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  Il dramma delle "morti bianche"

Data di pubblicazione: Domenica, 17 Giugno 2007

TRAGUARDI SOCIALI / n.26 Maggio / Giugno 2007 :: Il dramma delle "morti bianche"

Morire di lavoro


IL DRAMMA DELLE ‘MORTI BIANCHE’
MORIRE DI LAVORO


       Morire di lavoro, morire al lavoro. Troppe persone ci rimettono la vita ogni anno, ogni giorno, mentre svolgono la loro attività professionale. Talmente tante da far sorgere più di un interrogativo sulle reali condizioni di lavoro nel nostro Paese.

       In questi mesi, contro le stragi bianche si sono levate tante voci, quella del capo dello Stato Napolitano, della Chiesa, di molti uomini politici e sindacalisti. Ma i morti restano, e anche le bugie, le omissioni su un fenomeno troppo grave per non nascondere gravi manchevolezze a ogni livello.

       Il livello più importante a nostro avviso è quello della dignità del lavoro, calpestata e vilipesa in nome dei bilanci e del profitto. Gli uomini e le donne risultano troppo spesso ridotti al rango prediletto della cultura materialista e marxista, cioè quello di produttori di qualcosa, di macchine umane addette a un compito. E se sono produttori e macchine, invece che esseri umani, molti datori di lavoro non si fanno scrupoli a trattarli con poco rispetto e ad aver poca cura della sicurezza della loro vita e della loro salute.

       Ma in questa scarsa dignità del lavoro siamo coinvolti tutti, e non solo gli operatori di alcuni settori (industria pesante, edilizia, chimica, radiologia, ecc.) che per definizione sono più a rischio di danni fisici. La dignità del lavoro comincia spesso a essere vilipesa in luoghi assai vicini a noi, dove non viene riconosciuta al lavoratore la giusta retribuzione; dove non vengono pagati i contributi pensionistici; dove si fa risultare erogata una retribuzione che non corrisponde a quella reale; dove non si riconoscono gli orari straordinari; dove la professionalità è sottomessa alla politica e al servilismo; dove si costringe il dipendente a lavorare anche la domenica senza che ve ne sia alcuna reale necessità, allontanandolo dal giusto riposo e dalla famiglia; dove c’è il ricatto, e quanti ricatti!

      Tutto questo uccide le regole e la sacralità del lavoro. Come meravigliarsi dunque se poi ogni giorno tre o quattro o cinque persone che non hanno più nemmeno l’onore delle cronache giornalistiche, dopo una giornata di lavoro non tornano più alle loro case e famiglie, ma se ne stanno distese in un obitorio o sul lettino di un ospedale? Se fin dagli elementi più semplici, e sindacalmente controllabili, le regole di dignità e giustizia del lavoro vengono violate, nulla può poi arginare le regole più complesse, quelle che per essere rispettate costano al datore di lavoro anche investimenti in denaro e quindi minori guadagni.

       A volte si legge sui giornali di lavoratori, spesso immigrati, morti il primo giorno di lavoro. Generalmente accade nell’edilizia, ma anche in agricoltura e nei trasporti marittimi. Ma è una bugia, nemmeno tanto pietosa. Una bugia incredibile, che colpisce ancora di più la sfortunata storia di chi ci ha rimesso la pelle. Una bugia che serve a distogliere l’attenzione da datori di lavoro senza scrupoli, che sfruttano per mesi e anni poveretti che hanno un disperato bisogno di lavorare, senza dare loro il giusto stipendio, e anzi tenendoli in nero, salvo poi discolparsi dicendo che il poverino di turno è morto al suo primo giorno di lavoro, per non dover rispondere alla giustizia di quella morte. Oggi è obbligatorio che l’assunzione di un dipendente venga regolarizzata prima che il rapporto di lavoro abbia inizio. Ma quanti morti ci sono voluti prima che si arrivasse a questo?

       Tornare al riconoscimento della sacralità del lavoro dunque è il primo passo per riacquistare responsabilità di fronte alla vita e alla sicurezza di chi lavora. Non è materia per pochi intimi e nemmeno ristretta al binomio datori di lavoro-sindacato. E’ una problematica che riguarda tutti, perché a tutti appartiene il compito di fare in modo che il lavoro di ognuno di noi sia davvero l’infinitesimale partecipazione all’opera della Creazione, e come tale trattata, tenendo a distanza le tentazioni padronali e tutti quei comportamenti che offuscano la libertà e la dignità di chi lavora; tentazioni e comportamenti la cui gravità, per i cristiani, è ancora maggiore che per gli altri.

       A poco servono invece le pur nobili intenzioni con le quali politicanti minori o sindacalisti in cerca di fortuna, periodicamente agitano la questione dei diritti del lavoro e del diritto alla sicurezza, per poi dimenticarsene nei mesi e negli anni successivi, come la cronaca italiana registra. Nell’aprile scorso per quasi una settimana i giornali e le televisioni si sono soffermati su quella che è apparsa ai più come una inquietante sequenza di morti bianche che ha suscitato anche la giusta e forte reazione del Presidente della Repubblica e il suo appello affinché quei sacrifici non siano inutili. Tuttavia, trascorsa quella settimana, l’emozione dei mass media, e quella dell’opinione pubblica è scemata. I più ottimisti e gli ingenui avranno pensato che non ci sono state più morti sul lavoro da quel giorno e che il fenomeno si è ridotto. E avranno tirato un sospiro di sollievo, come per dire che il brutto è passato. E allora lanciamo un sasso nella quiete di questo stagno: il 24 maggio, giorno in cui questo articolo è stato scritto, i morti sul lavoro in Italia sono stati 4, ma nessuno l’ha scritto sui giornali e nemmeno l’ha detto in tv. Ma quei 4 lavoratori non erano numeretti di una grande macchina da produzione, senza anima e senza volto, erano invece padri e mariti e fidanzati, avevano una famiglia di cui occuparsi, debiti da pagare e in qualche caso mutui da onorare, bambini piccoli da tirar su, e mille altre cose cui far fronte come ognuno di noi. Ma di loro non si è parlato, vittime oltre che della tragedia che ha rubato le loro vite, anche della sfortuna di morire nel giorno sbagliato.


Michele Giusti

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