operaia’ che va subito additato e portato in piazza.
Certo, si può anche discutere se certe scelte siano giuste o meno, perché la vera indole riformista non è fare l’ideologia del riformismo, ma è sapere che si può anche sbagliare; ma proprio perché noi sappiamo che possiamo sbagliare abbiamo deciso di tentare e non abbiamo la pretesa di insegnare o di fare l’ideologia delle cose che diciamo. Diciamo solamente che siamo uomini impegnati socialmente e che hanno il proposito di portare il rapporto tra efficienza, giustizia e solidarietà a livelli più avanzati. Poi può essere che sbagliamo, perché tentiamo di andare in quella direzione e non abbiamo la verità in tasca… Ma l’ideologia anti-riformista è radicale nel nostro Paese: ha ostilità verso il contratto, cioè preferisce la legge, preferisce le soluzioni autoritarie, ha una visione negativa dell’uomo, fino addirittura a considerare i sindacati stessi come un problema (cioè i sindacati che devono organizzare i servizi al lavoro per far incontrare domanda e offerta sono pericolosi). Esiste insomma una visione autoritaria del governo della società civile che torna sempre: ed è data da quelle componenti che fanno di tutti i cambiamenti una motivazione di ideologia.
Noi siamo invece perché si lavori ‘verso’ le persone, non perché si teorizzi il cambiamento ma lo si faccia invece vivere nei risultati, non solo nelle formule. E quindi per noi fa testo quello che si riesce a fare in positivo per ritrovare nuovi equilibri di efficienza e solidarietà.
Ci sono poi delle cose inaccettabili: guardate, quando ci sono dei cambiamenti, in tutto il mondo sviluppato ci sono le reazioni, anche nei Paesi che non hanno una tradizione ideologica. Anche in Francia si è visto che cosa hanno fatto contro il tentativo di equiparare le pensioni tra lavoratori pubblici e privati: ci sono state manifestazioni, hanno bloccato la città… ma è persino ovvio che ci siano queste cose. Ma la differenza tra noi e loro sapete qual è? Che qui in Italia c’è una tendenza a identificare il corporativismo con l’ideologia. Ossia: chi fa la battaglia per difendere i suoi interessi non lo dice che lo fa per difendere i suoi interessi, dice sempre che lo fa in nome e per conto degli altri. Per cui diventano i ‘rappresentanti dell’interesse generale’. Essendo loro i rappresentanti dell’interesse generale, tutti gli altri, ovviamente, diventano i ‘nemici’ dell’interesse generale. Questi detentori dell’ideologia vera e giusta che, unica, può cambiare il nostro Paese, ovviamente sono i soli che, quando questa dimostra di fallire, possono dire come e quando ha fallito, salvo poi cancellare la storia! Il libro di Pansa sui morti del dopoguerra è esemplare, e dimentica comunque una cosa: che di quei morti una buona fetta non erano fascisti, ma erano quelli del nostro mondo che, ovviamente, siccome sono ancora in giro come componente culturale, non hanno neanche la possibilità di essere citati con la loro dignità. Eppure quelli si sono battuti per la democrazia, salvando anche loro!
Questa è la verità del nostro Paese, e il motivo per cui il nostro Paese è indietro nei processi di cambiamento è esattamente questo: sinché non si affronta fino in fondo questo male tutto italiano, che è il male legato alla componente culturale ideologica ostile e conservatrice verso qualsiasi tentativo di riforma esistente, io credo che il nostro Paese avrà molte difficoltà ad agganciare il terreno dello sviluppo e della solidarietà sfruttando le occasioni che ci dà il mondo moderno.
Grazie.



            
PROF. MICHELE TIRABOSCHI
Direttore del Centro Studi Internazionali e Comparati ‘Marco Biagi’

Vi ringrazio per l’invito. Io sono un tecnico, sono un giurista, però oggi sono qui per dare una testimonianza, soprattutto. Testimonianza, come avete indicato nel programma, di un impegno di cattolici e lo dico al plurale perché io sono cattolico, ma soprattutto Marco Biagi era un cattolico, un riformista. Quindi cattolici per un progetto comune, e il progetto è quello di riforma del nostro mercato del lavoro.
In genere non esordisco in questo modo, ma questa è una fase molto delicata: abbiamo una riforma del mercato del lavoro recentissima, approvata lo scorso 31 luglio ed entrata in vigore il 24 ottobre. Mi sono sempre sforzato di accompagnare questa riforma sul piano tecnico nel merito: ma c’è troppa ideologia, ci sono troppe polemiche, c’è troppa esasperazione sul tema del mercato del lavoro. Ho sempre cercato quindi con i fatti, analizzando articolo per articolo, norma per norma, la bontà di un progetto che, come ci diceva prima Natale Forlani, è un tentativo di sperimentare, non è un percorso chiuso, definitivo. E’ un percorso invece ‘aperto’, e questa è la prima grande novità e difficoltà di questa riforma rispetto alle precedenti normative sul mercato del lavoro. Penso in particolare allo Statuto dei Lavoratori: una legge, la n° 300 del 1970, che chiudeva un ciclo, dove c’era il legislatore che ratificava i risultati di una stagione di conquiste sindacali.
Qui invece la riforma del mercato del lavoro pensata e progettata da Marco Biagi, apre un ciclo: il legislatore non chiude, non dice la parola definitiva in forma autoritaria o con autorevolezza (dipende dai punti di vista) su cosa si deve fare nel mercato del lavoro. No: apre un processo, anzi porta avanti un processo con quella linea di continuità che ci dà l’orizzonte europeo.
E’ vero, ho apprezzato molto nella relazione introduttiva di Carlo Costalli, il fatto che viviamo in una fase di transizione, una fase di transizione che possiamo analizzare appunto da diversi settori - e quello del mercato del lavoro è uno dei più emblematici e indicativi -; e qui emerge soprattutto, al di là della difficoltà della tecnica normativa, una inadeguatezza del nostro bagaglio tecnico e analitico.
Io non so quanti di voi hanno avuto modo di imbattersi in questa riforma: una riforma complessa, 86 articoli, che prevedono una specificazione a livello di normativa secondaria, e quindi un intervento del Ministero del Lavoro, e poi anche normative regionali, in quell’ottica di federalismo auspicata, e ancora interventi della contrattazione collettiva. So però che su questa riforma pochi hanno avuto modo e tempo di analizzare nel concreto, con oggettività, le opportunità che contiene, e anche alcune lacune che invece devono essere colmate, appunto nell’ottica del progetto.
Di questa riforma purtroppo noi assistiamo ormai a una banalizzazione, per cui è la riforma sulla flessibilità per qualcuno (per chi vede in termini positivi la flessibilità) ed è una riforma chiaramente sulla precarietà (per chi legge la parola flessibilità in termini negativi), e quindi una riforma sulla mercificazione del lavoro, sulla segmentazione del processo produttivo.
Al di là di queste rappresentazioni polemiche – che poi si accompagnano l’una con l’altra perché più c’è enfasi sulla flessibilità più c’è, dalla parte opposta, enfasi sulla precarizzazione – io credo che questa riforma parli il vostro linguaggio.
Ho sentito nelle relazioni di questa mattina che al centro di tutto, la misura di tutto, è la persona: bene, la riforma Biagi pone al centro del mercato del lavoro la persona, la persona con i suoi bisogni, con la sua dignità, con la sua ricerca di un percorso di inserimento nel mercato del lavoro, di valorizzazione.
Tenete presente che è la prima volta che il legislatore definisce il lavoratore non solo come ‘colui che lavora’, che ha già un contratto, ma anche come colui che ‘cerca’ un lavoro. Questo significa aprire l’orizzonte del diritto del lavoro, delle regole e quindi delle tutele, anche a un’ampia fascia, un ampio segmento di persone, che oggi non sono tutelate; e non sono tutelate perché non hanno un contratto, oppure perché hanno un contratto ma questo è un contratto che l’ordinamento non riconosce, perché è un contratto di lavoro ‘nero’, irregolare.
Questo fenomeno veniva richiamato prima, nella presentazione di Natale Forlani, però va anche quantificato: oggi le rilevazioni empiriche ci dicono che il lavoro nero oscilla tra i 3 milioni e mezzo – 4 milioni (per qualcuno anche 5 milioni) di lavoratori completamente in nero, con tassi che sono 2-3-4 volte superiori a quelli presenti negli altri Paesi europei.
Natale prima ci diceva che abbiamo poca flessibilità. Noi invece abbiamo moltissima flessibilità: è quella del lavoro nero, dell’esercito dei collaboratori coordinati e continuativi di cui tutti parlano e di cui, però, nessuno si occupa per garantire loro adeguate tutele e adeguate protezioni (anche qui siamo intorno ai 2 milioni – 2,5 milioni di persone). C’è un esercito di persone che sono fuori da un mercato del lavoro regolare e di qualità.
Io avrei moltissime angolazioni di lettura, moltissime chiavi di lettura per presentarvi questa riforma, che penso sia una riforma che punta sulle pari opportunità, che punta sull’occupabilità, che punta anche su processi di flessibilità, ma intesi come adattabilità, e cioè una flessibilità regolata, normata, affidata alla contrattazione collettiva, non all’individualismo, non a quel rapporto bilaterale che spesso poi genera prevaricazione da parte del contraente più forte. Oppure può essere intesa anche in termini di nuova imprenditorialità, o ancora, sul piano più tecnico, come un tentativo di distribuire le tutele in maniera più equa, più giusta, più inclusiva. Queste son tutte le diverse chiavi di lettura che si possono offrire.
Io però penso che, semplicemente, questa riforma possa essere letta nella sua aspirazione antifraudolenta: occorre sanzionare gli abusi, sanzionare e reprimere le forme di flessibilità non regolata.
Come dice l’articolo di apertura di questa riforma “occorre costruire un mercato del lavoro regolare”, ossia un mercato che non c’è.
Apprezzo quell’invito, che tanto mi è caro, a costruire, a pensare a uno Statuto dei lavori, per tutti i lavori. Ma come si fa a costruire questo Statuto, se non sulla carta, se prima non si va ad aggredire il lavoro ‘nero’ e il lavoro ‘grigio’ delle collaborazioni coordinate e continuative? Sarebbe un’utopia: questo Marco Biagi l’ha capito subito. Ed è per questo che proprio Marco Biagi, che dal 1987 in quella linea di continuità stava lavorando con Tiziano Treu a un progetto di Statuto dei lavori, ha capito che il primo passaggio non poteva che essere questa riforma, e cioè cominciare a dare regole al mercato, regole certe. Occorre prima costruire il mercato, aggredire il fenomeno del lavoro nero, aggredire le collaborazioni fittizie.
Quante polemiche oggi su questa riforma… quante polemiche, sia a destra che a sinistra, sulla nuova regolamentazione delle collaborazioni coordinate e continuative! Probabilmente tante polemiche perché nessuno ha letto il testo, o perché nessuno forse ha veramente a cuore un progetto inclusivo del mercato del lavoro, un progetto inclusivo dello Statuto dei lavori.
Le tutele vanno date alle persone che hanno bisogno di tutele. Non è più il tempo di formalismi: se sei un lavoratore dipendente hai certe tutele, se sei un autonomo altre, se sei un collaboratore nessuna, e poi c’è il lavoro nero che consente di introdurre quella flessibilità che il sistema richiede e di cui ha bisogno. No: qui la riforma, ed è questa la chiave di lettura, è un tentativo molto forte che va in quella strada della partecipazione a cui vi siete richiamati, per creare delle forme di collaborazione fra le esigenze della competizione e le esigenze della giustizia sociale: è un tentativo di trovare quel giusto equilibrio tra questi due profili. Perché se l’impresa è forte, se l’impresa va bene, dà sicuramente occasioni di occupazione ai lavoratori.
Chiaramente occorre che l’impresa faccia le sue scelte decisive non come ha fatto fino ad oggi, rincorrendo altri Paesi e altre economie sul minor costo del lavoro; no, la competizione va fatta sulla persona, sull’investimento nella persona.
Noi oggi usiamo spesso termini ricorrenti come: la ‘nuova economia’, ‘l’economia dell’informazione e della conoscenza’, ma cos’è quest’economia? E’ un’economia in cui la persona è il motore dell’innovazione e del cambiamento; occorre quindi dare strumenti affinché le imprese abbiano la forza di investire sulle persone, e il primo passaggio non può che essere quello di condurre, di canalizzare queste persone dai mercati secondari, dai mercati neri o grigi, verso mercati tutelati, protetti. Per questo allora è meglio un contratto a termine di un lavoro grigio, di un lavoro precario o di una collaborazione. Non è un tentativo, come molti hanno detto, di andare ancora una volta a smantellare le tutele dei rapporti di lavoro stabili, continuativi, della garanzia del posto fisso. Però è chiaro che il posto fisso è tale non perché è scritto sulla carta; certo, occorre anche questo, ma il posto fisso è davvero tale se il lavoratore è messo nelle condizioni di offrire prestazioni di qualità, intense, se c’è un processo formativo che consente veramente al lavoratore di rimanere nel posto di lavoro.
Vorrei fare qualche esempio concreto: la riforma interviene sul contratto di formazione-lavoro, o meglio elimina il contratto di formazione-lavoro, perché abbiamo verificato che questo nella realtà è un contratto di lavoro senza formazione. Non solo: è un contratto di formazione fittizia che incentiva le imprese, che paga le imprese per assumere i migliori, ossia i giovani… veramente è importante che le imprese assumano i giovani, ma se le imprese assumono i giovani perché hanno l’incentivo, è chiaro allora che questo meccanismo funziona da barriera per chi invece ha realmente bisogno di un incentivo, ossia per quei lavoratori di cui parlava prima Natale Forlani: non gli anziani ma gli over 45, gli over 50, gli esclusi dai processi produttivi, e le donne che vogliono rientrare nel mercato del lavoro e non riescono a rientrarci. Chiaro che se le imprese sono incentivate ad assumere chi avrebbero ugualmente assunto, è evidente che non andranno ad assumere in queste altre fasce che sono le più deboli, e questo allora diventa un effetto di ‘cannibalizzazione’ che deriva dall’incentivo. Allora la soluzione più semplice è stata quella di ‘aprire’ sui contratti flessibili a termine (perché quello di formazione-lavoro era sostanzialmente un contratto a termine), e di riservare le risorse economiche invece, gli incentivi economici, per progetti mirati di inserimento, per contratti di inserimento destinati ai soggetti svantaggiati. Su questo terreno c’è spazio per il confronto.
Vi segnalo, ma probabilmente già lo saprete, che c’è già un primo accordo all’ILVA su questo nuovo contratto di inserimento, che rimpiazza il contratto di formazione-lavoro, firmato dalla FIOM-CGIL assieme ad altre sigle; questo a dimostrazione che quando poi si va nel merito ci si accorge che questa riforma contiene delle enormi potenzialità. Che quando prevalgono le ragioni del dialogo, quando prevalgono le esigenze delle singole persone, è facile vedere come le norme non sono né buone né cattive: non era cattivo il vecchio diritto del lavoro, non è buono o cattivo questo nuovo diritto.
La centralità della persona non è solo nelle tutele; la centralità della persona significa anche guidare i processi di cambiamento. Sono le persone, non le leggi, che guidano le riforme. Per questo sono importanti quegli uomini che si impegnano per un progetto comune, condiviso: perché le riforme – l’ha spiegato benissimo Natale Forlani – hanno bisogno di un clima culturale favorevole. La transizione crea confusione: se ci manca un bagaglio analitico, intellettuale e culturale adeguato la transizione ci travolge. Non solo, noi oggi, in questa fase di transizione, stiamo entrando in quello che i giuristi chiamano ‘diritto transitorio’: la riforma è graduale, non tutto è subito operativo. I tempi della riforma, del passaggio dal vecchio al nuovo diritto, il passaggio quindi alle novità che sono contenute nella riforma, il Governo lo ha affidato, nell’articolo di chiusura del decreto, alle parti sociali. E anche qui, le parti sociali, tutte le parti sociali - anche la CGIL -, recentemente hanno firmato un primo accordo interconfederale di transizione sui contratti, sulla sorte dei contratti di formazione-lavoro: un accordo in cui si dice espressamente (ma sarebbe bello leggerlo) che tutte le parti firmatarie prendono atto delle opportunità, delle potenzialità che ha questa riforma e che, quindi, disciplinato il contratto di formazione-lavoro, intendono portare avanti un dialogo per dare attuazione immediata e concreta a tutti i profili che sono contenuti in questa riforma.
Una riforma, quindi, che ha le caratteristiche della sperimentazione: sono tutte norme aperte, la delega è aperta ancora per 24 mesi… se ci sono problemi, zone di criticità, è possibile intervenire a livello normativo con delle modifiche ma, soprattutto, oltre a essere sperimentale, è una normativa aperta. Esistono – si dice sempre – 46 rinvii alla contrattazione collettiva: non è vero, sono molti di più, perché esistono 43 rinvii a livello nazionale che poi diventano 43 rinvii sul territorio, che quindi vanno moltiplicati per le Regioni, per le Province, per le città. Non dimentichiamoci che questa riforma nasce dal Libro Bianco, ma prima ancora nasce dal Patto di Milano sull’occupazione, un primo tentativo di governare il cambiamento sul territorio, laddove esiste tutta una rete di relazioni.
Noi pensiamo a un diritto che non toglie le tutele nel rapporto per metterle sul mercato, ma che affianca alle tutele nel rapporto le tutele sul mercato. Il mercato non sta nell'azienda, non sta nella categoria: sta sul territorio, il mercato, e quindi occorre avere delle sedi di dialogo sul territorio. Non è un tentativo di scardinare la gerarchia delle fonti degli assetti contrattuali, ma un tentativo di sostenere gli assetti contrattuali nelle aziende, creando dei contesti in cui le regole che abbiamo possano essere declinate sul territorio. Per esempio, ci sta a cuore il Mezzogiorno? E’ chiaro che le regole che si applicano a Milano o a Treviso devono essere diverse per far fronte ai problemi del nostro Mezzogiorno.
Io non ho molto tempo per cercare di argomentare ulteriormente sulle opportunità, e lo dico con serenità: la riforma non è buona né cattiva, ripeto, dipende dalle persone se avrà successo, questa riforma.
E mancano ancora dei pezzi importanti: manca la parte sugli incentivi all’occupazione, manca la parte sugli ammortizzatori, sta per essere approvato il decreto sui servizi ispettivi, abbiamo poi lo scenario dello Statuto dei lavori… certo, è un processo in cui ci sono anche delle zone di criticità, ma queste possono essere superate solo attraverso l’azione concreta, la sperimentazione. Abbiamo tutto il tempo per sperimentare e poi per verificare la bontà di queste riforme; ma non si può attaccare e criticare questa riforma appena nata, che è delicata, che ha come obiettivo quello di superare questo dualismo del nostro mercato del lavoro, subito, senza averla prima messa alla prova.
L’elemento importante, il messaggio importante, la testimonianza di cui volevo parlare, innanzi tutto è che dietro questo progetto c’è un atteggiamento di fiducia nei confronti dei cambiamenti. C’è un atteggiamento da parte di chi ha progettato questa riforma, che guarda con ottimismo al cambiamento proprio perché crede nella persona, perché pensa che la persona abbia aspetti positivi e negativi, ma si può lavorare sugli aspetti positivi. Questo chiaramente solo se c’è un concorso di tutti, e quindi la testimonianza, l’impegno, non è solo quello di dare un’indicazione al cambiamento in atto, ma un impegno concreto - mio personale e chiaramente di tutte le altre persone, come di Natale Forlani, come di tutti coloro che ci hanno aiutato in concorso a creare questa riforma – a dialogare con voi. Perché occorre ascoltare tutti; non è facile per i tecnici, per chi utilizza un linguaggio formale dialogare con gli operatori, ma è fondamentale.
Marco Biagi è stato uno dei primi giuristi ad andare al di là del suo ruolo di perfetto interprete di un dato tecnico che rimane sulla carta: guardava le leggi ma guardava anche la realtà, guardava questo mercato che non funzionava, guardava le criticità di questo mercato. E questo fu possibile solo appunto perché si andava al di là del ‘dover essere’ giuridico, si guardava la realtà; e per guardare la realtà non si può che partire dal dialogo con tutti e, specialmente, dal dialogo con chi sta in sintonia. La riforma Biagi è in sintonia con voi perché anche per la riforma Biagi la persona è la misura di tutto.
Grazie.




ON. PIER FERDINANDO CASINI
Presidente della Camera dei Deputati



Desidero ringraziare il presidente del Movimento Cristiano Lavoratori, Carlo Costalli, per avermi invitato a prendere parte alla Conferenza odierna; saluto le autorità presenti e tutti gli intervenuti.
La Conferenza programmatica del Movimento si svolge in una fase assai delicata: la società e le istituzioni europee sono prossime a un cambiamento epocale. E’ questo un dato di fatto, di cui tutti devono essere pienamente consapevoli.
Ma prima di addentrarmi nel tema del Convegno odierno, vorrei rivolgere un grazie alla dirigenza del Movimento Cristiano Lavoratori ed al suo presidente per la costanza e l’impegno con cui in questi anni hanno assunto anche posizioni impopolari nella società italiana. L’impopolarità è a volte uno scotto da pagare per affermare le proprie idee e, d’altra parte, un tono di anticonformismo nella presenza dei movimenti coincide con più pluralismo culturale e sociale.
Collego a questa testimonianza del MCL l’evento cui Di Matteo si è richiamato nell’introdurmi: la bella giornata che abbiamo avuto qualche settimana fa, assieme, a San Giovanni in Persiceto, nel ricordare uno dei grandi martiri della ricostruzione democratica dell’Italia, Giuseppe Fanin. Non è stato facile ricordarlo in solitudine negli anni passati; è stato bello commemorarlo oggi in presenza di tanti.
Quando il percorso era solitario, quando l’oblio era sceso su una delle pagine importanti della storia nazionale, nel triangolo rosso dell’Emilia Romagna, il Movimento Cristiano Lavoratori assieme a pochi altri, era lì a testimoniare, anche in solitudine, che quei nomi e quegli uomini non potevano essere dimenticati. Questa è la grande forza che vi deve essere riconosciuta.
Dicevo che è una fase particolare della vita della nostra storia europea.
Al termine dei lavori della Conferenza intergovernativa, potremo infatti salutare il definitivo compimento del passaggio da una Comunità con finalità prevalentemente economiche e commerciali ad una Unione come soggetto politico.
Nell’Europa riunificata, la logica della libera esplicazione delle dinamiche economiche, che tanta parte ha svolto nel riavvicinamento dell’Europa devastata dalla seconda guerra mondiale, troverà alla sua base un sistema di valori che contribuirà a orientarne l’azione: sono i valori della persona umana.
E’ questo il senso profondo dell’incorporazione della Carta dei diritti fondamentali nel testo del progetto di Trattato, come anche dell’utilizzo, per la prima volta in un atto dell’Unione, della parola Costituzione. Ogni discorso serio sull’Europa riunificata non potrà partire se non da quel nucleo di valori comuni, che vede nella dignità dell’uomo il suo centro di gravità.
E’ questa la ragione profonda della richiesta, più volte perorata anche dal Santo Padre, di inserire nella Costituzione europea un riferimento alle sue radici giudaico-cristiane. La laicità della sfera politica è patrimonio di tutti ed è ovviamente fuori discussione. Si tratta di qualcosa di più profondo: riconoscere la nostra identità, professando senza timori una verità che è fatta di inclusione e di apertura.
La Domenica è festa: perché la Domenica, se non ci fosse in tutti noi il senso profondo di chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare? Noi siamo questo, non qualcos’altro.
Nel momento in cui apriamo la nostra società all’inclusione della diversità, in un momento in cui ci predisponiamo con grande sensibilità verso gli altri al dialogo interreligioso, e proclamiamo la dignità di tutte le religioni, anche quelle diverse dalla nostra, dobbiamo avere però chiara la consapevolezza che per confrontarci con gli altri non possiamo smarrire la consapevolezza di quello che è il nostro passato, di quella che è la nostra identità.
Perché qui non si tratta di vincere o di perdere, amici del MCL. Ma se non vogliamo che la nostra società venga sommersa da un relativismo, da un indifferentismo, da una sorta di confusione generalizzata di identità e di linguaggio, noi dobbiamo proclamare laicamente - senza orgoglio e un malinteso senso di fierezza, ma con la consapevolezza di quello che siamo -, noi dobbiamo affermare fortemente le nostre radici.
Ecco perché io mi rifiuto di pensare che il richiamo alle origini cristiane dell’Europa sia un problema che deve vedere divise le forze politiche italiane: non mi rassegno a questo, non voglio che questo succeda, è sbagliato che succeda. Io credo laicamente che anche chi non ha il dono della fede, anche chi è distante dalla tradizionale impostazione democratica cristiana, deve laicamente riconoscere il valore di una radice cristiana che è patrimonio comune di tutti i partiti, di tutte le forze politiche, ma prima ancora è patrimonio comune di tutti gli italiani.
La piena realizzazione dei valori dell’uomo è del resto una guida sicura in questo nostro tempo, che ci pone di fronte a scelte difficili, imposte dalla dimensione globalizzata dell’economia e dalla velocità dei suoi processi.
Il mondo del lavoro gioca in questo quadro un ruolo strategico: nella possibilità di svolgere un’attività lavorativa, qualificante e conforme alle proprie propensioni, sta uno dei principali fattori di coesione della società civile. Nelle comunità che si formano nei luoghi di lavoro sta uno dei principali ‘motori’ della realizzazione della persona umana.
In questa direzione, nel corso degli ultimi anni il Parlamento ha posto alcune premesse importanti, che ora è necessario portare a compimento. Penso in primo luogo all’approvazione della ‘legge Biagi’, che ha tradotto in regole giuridiche il pensiero di autentico riformista del professor Marco Biagi, cui va il nostro pensiero commosso e riconoscente.
Egli ha sempre operato con senso delle istituzioni per un obiettivo: garantire la flessibilità nel mercato del lavoro evitando nel contempo che essa si trasformasse in precarietà, e dunque in un fattore di esclusione sociale. Sono convinto che l’attuazione della legge che porta il suo nome potrà aprire importanti prospettive per i problemi occupazionali del nostro Paese, laddove si tenga fede con rigore ai suoi motivi ispiratori ed alla sua logica di valorizzazione delle capacità degli individui.
Ma sulla via di una società solidale, in grado di rispondere alle domande più complesse dell’uomo, un caposaldo di grande carica innovativa è costituito dal principio di sussidiarietà, oggi espressamente sancito dalla nostra Carta costituzionale a seguito della recente modifica del suo Titolo V.
La piena attuazione di quel principio – che ha trovato compiuta espressione nell’insegnamento della Chiesa – costituisce oggi un’occasione straordinaria, che non possiamo permetterci il lusso di perdere.
La capacità espansiva della logica della sussidiarietà, intesa soprattutto in senso orizzontale, costituisce infatti una leva strategica per rilanciare la competitività del nostro Paese e per guidare in maniera sostenibile il futuro del nostro sistema di welfare.
Abbiamo oggi la possibilità di mettere in moto un circuito virtuoso in cui, allo spostamento di attività dal pubblico al privato, possa corrispondere un più razionale utilizzo delle risorse dei cittadini e un miglioramento della qualità dei servizi loro erogati e, dunque, della stessa qualità della loro vita.
La Camera dei deputati, solo pochi giorni fa, ha approvato – di fatto all’unanimità – il disegno di legge sulla disciplina dell’impresa sociale, che potrà costituire un volano decisivo per l’attuazione del principio di sussidiarietà. E’ un segno importante dell’attenzione delle istituzioni per le potenzialità insite in quel principio: se riusciremo a investire su di esso con convinzione oggi, avremo garantito un domani migliore alle generazioni che ci seguiranno.
In questa profonda trasformazione, noi cattolici abbiamo una responsabilità importante e, insieme, un compito molto più complesso: dobbiamo essere sempre vigili affinché non si retroceda dalle conquiste della giustizia sociale, evitando al contempo di ritrovarci imprigionati nella logica dell’assistenzialismo.
Lo Stato sociale, che garantisce a tutti indistintamente le stesse prestazioni, tradisce se stesso e viene meno al compito fondamentale che ne costituisce la ragion d’essere. Ciò che conta è dare aiuto a chi ne ha veramente bisogno: è questo il discrimine che passa tra spesa sociale e spesa assistenziale, e che guida nella vera realizzazione della dignità della persona umana; è un tema all’ordine del giorno, ovunque. E’ una grande questione che voi avete posto al centro di questo Congresso, e che non a caso è al centro del Congresso dei democratici cristiani tedeschi a cui parteciperò lunedì mattina a Lipsia. E’ esattamente la stessa questione: come preservare i temi della solidarietà e della sussidiarietà evitando le degenerazioni assistenziali che purtroppo hanno portato al debito pubblico delle società europee e che, in prospettiva, non ci consentono di avere quell’equilibrio tra generazioni che è un tema ineludibile.
I cattolici sanno anche che questa dignità non si esaurisce nella dimensione professionale, ma si attua in ambiti – come quelli della famiglia, della comunità religiosa, della dimensione della preghiera e dell’ascolto – che ne permettono una crescita profonda.
La riforma della previdenza e delle pensioni nasce da questa esigenza, perché il grande rischio che la nostra generazione ha di fronte è che i nostri figli ci rimproverino un domani di avere messo in moto un meccanismo di solidarietà che a noi dà dieci, e a loro, inevitabilmente, non potrà che dare due: perché il meccanismo, così com’è concertato, non potrà reggere.
I cattolici sanno anche che questa dignità non si esaurisce nella dimensione professionale, ma si attua in ambiti, come quello della famiglia, della comunità religiosa, della dimensione della preghiera e dell’ascolto, che ne permettono una crescita profonda.
In questo senso la vostra iniziativa per tutelare il valore della domenica e per rivendicare tempi comuni di festa e di riflessione al di fuori dell’impegno lavorativo trova alla sua base ragioni di grande valore. Da ultimo, lo stesso Santo Padre, nell’enciclica Ecclesia in Europa, ci ha ricordato l’esigenza di salvaguardare il valore della domenica come “giorno per l’uomo, a vantaggio dell’intera società”.
Per questo sarà mia cura trasmettere il vostro appello e le firme che lo accompagnano alla Commissione parlamentare competente, in modo da consentire ai gruppi parlamentari di svolgere le valutazioni politiche loro spettanti. E’ mio vivo auspicio che possa seguirne un dibattito alto e approfondito a beneficio dell’istituzione ma, soprattutto, di tutti i cittadini.
Caro Costalli, grazie per l’invito e per questa iniziativa.
Auguro a te e al Mcl di continuare ad essere quella voce libera e autentica che rende più viva e forte la società italiana.
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