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  Il mercato del lavoro migliora I cambiamenti già si vedono

Data di pubblicazione: Mercoledì, 23 Febbraio 2005

TRAGUARDI SOCIALI / n.14 Gennaio / Febbraio 2005 :: Il mercato del lavoro migliora I cambiamenti già si vedono

Intervista al prof. Michele Tiraboschi


Intervista al prof. Michele Tiraboschi


IL MERCATO DEL LAVORO MIGLIORA
I CAMBIAMENTI GIA' SI VEDONO


Il mercato del lavoro in Italia a poco più di un anno dalla Legge Biagi: qual è la situazione? Sono stati riscontrati cambiamenti in quanto a competitività, innovazione, sviluppo, occupazione?

       Marco Biagi era solito dire che il nostro è il peggior mercato del lavoro in Europa. Era confortato in questo non solo dalle statistiche ufficiali ma anche dai rapporti annuali sulla occupazione dell’UE. Ora, dopo la prima fase di applicazione della sua riforma, possiamo dire che qualcosa sta cambiando. Certo, la situazione non poteva cambiare da un momento all’altro. 4 milioni di lavoratori in nero e 2 milioni di collaboratori precari non si possono riportare alla legalità in poco tempo. I processi messi in atto dalla sua riforma richiedono tempo, forse anni. L’ISTAT segnala un incremento della occupazione stabile, una riduzione del precariato e del sommerso. Cresce anche il lavoro delle donne e delle fasce deboli. Ancora poco, certo, ma la strada imboccata è quella giusta.

Lo Statuto dei Lavori non è più solo un’idea, ma un progetto in cantiere: a che punto siamo?

       Già dopo il pacchetto Treu del 1997 si pensò di scrivere uno Statuto dei lavori. L’incarico venne affidato a Marco Biagi. Ma le novità della riforma Treu erano tali e tante che non si riuscì a mettere mano a un progetto complessivo di riforma del nostro diritto del lavoro. Lo stesso si può dire oggi, dopo una riforma ancora più complessa e ambiziosa come quella disegnata da Marco Biagi. Occorrerà ancora qualche anno per vedere realizzata l’idea di uno Statuto dei lavori. In una materia complessa e delicata come questa si deve procedere con gradualità. Ora occorre mettere a regime tutta la riforma Biagi, compresa la parte relativa ai servizi ispettivi e la lotta al sommerso e alle situazioni di illegalità. Poi occorrerà portare a regime la riforma dei sistemi di istruzione e formazione per realizzare un vero raccordo con il mondo del lavoro. Infine si dovrà procedere al nodo più problematico, rappresentato dalla riforma del sistema degli ammortizzatori sociali. Quando questo quadro sarà completato si sentirà necessariamente l’esigenza di costruire un quadro unitario e organico quale appunto è lo Statuto dei lavori.

E’ sempre più evidente che l’Italia ha uno stato sociale da riformare, sia sotto il profilo dei criteri di economicità che della qualità delle prestazioni. Quale è il suo parere in proposito?

       Dobbiamo attrezzarci per governare il futuro. La prospettiva da seguire è quella della società attiva, che vuole essere insieme più competitiva, perché attrezzata all’innovazione e al cambiamento, e anche più giusta perché inclusiva e sensibile alle esigenze della persona. Come ho cercato approfondire in un libro scritto a sei mani con Maurizio Sacconi e Paolo Reboani, il concetto di società attiva è il cuore della Strategia Europea per la occupazione varata dal Consiglio di Lussemburgo del 1997 e confermata dal Consiglio di Lisbona del 2002, con l’enfatico obiettivo di realizzare – entro il 2010 – l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale. In realtà i Paesi europei hanno seguito poco e male le indicazioni di quel percorso virtuoso e ora, nel contesto di una evidente ripresa della economia globale, crescono ben al di sotto delle loro potenzialità. Essi sono nel mezzo di una tenaglia competitiva che li oppone sempre più debolmente alle dinamiche economie asiatiche, da un lato, e alle innovative società anglosassoni, dall’altro. Gli stessi Paesi recentemente entrati nell’UE appaiono più capaci di reagire ai nuovi impulsi competitivi. L’Italia presenta ritardi cronici che ne fanno il Paese con il più marcato processo di invecchiamento e la più bassa dotazione di capitale umano. Non mancano indicatori di vitalità, quali la diffusa propensione all’ imprenditorialità e al volontariato e una imponente economia sommersa che deve però essere ricondotta lungo i binari della legalità. La via da seguire è quella di un riformismo di matrice cattolica in cui i paradigmi dello sviluppo economico e dello sviluppo sociale tendono a convergere nella valorizzazione della persona. Questo significa attivare politiche di breve e medio periodo rivolte al riequilibrio demografico e al sostegno della famiglia, alla qualificazione dei flussi migratori, all’incremento drastico dei tassi di occupazione regolare, allo sviluppo di reali percorsi di formazione e di apprendimento continuo lungo l’arco della vita, alla sostenibilità del sistema previdenziale e alla riqualificazione della spesa pubblica in incentivi e ammortizzatori sociali secondo una logica di workfare.

Progettare per modernizzare è un’esigenza direi quasi imprescindibile nella società di oggi: spesso però le nuove idee e le pianificazioni si scontrano con un muro di veti e di pregiudiziali di stampo ideologico. A suo parere si tratta di un ostacolo superabile? E come?

       Progettare per modernizzare è il motto di Marco Biagi. Lo stesso Biagi ci diceva che ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando anche prezzi alti alla conflittualità. Occorre avere il coraggio di riformare anche in un Paese come il nostro abituato a cambiare tutto perché nulla cambi. Per fare questo non vedo altra strada che il dialogo. Un dialogo che deve però essere autentico, entrare nel merito delle questioni e lontano da logiche di appartenenza. Questo è nell’interesse di tutti perché mentre noi discutiamo e poniamo veti ideologici il mondo si muove e presto staremo ai margini dei processi economici che oramai vengono governati su scala sopranazionale. Va abbandonata la prospettiva provincialistica che ci ha sempre danneggiato.

Tra i nuovi scenari che si prospettano nella società italiana, alle prese con questioni delicate di equilibrio fra regole e conflitti, quale ruolo può svolgere il sindacato?

       Il sindacato ha il compito più difficile e per questo vanno sostenuti quei sindacalisti riformisti che non vivono alla giornata, nella conservazione dell’esistente, ma che invece hanno a cuore il futuro dei lavoratori e dello stesso Paese mettendo in gioco strategie e tecniche di tutela tradizionali per governare il cambiamento in atto. Per far questo occorre che il conflitto rimanga nel quadro delle regole e che il sindacato sia messo nelle condizioni di fornire risposte concrete alle persone che intende rappresentare. Il sindacato deve avviare un cambiamento profondo per sviluppare maggiormente strategie collaborative e partecipative. Nella nuova economia le istanze di valorizzazione della persona e di sviluppo economico tendono a convergere per cui sempre meno attuale è la tradizionale logica conflittuale che ha governato sino a oggi le relazioni industriali.

Il sistema delle relazioni industriali e il ruolo della rappresentanza: quale futuro si delinea?

       E’ necessario pensare a una nuova politica dei redditi e, soprattutto, a un modello contrattuale più coerente con i cambiamenti del lavoro, della economia e della società. La centralizzazione della contrattazione collettiva ha indiscutibilmente contribuito al risanamento della finanza pubblica e alla riduzione del tasso di inflazione grazie al contenimento delle dinamiche salariali. Tuttavia, in una situazione di modesta inflazione e con margini rivendicativi in funzione di incrementi di produttività, il sistema contrattuale a due livelli delineato nell’accordo del 1993 ha mostrato tutti i suoi limiti. Gli assetti della contrattazione collettiva non sono infatti risultati sufficientemente articolati per cogliere le specificità dei mercati del lavoro su base territoriale, comprimendo così le enormi potenzialità delle politiche locali per l’occupazione. Per le parti sociali la possibilità di esaltare la loro funzione nella dimensione territoriale si lega intimamente alla definizione di un nuovo modello contrattuale funzionale a collegare i salari alla produttività. Solo in questo modo è possibile ipotizzare dinamiche retributive che ad un tempo rispondano alle pulsioni salariali – conseguenti alla moderazione ‘piatta’ degli anni 90 – e alle esigenze di competitività e controllo dell’inflazione. Ma un più stretto rapporto tra salari e produttività implica il drastico ridimensionamento del contratto nazionale. Finché questo rimane invasivo non trova spazio una dimensione nazionale idonea al calcolo della produttività e alla sua correlazione con le retribuzioni. E l’unico modo per alleggerire in modo significativo il contratto nazionale consiste nello scambio con una altrettanto certa possibilità per il sindacato di sottoscrivere accordi ad un altro livello.


Fiammetta Sagliocca

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