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  Le tesi congressuali

Data di pubblicazione: Domenica, 27 Novembre 2005

TRAGUARDI SOCIALI / n.17 Settembre / Ottobre 2005 :: Le tesi congressuali

Verso il Congresso Nazionale - Roma 2 - 3 - 4 dicembre


Verso il Congresso Nazionale – Roma 2 -3 - 4 dicembre

LE TESI CONGRESSUALI


IL LAVORO E' UN VALORE. PERCHE' RIFLETTERE SUL NESSO CAUSALE TRA IMPEGNO ECCLESIALE ED IMPEGNO
POLITICO - SOCIALE?


       Il Santo Padre, nella Laborem Exercens, afferma che il lavoro “è il segno di una persona Operante in una comunità di persone” e che esso qualifica “in un certo senso la sua stessa natura”.

       Ciò significa, semplicemente, che il lavoro (almeno concettualmente) è un valore assoluto, riconducibile alla sfera dei diritti inalienabili dell’uomo, nella sua realtà ontologica.

       Esso ha una eticità intrinseca, per il semplice fatto che chi lo compie è una persona umana.

    Queste semplici considerazioni costituiscono la premessa indispensabile per una nuova cultura del lavoro, capace di superare la tradizionale contrapposizione tra capitale e lavoro, tra economicismo e materialismo.

       Una contrapposizione che ha generato, nei due secoli precedenti, due grandi rivoluzioni, che hanno prodotto due sistemi economici e due ordinamenti giuridici, che continuano, purtroppo, ancora a sopravvivere, sia pur nella versione post. “L’homo oeconomicus”, cioè l’uomo considerato un semplice fattore della produzione, portatore di bisogni ed esigenze materiali, è stato al centro del pensiero marxista e liberista, entrambi accomunati da una visione materialistica dell’uomo-lavoratore.

       Ciò ha prodotto, se ragioniamo in termini macroeconomici, certamente maggiore ricchezza, ma non possiamo sostenere con altrettanta convinzione l’equazione: maggiore ricchezza uguale più lavoro, più democrazia, più giustizia per le singole persone. Anzi, spesso, si registra il contrario: tassi di disoccupazione sempre in aumento, giustizia sociale compromessa, democrazia e partecipazione in pericolo, disuguaglianza sempre più accentuata tra popolazioni e singole persone, tra ricchi e poveri del pianeta.

       La nostra profonda convinzione che lo sviluppo economico è soltanto una componente dello sviluppo complessivo, ci induce a considerare il “valore lavoro” quale unico metro di giudizio della bontà di un sistema, perché “Lo sviluppo si realizza se ogni persona viene valorizzata attraverso una partecipazione responsabile alla vita economica e sociale; se vengono promosse le libertà, la creatività, l’autodeterminazione e l’iniziativa personale; se viene garantito il diritto al lavoro” scrivono i vescovi nel documento “Democrazia economica, sviluppo e bene comune”.

       In questo senso, il lavoro diventa una variabile indipendente, che condiziona tutte le scelte politiche, economiche e sociali, ed il “vangelo del lavoro” rappresenta per tutti un riferimento indispensabile per affermare una nuova antropologia.

       Se, come afferma il Papa, il soggetto del lavoro è l’uomo, è necessario piegare l’economia alle esigenze di un uomo che vuole vivere nella pienezza della libertà, incominciando dalla libertà dal bisogno.

       Dentro questo quadro, occorre cercare di costruire un progetto politico, che abbia come riferimenti la persona e l’uomo-lavoratore, introitati e vissuti dalla gente come valori assoluti, dai quali discendono tutte quelle idee-leggi che devono orientare le scelte politiche.

       Questo è un progetto politico certamente non a breve termine, ma che tiene ben presente la realtà economica sociale e politica del   momento, con la quale, volenti o nolenti, bisogna comunque fare i conti.

      E’ un preciso compito del cristiano, chiamato a vivere in una determinata realtà storica, testimoniare, con il proprio impegno, l’opera di salvezza di Cristo, che (non bisogna mai dimenticare) non riguarda l’uomo “astratto”, bensì l’uomo “concreto”, fatto di “carne” e di “sangue”.

       Esiste, pertanto, un legame di causa ed effetto tra l’impegno ecclesiale e l’impegno politico sociale, che scaturisce dal desiderio di trasformare la società secondo giustizia e carità.

       Il Magistero della Chiesa ci viene incontro in questo desiderio, offrendoci la sua Dottrina Sociale, attraverso la quale è possibile avere “una visione integrale ed una piena comprensione dell’uomo, nella sua dimensione personale e sociale”.

       Occorre però sgomberare il campo da qualche equivoco. La Dottrina Sociale non è una ideologia, non è assimilabile ad alcuna forma di “pensiero” contemporaneo. Essa appartiene alla sfera della teologia morale ed è “l’accurata formulazione dei risultati di un’ attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo…alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone le conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano” (cfr. Sollicitudo Rei Socialis).

       Il nostro impegno politico-sociale trova quindi un naturale fondamento nella dottrina sociale della chiesa e nel “vangelo del lavoro”, nella prospettiva di una società per l’uomo.

       Per quanto ci riguarda, poi, trattasi di edificare quella “civiltà dell’amore penetrando tutti i rapporti sociali con quella “carità sociale” capace di muovere la storia verso il bene.


PERCHE' UNA “TESTIMONIANZA EVANGELICA ORGANIZZATA” NELLO SPECIFICO CAMPO DEL LAVORO?


       L’Ecclesialità, abbiamo più volte affermato, è un termine esigente che ci impegna, prima di tutto, ad essere Chiesa.

       Ciò è un dato di fatto ormai consolidato, che caratterizza la nostra vita associativa, anche se riteniamo che la riflessione debba continuare per meglio acquisire la consapevolezza della nostra appartenenza all’ “Ecclesia”, adeguando i nostri comportamenti individuali e collettivi alla primaria esigenza evangelizzatrice propria della Chiesa di Cristo.

      Siamo poi un Movimento e non una semplice associazione di ispirazione cristiana in quanto il “nostro elemento unificante” è costituito “dalla adesione <vitale> ad alcune idee - forza e ad uno spirito comune”. Ciò ci caratterizza profondamente e ci impegna ad assolvere ad uno specifico ruolo nella molteplicità dei carismi.

       Abbiamo voluto con forza caratterizzarci come Movimento Ecclesiale ed, in questo senso, abbiamo modificato, dopo un lungo e sofferto dibattito interno, il nostro statuto. E’ vero, il MCL, sin dall’origine, ha caratterizzato la propria presenza nella società, esclusivamente nel segno della propria appartenenza alla Chiesa, distinguendosi, nella forma e nella sostanza, da una semplice associazione di ispirazione cristiana.

       Ma ciò non era, e non può, essere sufficiente, o quanto meno esaustivo, per qualificare un’identità di Movimento i cui associati necessariamente dovranno agire non “uti-singuli”, ma “utiuniversi”.

       E’ chiaro che, per un cristiano, la fede è criterio interpretativo ed operativo per la costruzione della storia, per cui non è possibile separare l’impegno individuale da quello collettivo. Ma è altrettanto chiaro che, tale impegno, può essere componente o elemento costitutivo del soggetto collettivo, a seconda che si esprima a livello personale, oppure diventi elemento fondante del soggetto collettivo stesso.

       E’ necessario, quindi, continuare a riflettere per acquisire la piena coscienza della nostra appartenenza alla Chiesa, anzi del nostro “essere Chiesa”, sapendo di essere Chiesa ed avendo il senso della Chiesa; a ciò sollecitati, in particolare modo, da due importanti documenti del Magistero: la nota pastorale “le Aggregazioni Laicali nella Chiesa” e l’esortazione “Christifideles Laici”.

         E’ necessario anche che questa coscienza diventi la coscienza di tutto il Movimento, nella sua identità collettiva, non solo patrimonio di singoli associati o di singole realtà associative.

       Ma siamo andati oltre: abbiamo voluto specificare che siamo un Movimento di “Testimonianza Evangelica Organizzata”. Questo è l’aspetto più importante, giudicato da molti un fatto di rilevante novità. L’attenzione va posta sull’aggettivo “organizzata”, perché altrimenti l’espressione “testimonianza evangelica” sarebbe un pleonasmo per un Movimento Ecclesiale.

       Testimoniare il Vangelo in forma organizzata, significa ricondurre unitariamente l’impegno politico sociale del Movimento (che è, e rimane, l’aspetto qualificante della sua presenza nella società) alla sfera dei mezzi e mai dei fini. E con ciò ci differenziamo dalle tante aggregazioni laicali esistenti, che rappresentano comunque e sempre una ricchezza per la Chiesa.

       Dentro i problemi, quindi, per essere dentro la storia, convinti che con ciò adempiamo ad una nostra specifica missione Evangelizzatrice.

       In particolare modo, dentro i problemi del lavoro, perché ciò identifica il nostro specifico ruolo e ci impegna nell’azione politica sociale con slancio e libertà, tenendo sempre presente che il nostro Movimento è comunque, “una aggregazione laicale”, che opera laicamente nella società e che intende affermare dei valori, laicamente condivisibili, nella ferma convinzione che il messaggio Evangelico di liberazione è un messaggio completo e totalizzante per tutti gli uomini ed in tutte le epoche, e che il “vangelo del lavoro” è lo strumento per affermare il lavoro come valore e l’uomo-lavoratore come il soggetto primario di uno sviluppo, individuale e collettivo, complessivo.


PERCHE' IL LAVORO E' LA QUESTIONE CENTRALE PER UNO SVILUPPO COMPLESSIVO DELLA PERSONA UMANA?


       La riflessione sul lavoro come valore, inevitabilmente ci spinge anche a riflettere sulla conseguente centralità dello stesso con riferimento ad un equilibrato sviluppo economico, ma in particolare modo con riferimento ad un organico sviluppo complessivo della persona umana.

       La più volte richiamata Enciclica “Laborem Exercens” pone l’accento su una importante distinzione tra il lavoro in senso oggettivo ed il lavoro in senso soggettivo.

       L’aspetto oggettivo, mutevole nel tempo, concerne le attività, le risorse, gli strumenti e le tecniche che vengono usate per la produzione.

       La dimensione soggettiva, che è stabile nel tempo e conferisce al lavoro la sua particolare dignità, consiste nell’agire dell’uomo secondo la propria indole, le proprie capacità.

       Poiché il lavoro è opera dell’uomo, è impossibile considerarlo una merce o uno dei mezzi di produzione. La dimensione soggettiva del lavoro deve avere la preminenza su quella oggettiva, riconoscendo che la persona è il “metro della dignità del lavoro” e che il “lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro”.

       Il lavoro ha pure una dimensione sociale ( l’uomo lavora per gli altri e con gli altri) della quale è necessario tener conto.

       Quanto importante sia il lavoro è possibile comprenderlo alla luce delle conseguenze che la disoccupazione ha sulle persone.

       Il problema è così grave da essere definito dalla Dottrina Sociale della Chiesa “una vera calamità sociale”.

       Ciò considerato, in linea di principio, è necessario utilizzare “la chiave essenziale” del lavoro per avviare un processo anche culturale (nel senso più ampio del termine), capace di incidere profondamente sui meccanismi di formazione delle scelte di politica economica.

       Le tradizionali concezioni dell’economia, sia pur con le varianti imposte dai processi storici in atto, continuano ad ispirare le scelte delle politiche del lavoro degli Stati, nonostante la persistenza di un alto tasso di disoccupazione, sia pure oscillante in modo congiunturale, tra (e nei) diversi Paesi, per effetto di precise scelte politiche, comunque legate alla congiuntura economica.

       Invero, la realtà sul fronte del mercato del lavoro è sotto i nostri occhi. E’ una realtà   complessivamente non confortante, che, se non affrontata con estrema decisione ed in modo radicale, rischia di travolgere gli assetti istituzionali degli Stati.

       In questi ultimi anni, alcuni passi importanti sono stati fatti, attraverso politiche settoriali disomogenee, che comunque hanno sortito qualche effetto positivo sul fronte dell’occupazione.

      Si è trattato di misure di emergenza, certamente utili per frenare l’esplosione sociale, ma totalmente insufficienti per risolvere alla radice un problema che, al di là del freddo numero statistico, coinvolge la qualità della vita, se non addirittura la vita stessa, di milioni di persone, con tutto il carico umano di drammi di intere famiglie, umiliate nel profondo della loro esistenza ed offese nella loro dignità di uomini nati liberi.

      Non c’è libertà, ha gridato il Santo Padre, se non c’è lavoro. Ecco perché non ci stancheremo mai di richiamare l’attenzione dei governanti sulla necessità di modificare la filosofia della politica, di superare le tradizionali concezioni della economia, che vuole un certo tasso di disoccupazione fisiologico al sistema capitalistico, necessario per mantenere gli equilibri di sistema.

       La piena occupazione deve essere considerata un traguardo possibile in questo secolo, a cui tendere, combinando i diversi fattori della produzione in funzione del raggiungimento di questo obiettivo.

       Occorre, a nostro avviso, elaborare una nuova scienza dell’economia, capace di superare i presupposti dell’economia classica (terra, lavoro e capitale), riconoscendo nel lavoro l’elemento determinante dello sviluppo economico.

       La centralità dell’impresa, rivendicata da una certa cultura economica, crediamo, vada sostituita con la centralità del lavoro.

       La globalizzazione in atto certamente favorisce questo processo, se i diversi fattori della produzione vengono meglio coordinati, in funzione del lavoro; ma la politica deve riappropriarsi del suo ruolo naturale, governando i processi stessi in funzione del bene comune.

       La semplice creazione di ricchezza non è sufficiente per misurare la bontà di un sistema e di una politica.

       Non è sufficiente portare l’occupazione al 70% per sostenere che così è possibile creare in Europa l’economia più dinamica del pianeta (v. patto di Lisbona). Una nuova scienza dell’economia, pensata in funzione di una nuova cultura del lavoro, richiede una riforma strutturale del mercato del lavoro, con la consapevolezza che comunque abbiamo di fronte un quadro di riferimento completamente modificato rispetto al passato. Il mondo è cambiato e bisogna riconoscere che il vecchio modo di lavorare non funziona più.

      Il posto fisso tende progressivamente a scomparire; al lavoro si sostituiscono tanti e diversi lavori. E’ un bene o un male? Ciò non ha importanza. E’ un dato di fatto legato al cambiamento dei processi produttivi. Ciò comporta necessariamente una modernizzazione del mercato del lavoro, inclusivo di tutti i lavori e ben regolamentato, ponendo un argine a tutte quelle forme di lavoro nero ed irregolare, che rappresentano la piaga del cosiddetto sommerso.

       E’, questo, un processo delicato, prima culturale e poi normativo, che ben si lega alla necessità di individuare politiche “chiave” che portino alla piena occupazione.

       Se questo è veramente l’obiettivo, tutti quanti dobbiamo impegnarci (noi, come associazione di lavoratori, le forze politiche ed in modo particolare le forze sindacali), cercando di trovare un punto di equilibrio che, comunque, non indebolisca la rete di protezione sociale, anzi la rafforzi, e non intacchi i diritti che i lavoratori si sono conquistati in lunghi anni di lotte.

       Trincerarsi dietro pregiudiziali politiche, non è utile al paese, non è utile ai lavoratori, non è utile al sindacato stesso, che vede compromessa la propria forza rappresentativa. Ma non è utile nemmeno alle forze politiche, che rischiano di essere una forza statica, chiusa in difesa di interessi corporativi, incapace di inserirsi nei processi dinamici della società.

       Su questi temi il congresso è chiamato a pronunciarsi, per definire proposte autonome ed originali, su cui auspichiamo si misurino i programmi delle coalizioni politiche e l’azione concreta dei Governi.

       Occorrono progetti concreti, per governare il nuovo che avanza in funzione della affermazione del valore del lavoro e dell’uomolavoratore, motore della storia, nel segno della libertà e dei naturali diritti della persona umana.

       Occorre, intanto, prendere definitivamente atto del completo fallimento dell’economia collettivista, per costruire, dentro gli schemi di una nuova cultura liberista, una nuova scienza dell’economia che, partendo dal lavoro quale variabile indipendente, elabori un progetto di sviluppo complessivo della società, tenendo conto delle interrelazioni che necessariamente dovranno esistere tra sviluppo economico, inteso in termini di creazione di sempre maggiore ricchezza e sviluppo complessivo, cosi come lo intende la Chiesa nel documento “Democrazia Economica Sviluppo e Bene Comune”.

       Democrazia economica, partecipazione, cogestione, impresa sociale, no-profit ecc. sono tutti strumenti che hanno bisogno di un supporto scientifico, sia in termini micro che macroeconomici, da elaborare dentro un progetto politico di una società per l’uomo, la cui componente costitutiva fondamentale è l’uomo-lavoratore.

      Per questo, crediamo che le politiche del lavoro che favoriscono processi lavorativi flessibili debbono andare nella direzione di questa antropologia: essi tendono a valorizzare le capacità, le professionalità, le attitudini dei singoli e si sviluppano, di pari passo, con le flessibilità del mercato e delle tutele.

      Ma, processi lavorativi, mercato e tutele più flessibili, richiedono politiche attive per l’occupazione, cioè misure e programmi che favoriscono l’inserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro, perché, altrimenti, l’aggettivo “flessibile” inevitabilmente diventa “precario”, con tutte le immaginabili conseguenze per la stabilità economica e psicologica del lavoratore e della sua famiglia.

       Se l’obiettivo principale, riaffermato nel consiglio di Lisbona del 2000, è quello di costruire una economia più competitiva e dinamica, basata sulla conoscenza, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e maggiore coesione sociale, occorre investire in una nuova economia, che pone al centro il “capitale umano”.

       Ciò significa, più elevati livelli d’istruzione e migliore qualità della stessa; ma significa anche una formazione ed un apprendimento continui lungo l’arco della vita lavorativa.

       E’, questa, una scommessa antropologica, sulla quale puntare, forti di una “tradizione di valori” in cui convergono: fede e ragione, centralità della persona, valorizzazione del lavoro, ruolo della società civile.


QUALE SINDACATO NELLA NUOVA EUROPA?


       La particolare sensibilità necessaria per percepire il nuovo che avanza prepotentemente deve essere presente anche nel mondo sindacale.

       In un periodo di grandi trasformazioni, è necessario un sindacato in grado di leggere i mutamenti in atto, stando dentro con un proprio progetto.

      In una società in cui tendono a predominare forme esasperate di individualismo, occorre essere protagonisti di un percorso incentrato sul “fare insieme”, sull’associarsi e sull’agire solidale.

      Ma occorre, altresì, avere la consapevolezza che la forza della rappresentanza sindacale sta nel vincolo associativo dei lavoratori, per cui a nessuno è consentito rivendicare posizioni monopolistiche.

      E’ indispensabile un’azione sindacale attenta alle diverse forme di rappresentanza sociale presenti nella società civile, perché ciò rafforza l’autonomia del sindacato ed il suo potere contrattuale.

       La globalizzazione dei mercati, nuove e più ampie figure di lavoratori, una “classe” imprenditoriale più dinamica, una impresa sempre più aperta verso il sociale, pongono il sindacato di fronte ad una scelta impellente di riconversione, pena la sua morte per consunzione.

       Se la funzione principale (e più importante) del sindacato, è quella di tutelare e difendere i lavoratori, affermando i loro diritti, occorre aprirsi a nuove prospettive. Oltre ai lavoratori “storici”, occorre guardare ai quadri intermedi, agli artigiani, ai commercianti, ai liberi professionisti, a tutti coloro, cioè, che vivono del proprio lavoro.

       Occorre, però, guardare soprattutto ai disoccupati, agli inoccupati, ai giovani, alle classi più deboli della società, facendosi carico dei loro problemi, privilegiando questi ultimi, in un quadro di priorità, rispetto ai lavoratori occupati ed alle compatibilità economiche.

      Ciò amplierebbe la sfera d’azione classica del sindacato in una prospettiva sociale più ampia, superando l’attuale sistema contrattualistico nazionale, nel contesto di una contrattazione collettiva europea che stabilisca livelli economici e giuridici minimi, al di sotto dei quali non esiste spazio alcuno di contrattazione. Sarà, poi, la contrattazione regionale e quella aziendale a fissare condizioni migliorative, tenendo conto della realtà sociale economica ed occupazionale della regione o della singola azienda.

       Con ciò si realizzerebbe una specie di federalismo sindacale, con il trasferimento di alcuni compiti dal centro alla periferia, lasciando i sindacati nazionali più liberi per occuparsi anche di questioni prettamente sociali.

      Questo significa non circoscrivere il ruolo dei sindacati alla sola dimensione rivendicativa, perché gli interessi dei lavoratori da promuovere e tutelare sono ben più ampi delle rivendicazioni sindacali: rafforzare lo stato sociale, ampliare gli spazi della democrazia (della democrazia economica e della partecipazione), sono interessi politici che toccano in modo particolare tutti i lavoratori. “…In questo senso l’attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della politica, intesa questa come una prudente sollecitudine per il bene comune” (Cfr. Laborem Exercens).

      Dobbiamo, quindi, impegnarci per fare crescere sempre di più un sindacato dei lavoratori, libero ed autonomo, capace di intercettare le esigenze sociali del mondo del lavoro in costante evoluzione, senza essere condizionato da schieramenti politici.

       La CISL, ancora una volta, è chiamata a farsi carico di una nuova cultura sindacale, indispensabile per una evoluzione del movimento sindacale italiano verso un nuovo soggetto sociale, riformista, partecipato e partecipativo.

       Per questo, riteniamo che il nostro sindacato di riferimento debba fare un grande sforzo culturale ed organizzativo, incalzando la CGIL.

      Ciò significa riconoscere nel sindacato un elemento strutturale di crescita democratica.

      L’affermazione e la tutela dei diritti del mondo del lavoro passa attraverso un rafforzamento del sindacato. Qualsiasi tentativo di indebolire l’associazionismo sindacale è un tentativo antidemocratico.

       Ma la storia ed il suo insostituibile ruolo non può indurci ad accettarlo acriticamente, specialmente quando si chiude in un “egoismo di gruppo o di classe” perché ciò lo allontana dagli interessi che dovrebbe rappresentare, perdendo “facilmente il contatto con ciò che è il loro compito specifico che è quello di assicurare i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune dell’intera società” diventando uno “strumento per altri scopi” (Cfr. Laborem Exercens).

       In questo senso, non possiamo accettare un sindacato che fa politica, nel senso comune di questo termine. Così come non possiamo accettare un sindacato motivato nelle sue azioni da scelte ideologiche di parte.

       Un sindacato moderno deve veramente superare la contrapposizione tra “economismo e materialismo…per essere promotore della lotta per la giustizia sociale”


PERCHE' L’IMPEGNO NELLA POLITICA E' UNA ESPRESSIONE
ALTA DELLA CARITA'?


       La Dottrina Sociale della Chiesa coglie chiaramente il legame tra fede e politica, quando afferma “L’ universalità e l’integrità della salvezza, donata in Gesù Cristo, rendono inscindibile il nesso tra il rapporto che la persona è chiamata ad avere con Dio e la responsabilità nei confronti del prossimo, nella concretezza delle situazioni storiche… Nella dimensione interiore dell’uomo si radica, in definitiva, l’impegno per la giustizia e la solidarietà, per l’edificazione di una vita sociale, economica e politica conforme al disegno di Dio” (Cfr.Concilio Vaticano II, cost. dogm. Dei Verbum).

      L’agire del cristiano in politica è, quindi, una donazione di sè, un servizio per il bene comune.

       Questa semplice, ma profonda, verità ha bisogno di essere incarnata e vissuta nelle opere, che sono lo strumento attraverso il quale si rende visibile la tensione verso l’ Altro.

      Questa tensione, ci spinge spontaneamente ad impegnarci nella politica, con slancio, nella consapevolezza di testimoniare l’Amore Salvifico della Chiesa di Cristo.

       In questo senso, la politica è una espressione alta della Carità. Quella carità che ci rende liberi anche dalla schiavitù dell’impegno, il quale, (non bisogna mai dimenticarlo) può essere idolatrato, se vissuto non come strumento, ma come fine della nostra azione nella società.

      In sostanza, la carità, superando l’impegno (senza abolirlo) ci restituisce la nostra libertà esistenziale.

       Se queste sono le premesse, il nostro agire politico si cala nella storia, per affermare i valori in cui crediamo, con la consapevolezza di affermare ciò che vale per tutti gli uomini.

       Le nostre battaglie politiche sono battaglie di civiltà, perché tendono ad affermare la dignità dell’uomo, ponendo al centro la persona umana, la quale ha bisogno di credere nei valori assoluti, per orientare le scelte concrete verso il bene individuale e collettivo.

       Purtroppo, l’imperante relativismo culturale, etico e religioso è causa ed effetto di un pensiero unico e debole, che si fonda sul falso (per noi) presupposto che ogni cultura, ogni civiltà, ogni religione sono uguali.

       Occorre credere di più in noi stessi, nel fondamento ontologico dei valori che scaturiscono dalla nostra fede, perché ciò ci rende più tolleranti, più rispettosi della civiltà, della cultura e della religione degli altri; ma nello stesso tempo ci aiuta a mettere in campo ogni azione democratica (s’intende) per ostacolare ogni “intrusione” ed ogni “violenza”, esigendo comunque la “reciprocità”.

       E con ciò, non vogliamo assolutamente affermare, o, peggio, imporre, forme di integralismo o fondamentalismo, che negherebbero alla radice la nostra fede nella Democrazia e nel metodo democratico. Affermare il contrario, sarebbe un ossimoro. In sostanza, la nostra appartenenza alla Chiesa ci spinge ad agire laicamente nella società per affermare dei valori laici, attraverso lo strumento della Democrazia.

       Ma nello stesso tempo, non possiamo accettare un fondamentalismo in senso contrario: il laicismo è intollerante e antidemocratico, quanto il fondamentalismo e l’integralismo religioso.

       Occorre, allora, agire guardando al futuro, recuperando una nostra autonoma capacità di pensiero per elaborare un progetto di società per l’uomo, con la consapevolezza che comunque, se vogliamo essere incisivi, dobbiamo essere anche concreti.

       Non possiamo agire in una società che non c’è, ma dobbiamo usare, anche strategicamente, gli strumenti che abbiamo per costruire la società che vorremmo (un esempio di concretezza è dato dalla scelta attiva di astensione al voto ai recenti referendum abrogativi della legge 40).

       Dobbiamo, quindi, individuare le situazioni concrete nelle quali agire per affermare i valori in cui crediamo. A questo scopo, è necessaria una adeguata preparazione, che tenga conto di tutti gli strumenti messi a disposizione dal pensiero scientifico, con particolare riferimento alle scienze sociali ed economiche.

      Bisogna avere anche la consapevolezza che, nella realtà politica, spesso può accadere che debbano essere fatte delle scelte contrarie ai valori in cui crediamo (vedi: aborto, procreazione assistita). In questi casi, è giusto, pur mantenendo salda la testimonianza dei propri principi, appoggiare leggi “mirate a limitare i danni “ per attenuare gli effetti negativi sulla società.

       Ma, per essere più incisivi, occorre recuperare le ragioni unitarie del mondo cattolico, facendo convergere gli sforzi verso un impegno politico unitario. Se è vero che non è un dogma l’unità politica dei cattolici, è anche vero il contrario.

       Occorre dare vita a forme serie e stabili di collegamento tra cattolici che operano nei vari raggruppamenti, avendo il coraggio di metterci in discussione, senza nostalgie, ma anche senza complessi, guardando avanti con la consapevolezza di una storia che ha costituito “un grande movimento per la difesa della persona umana e la tutela della sua dignità” ( Cfr.Centesimus Annus).

       Conclusa una stagione, se ne apre un’altra. E se la storia è maestra di vita, occorre ripartire dal sociale, per costruire un tessuto culturale intorno ai valori che scaturiscono dalla Dottrina Sociale della Chiesa e dal suo Magistero.

      Il momento storico in cui siamo chiamati a vivere ed operare, caratterizzato, non solo da una globalizzazione economica, ma anche culturale, ci impone di convogliare tutti gli sforzi per elaborare, nel segno dei tempi, un progetto culturale capace di fronteggiare le sfide del secolarismo e del pragmatismo imperanti.

      Ecco perchè qualsiasi forma di collaborazione, dal semplice volontariato ai diversi forum o consulte, sono visti e vissuti dal MCL, con particolare attenzione, nella speranza di creare un grande movimento, articolato, non monolitico, non integralista “al servizio della Dottrina Sociale della Chiesa nella sua globalità e della sua reale incidenza nel divenire sociale e politico, ed al servizio di una permanente formazione etico-spirituale e di un raccordo fraterno dei laici più impegnati nelle vicende politiche”.


PERCHE' LA PARTECIPAZIONE E LA DEMOCRAZIA ECONOMICA SONO STRUMENTI DI CRESCITA ECONOMICA E SVILUPPO COMPLESSIVO?


       La consapevolezza sempre più diffusa della necessità di coniugare crescita economica, sviluppo e giustizia sociale ci spinge ad accelerare il processo di revisione in atto per modificare il tradizionale modo di intendere l’economia, recuperando quella dimensione “sociale” che naturalmente le appartiene, in quanto “mediante l’attività economica l’uomo collabora al progresso di tutta la famiglia umana ed entra in comunione con le altre persone, per un aiuto reciproco in spirito di servizio”. (Cfr. Democrazia Economica Sviluppo e Bene Comune).

      La fase storica che stiamo vivendo si sta perciò caratterizzando sempre più marcatamente nel segno di una rinnovata coscienza, che considera il libero mercato uno dei tanti strumenti che permettono all’uomo di conseguire dei fini, tenendo presente che “nessuna attività umana si situa al di fuori della sfera dei valori etici”, e che non può esserci nessuna “zona franca” anche in economia, così come nelle politiche internazionali, come ci ha ricordato il Santo Padre Giovanni Paolo II a quaranta anni dalla “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII.

       Per questo, valutiamo positivamente l’incipiente cultura sociale, che sta caratterizzando l’economia di mercato, pur nella consapevolezza che occorra fare ancora molta strada per riempire di contenuti quell’aggettivo “sociale” che condiziona (almeno nelle formulazioni teoriche e nei programmi dei governi) tutte le scelte di politica economica. Il riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa, anche per le questioni economiche, costituisce quindi un elemento imprescindibile per inquadrare correttamente il ruolo e la funzione delle istituzioni economiche e della scienza dell’economia.

      Un mondo globalizzato ha vitale bisogno di “regole” comuni per impedire che le rigide leggi del mercato possano essere strumento di sopraffazione delle popolazioni più deboli, perché (non bisogna dimenticare) la libera concorrenza può essere “spesso generatrice di dittatura economica…” e “non è equa se non subordinatamente alle esigenze di giustizia sociale”. (Cfr. Populorum Progressio)

      Questa particolare attenzione alla “giustizia sociale” costituisce l’elemento caratterizzante e qualificante dell’economia di mercato, per cui essa diventa “economia sociale di mercato”, anche se diversamente concepita a seconda delle diverse sensibilità.

       Se anche l’economia è uno strumento di libertà, occorrono regole certe e chiare per coordinare i diversi fattori della produzione in funzione di uno sviluppo complessivo, equo, solidale e giusto, che comprenda certamente quello economico, ma che non si esaurisca in esso.

       Ciò è quanto ci insegnano i Vescovi e ciò è quanto chiediamo alla politica, tenendo presente la storia e la cultura degli ultimi due secoli: una storia di lotte e di lutti, ma anche di progresso e di importanti conquiste sociali, specialmente nel campo delle assicurazioni sociali.

       Occorre, però, essere sempre vigili ed attivi, perché se la democrazia è l’essenza dello Stato in tutte le sue articolazioni istituzionali, la partecipazione è l’essenza della Democrazia.

       E', anche, un preciso compito del nostro Movimento partecipare attivamente per rafforzare quella “rinnovata coscienza dell’economia” che ha bisogno di scelte concrete per essere riempita di contenuti.

       In questa prospettiva, dobbiamo continuare a sentirci impegnati nella elaborazione di progetti e proposte per affermare concretamente il principio della democrazia economica.

       In questa direzione qualcosa è stato fatto, anche se bisogna, a nostro avviso, andare oltre. Occorre superare la concezione del modello partecipativo in funzione del capitale delle aziende. La partecipazione non può essere solo un nuovo canale di raccolta del risparmio, per giunta agevolato per le società che emettono azioni a favore dei propri dipendenti.

       Occorre maggiore coraggio, per colmare quello che la Commissione Europea ha definito un “deficit culturale”, affinché l’impresa diventi veramente il luogo dove i diversi soggetti interagiscono per sostenere e qualificare lo sviluppo in funzione del lavoro.

      Una adeguata legislazione di sostegno si rende pertanto necessaria, in un quadro di riforma complessiva di tutto il diritto societario (il problema è stato completamente ignorato dalla recente modifica del diritto societario) assolutamente armonizzato a livello europeo e compatibile con l’esigenza partecipativa dei lavoratori.

      E' chiaro che un ruolo determinate da giocare su questa materia, compete ai sindacati, ai quali si chiede un particolare sforzo per modificare la tradizionale politica sindacale fondata sulla contrapposizione dialettica e conflittuale.

       La partecipazione dei lavoratori al capitale dell’impresa, va contrattata a livello collettivo e va tutelata a livello individuale, per allontanare il rischio che il lavoratore, in caso di fallimento dell’impresa in cui lavora, oltre al lavoro, non perda anche i pochi risparmi investiti.

       In sostanza, la figura dell’azionista dipendente è una figura particolare, che deve trovare una precisa collocazione nel diritto societario, prevedendo forme di tutele per limitare il rischio.

       Ma la partecipazione dei lavoratori dipendenti al “capitale di rischio limitato”, sarebbe poca cosa, specialmente se si fa ricorso al TFR. o ai fondi integrativi di pensione; a quegli strumenti, cioè, creati per assolvere ad altre funzioni. Nulla osta che tali capitali immobilizzati vengano trasformati in strumenti finanziari, ma occorre una attenta vigilanza ed una sana e corretta gestione, prevedendo forme di garanzie e di tutela che solo una forte organizzazione sindacale, moderna e dinamica può offrire.

      Come sarebbe poca cosa, se la partecipazione dei lavoratori al “capitale di rischio limitato” non fosse legata al diritto degli stessi alla gestione dell’impresa, prevedendo qualche forma di partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori nei consigli d’amministrazione.

       Se è vero che, come afferma il Santo Padre Giovanni Paolo II nella “Centesimus Annus”, l’azienda non può essere considerata solo come una società di capitali, perché essa è prima di tutto una società di persone di cui fanno parte tutti coloro che vi collaborano con il proprio lavoro, se è altrettanto vero che occorre affermare la centralità del lavoro, non è concepibile che vengano prese delle decisioni che riguardano milioni di lavoratori e di famiglie, senza il diretto coinvolgimento dei principali interessati.

       Non si tratta di sovvertire i principi di una economia liberista, ma semplicemente di introdurre dei meccanismi, all’interno del sistema, per riempire di contenuti la cosiddetta democrazia economica.

       La carta dei diritti fondamentali di Nizza ha sancito il diritto dei lavoratori ad essere informati e consultati “nell’ambito dell’impresa”, rimandando al diritto comunitario ed alle legislazioni nazionali le modalità di informazione e consultazione. Noi riteniamo che ciò costituisca certamente un passo avanti, ma occorre più determinazione nel definire i livelli partecipativi, coinvolgendo direttamente i lavoratori nei processi di formazione delle decisioni, nella convinzione che ciò fa bene all’economia, alla democrazia, alla società; qualifica positivamente le relazioni sindacali, privilegia il confronto e qualifica, altresì, il conflitto sul piano dei contenuti e delle proposte.

       “E’ opportuno creare le condizioni favorevoli allo sviluppo di intese partecipative, nella convinzione che ciò possa contribuire ad accrescere la competitività del nostro sistema economico”, si legge nel libro bianco. E’ un’importante affermazione di principio, legata da un nesso inscindibile di causa-effetto con il principio di democrazia economica, da noi, con profonda convinzione, perseguito.


QUALE POLITICA PER UNO SVILUPPO INTEGRATO
DELLE AREE DEBOLI?


       “L’avvenire dell’Italia è tutto sul mezzogiorno. Il mezzogiorno sarà la fortuna o la sciagura d’Italia”. Così scriveva Giustino Fortunato agli inizi del secolo appena trascorso.

      Ebbene, siamo agli inizi del XXI secolo ed ancora la questione meridionale continua ad essere, appunto, una questione.

       Il dualismo dell’economia italiana si è di fatto trasformato in dualismo tra nord e sud, con inevitabili ripercussioni sugli assetti politici nazionali, fortemente caratterizzati da una cultura politica, tendente a privilegiare scelte che non tengano conto delle ragioni del sud, in una prospettiva microeconomica. Al sud non rimane che sperare nella buona volontà di alcuni uomini politici e di governo, fortemente motivati dalla esigenza di rendere concreto il tanto conclamato principio di solidarietà.

       E poi, ci sono i convegni, i dibattiti, le dotte disquisizioni sulle cause e sui rimedi, che hanno alimentato, e continuano ad alimentare, una letteratura ammantata di pietismo.

       Ebbene, pensiamo che ormai la gente, ed in modo particolare la gente del sud, si sia stancata di studiare, riflettere, analizzare, le cause di questa, ormai ancestrale, arretratezza. Essa è un dato di fatto, che può spingere alcuni alla rassegnazione, quasi che la maledizione divina si fosse abbattuta in questo lembo d’Italia, ed altri ad agire con determinazione per modificare una realtà di arretratezza, causata da condizioni storico ambientali, ma anche da precise scelte politiche sbagliate, perché, nonostante il forte richiamo di molti economisti e meridionalisti, non si è compreso a fondo, a nostro parere, il vero significato della “questione”.

      Nonostante “l’attenzione politica” di molti Governi, la forbice del dualismo economico si è sempre allargata e le conseguenze del mancato sviluppo, specialmente in termini di occupazione sono sotto gli occhi di tutti. Il 50% del tasso di disoccupazione nazionale viene registrato nelle regioni meridionali ed investe in modo particolare la disoccupazione cosiddetta intellettuale.

       Per questo, occorre, una volta per tutte, intervenire strutturalmente, perché non potrà mai esserci crescita e sviluppo per l’intero Paese se non si considera adeguatamente la “questione meridionale”.

       A nostro avviso, occorrono interventi decisivi, per ribaltare una specie di pensiero unico sulla vocazione naturale del meridione d’Italia, secondo il quale c’è solo bisogno di una adeguata politica assistenziale.

       Nulla di tutto ciò! Certamente l’agricoltura è il settore che forse merita maggiore attenzione, ma non è l’unico, e non può essere considerato assolutamente subalterno rispetto ad una cultura politico-economica concentrata in modo prevalente sulle dinamiche industriali e dei servizi.

      L’agricoltura ha certamente bisogno di essere modernizzata, ma soprattutto ha bisogno di essere industrializzata, incominciando dalla formazione di un imprenditore agricolo capace di competere e vincere le sfide di un mercato globale. E ciò lo constatiamo tutti i giorni, a nostre spese, mangiando i prodotti importati da altri Paesi.

       Questo settore dovrebbe essere considerato il settore trainante e privilegiato, senza assolutamente sottovalutare il suo aspetto complementare rispetto ad una economia industriale nazionale allocata principalmente al nord.

      Ciò non impedisce di creare un ambiente favorevole anche per l’impresa, affinché possano nascere e svilupparsi anche nel sud insediamenti industriali. Non è assolutamente vero che il mezzogiorno ha solo e soltanto una vocazione agricola.

       Ci sono molti settori industriali che potrebbero benissimo nascere e vivere nel sud per produrre beni e servizi non solo per il mercato interno, ma specialmente per il mercato dei Paesi che si affacciano sul mediterraneo e per i Paesi in via di sviluppo; a ciò favoriti dalla posizione geografica.

       Certo, le esperienze delle cosiddette cattedrali nel deserto dovrebbero indurci ad abbandonare questa aspirazione, avallando così la tesi della vocazione agricola. Non vorremmo cadere nella tentazione di avallare questo sbrigativo giudizio, anch’esso frutto di quella specie di pensiero unico di cui si diceva sopra.

       La cattedrale ha un senso, se intorno si costruiscono le infrastrutture (le strade, i porti, gli aeroporti, le stazioni ferroviarie) ma, in particolare modo, se la gente che ci vive e lavora viene educata, formata ed incentivata all’intrapresa. Questo non impedisce uno sviluppo integrato tra agricoltura ed industria, perché i due settori non sono assolutamente alternativi, ma complementari. Essi, assieme al settore dei servizi, rappresentano lo strumento vero per un organico sviluppo locale, nel contesto di uno sviluppo nazionale.

       Ancora, se la realtà del sud, specialmente in termini di disoccupazione, è sotto i nostri occhi, vuol dire che fino ad oggi, si è sbagliato tutto, anche in questa direzione.

       La responsabilità principale è politica. I problemi ambientali, culturali, delinquenziali e, potremmo dire, quasi antropologici, che esistono e sono veri, sono un alibi per scaricare su altri le responsabilità, che appartengono solo ed esclusivamente alla classe politica nazionale e meridionale.

       Per cinquant’anni sono state fatte scelte solo di carattere assistenziale, perché ciò era funzionale allo sviluppo economico del nord. E ciò in perfetta sintonia con la politica Keynesiana della domanda, quale motore di sviluppo. I prodotti delle industrie del nord, fabbricati con l’apporto dei lavoratori meridionali, venivano comprati dalla gente del sud con i soldi dell’assistenza.

       Il provincialismo dei nostri imprenditori, portati a fare scelte sulla base di valutazioni microeconomiche e la miopia della classe politica, incapace per la sua costante insensibilità a fare scelte di politica macroeconomica, hanno determinato la situazione attuale, che noi vogliamo modificare completamente, convinti, come siamo, che lo sviluppo, o è complessivo, cioè deve riguardare l’intero territorio nazionale e l’intera popolazione, o non è vero sviluppo.
(la questione meridionale che viene sottoposta all’attenzione della nostra base ripropone alcune analisi già elaborate in occasione del precedente congresso, perché la situazione è sostanzialmente rimasta immutata, nonostante l’attenzione di facciata dei Governi alla annosa “questione”).


UNA NUOVA DEMOCRAZIA: SINTESI TRA PENSIERO ED AZIONE?


       La Dottrina Sociale della Chiesa, in particolare modo la Centesimus Annus, definisce la democrazia come quel sistema di Governo che permette ai cittadini di partecipare alle scelte politiche, garantendo loro la possibilità di eleggere, controllare e sostituire i governanti.

       Ma se ciò è sufficiente per definire una democrazia formale, non è sufficiente per caratterizzare una democrazia sostanziale. Infatti, il magistero precisa che “un’autentica democrazia non è solo il risultato di un rispetto formale di regole, ma è il frutto della convinta accettazione dei valori che ispirano le procedure democratiche: la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei diritti dell’uomo, l’assunzione del <bene comune> come fine e criterio regolativo della vita politica” (Cfr. Compendio DSC, n. 406).

      Come possiamo facilmente constatare; il problema di fondo della “democrazia” non consiste tanto nel rispetto delle regole (che è importante), quanto nei valori di fondo che le ispirano. Con ciò esprimiamo una valutazione di merito, che attiene alla sfera morale.

       Popper suggerisce di sostituire le Platoniche domande di “chi deve comandare”, di chi deve esercitare il potere dominante, con queste: “Vi sono forme di governo che per motivi morali sono riprovevoli? Vi sono forme di governo che ci permettono di liberarci di un governo malvagio o anche solo incompetente che provoca danni?”

       Sono queste le domande di fondo che alimentano il dibattito sulle moderne democrazie, specialmente dopo le ultime esperienze dittatoriali e tiranniche, considerate moralmente cattive. Quindi, più che il governo o il dominio del popolo, quel che conta e che riempie di contenuti il concetto di democrazia è la possibilità che ha il popolo di controllare e sostituire, senza contraccolpi rivoluzionari, i governi giudicati incapaci ed inefficienti o quando violano i propri diritti-doveri di governare saggiamente.

       Giustamente, la Dottrina Sociale della Chiesa pone l’accento più sui “valori” che ispirano le procedure, che sulle procedure stesse.

       In sostanza, se si prescinde dai “valori” potremmo avere delle dittature moralmente cattive) elette con procedure democratiche (l’esempio di Hitler insegna) e governi democraticamente eletti che si rivelano tirannici.

       Ecco perché, giustamente, Popper considera l’esercizio del diritto di giudizio da parte del popolo, con tutte le conseguenze che ne derivano, l’elemento costitutivo e qualificante della democrazia.

       Un sistema veramente democratico necessita quindi di strumenti partecipativi e di controllo (diretti o rappresentativi) che, comunque, impediscano non solo la tirannia possibile dei governi, ma anche le cosiddette dittature delle maggioranze.

       Ciò comporta anche una corretta considerazione delle opposizioni politiche: demonizzarle è moralmente ingiusto, perché limita il potere di controllo e radicalizza la competizione politica, trasformandola in una lotta per il potere, negando ciò che si vorrebbe affermare.

       In questa ottica, il nostro impegno per la costruzione di una vera democrazia sostanziale, non può non considerare la sollecitazione dei Pastori della Chiesa Cattolica un riferimento importante per continuare la riflessione su una nostra storica fedeltà: la Democrazia, appunto.

       La nostra attenzione, in questo momento, va concentrata sugli aspetti partecipativi, strettamente collegati alla acquisizione di una maggiore coscienza della   responsabilità.

       Partecipazione e responsabilità ci impongono di stare dentro la storia per caratterizzare il dibattito culturale sui valori della Democrazia e per agire nelle (e per) le Istituzioni, affinché siano sempre di più permeate da quello spirito democratico, indispensabile per costruire una società per l’uomo.

       Per questo, ci siamo sempre impegnati per una nuova architettura istituzionale dei poteri, che superasse veramente l’assetto piramidale dell’attuale organizzazione statuale.

       Il nostro impegno sui temi delle riforme istituzionali, dal federalismo sussidiario e solidale alla riforma elettorale, deve continuare, soprattutto sul fronte dei contenuti.


UN NUOVO PATTO GENERAZIONALE. QUALI
PROSPETTIVE PER IL WELFARE?


      Da oltre venti anni, nei paesi sviluppati, e più significativamente in Europa, si discute e si interviene per riformare le prestazioni sociali.

       I sistemi di previdenza, di formazione, di assicurazione, di sostegno al reddito delle famiglie e delle persone, pure essendo differenziati nei diversi Paesi, presentano delle criticità comuni, più volte analizzate da numerosi esperti e ormai consolidate anche nel dibattito politico.

       Le criticità principali sono legate all’invecchiamento della popolazione (conseguenza positiva del welfare State), che genera una crescita esponenziale della spesa pubblica, in particolare modo della spesa pensionistica e sanitaria.

       Queste criticità possono così riassumersi: fabbisogni di formazione e di aggiornamento, dovuti alla rigidità dei mutamenti economici, produttivi e sociali, a cui corrispondono sistemi scolastici rigidi e costosi; crescenti esigenze di mobilità e flessibilità del lavoro, che mal si conciliano con il sostegno al reddito, il quale finisce spesso per disincentivare la ricerca di una occupazione; una natalità decrescente, che si riflette progressivamente nella diminuzione della popolazione in età da lavoro ed in un aumento della forbice tra lavoratori e non lavoratori, con il conseguente incremento della popolazione che dovrà essere mantenuta dai lavoratori attivi; l’insufficienza degli interventi di sostegno (pubblici, finanziari e relazionali) nei confronti della quarta età; l’onerosità dei sistemi burocratici di erogazioni dei servizi pubblici e delle provvidenze varie.

       Questi fattori di criticità hanno dato luogo ad un ciclo di riforme, diversificato nei vari Stati europei, senza alcun intervento unitario a livello di U.E, anche se è stata indicata una piattaforma comune, da cui partire per centrare l’obiettivo del tasso di occupazione al 70%, considerato indispensabile per sopportare i costi delle politiche di sostegno alle persone al di sotto dei 20 anni e over 65. Nell’attesa di centrare il suddetto obiettivo del 70%, sono state fornite, a livello comunitario, delle indicazioni tendenti ad allungare l’età pensionabile, ad aumentare i costi di partecipazione alla spesa sanitaria, a diminuire la durata e l’entità degli interventi di sostegno al reddito, ad incentivare l’incremento della natalità mediante aiuti alle famiglie, sia in termini economici, sia potenziando i servizi.

       Questi interventi, anche se limitati e disomogenei, hanno certamente innescato un processo, che lascia sperare in un riposizionamento organico del welfare, al fine di stabilire un patto tra generazioni, indispensabile per mantenere o addirittura incrementare le prestazioni sociali.

       Purtroppo, siamo ancora alla fase iniziale, perché i sistemi di welfare hanno ancora i contorni (ormai offuscati) di una società industriale, dove i percorsi scolastici, formativi e lavorativi erano relativamente definiti ed organizzati. Le riforme sono ancora insufficienti e lasciano aperti tanti problemi: la natalità (sostegno), l’immigrazione (accoglienza), la formazione (per i lavoratori occupati, disoccupati ed inoccupati e per quelli della terza età), le prestazioni previdenziali (per i pensionati e per le giovani generazioni) ecc.

       La situazione italiana non si presenta affatto migliore. Siamo di fronte alla combinazione di diversi fattori che hanno una origine storica. L’insufficienza delle tradizionali prestazioni sociali, combinata con una situazione previdenziale difficile per effetto dell’allungamento della vita della nostra popolazione (questo è un record positivo), non lascia ben sperare per il futuro, se non si interviene con misure strutturali. Nei prossimi 15 anni la popolazione, di origine italiana in età di lavoro, diminuirà di 4,5 milioni di persone; circa 2,5 milioni andranno in pensione.

       Il numero delle persone a carico di coloro che lavorano rischia di essere insostenibile, salvo che, nel frattempo, la popolazione attiva non cresca almeno di 3,5 milioni di unità, avvicinando il tasso di occupazione all’obiettivo del 70%.

       Per questo, il nostro Paese si trova di fronte a due sfide gigantesche: come elevare sensibilmente i livelli occupazionali; come riequilibrare il sistema del welfare, sia per supportare la sfida occupazionale, sia per affrontare le nuove emergenze sociali.

       Auspichiamo una particolare ed approfondita riflessione su queste due “sfide”, per arrivare al congresso nazionale con proposte concrete sugli aspetti e sui contenuti di questo nuovo patto tra generazioni, chiamando a misurarsi anche le forze politiche e di governo.


L’EUROPA DEI POPOLI: SINTESI TRA PROCESSI
CULTURALI ED ECONOMICI?


       L’Europa: è’ il grande sogno di De Gasperi, Adenauer e Schuman, che incomincia a prendere corpo dopo circa mezzo secolo di gestazione? Oppure, è una necessità imposta da una concorrenza economica sempre più globalizzata ?

       Schuman diceva che “l’Europa non potrà farsi in una volta sola, né sarà costruita tutta insieme, essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”

       Il MCL, fin dalla sua costituzione, ha sostenuto e promosso il processo di integrazione europea, convinto della necessità di una intelligente sintesi tra il sogno dei nostri padri fondatori e la concretezza del ministro francese.

       Da sempre, siamo stati anche attivi nel perseguire con ostinazione “un ruolo incisivo” per i lavoratori europei, senza i quali non si potrà mai costruire l’Europa delle genti.

      Nella tutela delle diverse componenti identitarie dei popoli, abbiamo sempre visto il punto di incontro di diverse esperienze culturali ed economiche: il MCL ha sempre difeso e valorizzato la centralità della persona umana, inserendosi attivamente, attraverso la sua presenza nel sociale, nel processo di costruzione di una comune identità europea.

       E’ difficile immaginare le prospettive future. Qual è il ruolo dell’Europa nel contesto planetario? Quali sono i confini della Unione? Come si evolverà il processo costituente? La moneta unica ha costituito certamente una tappa decisiva nel percorso unitario, anche se i “costi” immediati stanno alimentando politiche neopopuliste, ma gli interrogativi rimangono.

      Il nostro Paese ha ratificato il trattato sulla Costituzione Europea, mentre Francia ed Olanda lo hanno fermato e respinto con un referendum popolare, che non è soltanto un voto “contro” i Governi Nazionali.

       E’ caduto un tabù sul cammino del processo di costruzione europea e siamo alla vigilia del fallimento delle sintesi politiche (quella socialdemocratica e quella cristiano/popolare) che hanno governato e promosso questa caratterizzazione nel dopoguerra?

       La nostra posizione non è mai stata troppo accondiscendente verso questo trattato. Le radici cristiane non sono state citate, né il ruolo della famiglia, quale valore cardine, ci è parso assumere un momento fondamentale. Giovanni Paolo II si è speso (quasi quotidianamente) per chiedere l’inserimento nel preambolo della costituzione Europea il riferimento alle comuni radici cristiane, perché esse hanno costituito “la linfa che ha impregnato la storia e le istituzioni europee”, precisando quasi con ossessione che “un simile riferimento non toglierà nulla alla giusta laicità delle strutture politiche ed aiuterà a preservare il confine dal duplice rischio del laicismo ideologico, da una parte, e dall’integralismo settario, dall’altra”. Noi ci siamo sempre battuti per affermare questo riconoscimento, che rappresenta il pilastro essenziale della nostra identità di cittadini europei. Purtroppo, è prevalsa una cultura laicista, negando clamorosamente una realtà storica impregnata di millenari valori laici.

      Avremmo voluto, poi, che la Costituzione Europea fosse stata più marcatamente caratterizzata dall’aspetto “sociale”. Non possiamo credere che questo pilastro possa ancora a lungo restare ai margini del processo integrativo.

       Purtroppo, il ruolo dei sindacati, per affermare il principio di una Europa sociale e solidale, non è stato abbastanza incisivo; le note e vecchie associazioni sindacali, con sempre più marcato conservatorismo, e con sempre meno potere di rappresentanza, non hanno saputo cogliere l’opportunità della “strategia di Lisbona” appiattendosi su politiche populiste.

       E’ chiaro, che occorre un maggiore contributo delle cosiddette società civili, con tutte le articolazioni associative presenti in Europa.

      Il nostro Movimento ha già fatto tanto in questa direzione ed in collegamento con altre associazioni europee di comune ispirazione; ma deve continuare a fare la sua parte, marcando ancora di più il proprio ruolo e quello dell’intero mondo associativo.

       E’ in gioco una identità europea, da costruire nel solco di una tradizione millenaria, incentrata sui grandi valori della democrazia e della libertà, a cui, comunque, occorre fare riferimento anche per disegnare gli strumenti tecnici (come il sistema di voto), attraverso i quali si rendono effettivi principi e diritti universali ed inalienabili.

      Le identità si aggiornano, maturano e si affermano per elevare e nobilitare un individuo, una persona, un popolo, altrimenti, si commette un grave errore storico, con il risultato di disegnare una identità geneticamente modificata.

       Purtroppo, i pregiudizi ideologici stentano a morire anche in Europa, e la sopraffazione del potere ideologico tende ad egemonizzare popoli e culture apparentemente   diversi.

       Noi non possiamo accettare nessuna forma di egemonia, e, con molta chiarezza, diciamo: non ci piace quella cultura che vorrebbe equiparare la Chiesa Cattolica, o le Chiese, alla massoneria o a qualsiasi altra libera associazione; non ci piace quella concezione dello Stato opprimente, che tende a ridurre sempre di più gli spazi individuali e collettivi degli individui e delle persone, riconducendo il rapporto individui-persone-Stato alla peggiore versione dello statalismo; non ci piace chi si dimentica della famiglia, ma si batte per qualunque coppia di fatto, omosessuale o eterosessuale che sia; non ci piace chi si spaccia per pacifista, per poi scatenarsi in mille micro guerre coloniali; non ci piace chi firma accordi (vedi Maastricht), ma poi il primo a disattenderli, quando il sistema economico interno registra qualche difficoltà; non ci piace chi dichiara di volere combattere le dittature ed il terrorismo, nell’ambito di accordi internazionali, ma poi fa dei distinguo con molti “se” e molti “ma”, per presunti interessi nazionali.

       L’elenco potrebbe continuare, ma è ora di riflettere veramente e   ricominciare, anche senza l’inserimento delle radici cristiane nel preambolo costituzionale, perché ciò che più conta è il modus operandi.

       E noi vogliamo operare concretamente per contribuire a costruire gli Stati Uniti d’Europa, intorno ai grandi valori, perché sogniamo una Europa dei popoli, del lavoro, dei diritti e delle tutele.


COME SVILUPPARE UNA CULTURA DELL’ACCOGLIENZA PER UNA NUOVA POLITICA DI COESIONE SOCIALE?


       I mutamenti sociali e politici favoriti da processi quali la globalizzazione, oltre a fornire nuove possibilità di sviluppo, hanno fatto emergere nuove forme di povertà, non sempre classificabili con le tante espressioni di miseria. I dati statistici confermano un incremento esponenziale, non solo delle povertà cosiddette classiche, ma anche di una nuova tipologia di povero, spesso più problematica della povertà m materiale tradizionale. Trattasi di una “povertà spirituale e morale” che investe insospettabili cittadini, i quali, dietro un apparente perbenismo, celano una grande miseria dell’anima, con le inevitabili conseguenze in termini di violenza,   specialmente nei confronti di minori o di persone che si trovano in uno stato di debolezza e/o di disagio.. Una povertà morale e spirituale che aggredisce una altra povertà.

      Comunque, le vecchie e nuove povertà rappresentano, sia per le comunità nazionali che per quelle internazionali, una sfida che deve essere affrontata attraverso la definizione di adeguate politiche sociali, ispirate al rispetto della dignità della persona, alla tutela dei diritti fondamentali e mirate al bene comune.

      Tra le povertà vecchie e nuove, certamente va annoverata la situazione di profonda miseria collegata alle immigrazioni extra comunitarie.

       Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo, né sono nuovi i problemi che esse pongono, sia all’emigrante che alla società che lo accoglie; ma l’accelerazione dei flussi migratori impressa dal “rimpicciolimento” del mondo, le tensioni culturali ed i cambiamenti dei sistemi produttivi e del mercato del lavoro, hanno dato loro una nuova forma ed un nuovo impulso.

       Anche se spesso gli immigrati vengono percepiti come una minaccia, noi siamo convinti che essi non rappresentano assolutamente un ostacolo allo sviluppo, ma una risorsa per il sistema produttivo nel suo complesso.   

      Le Istituzioni devono mettere in campo tutte le azioni possibili, per impedire che gli immigrati vengano sfruttati e che possano subire forme di discriminazione rispetto ai lavoratori nazionali.

      I diritti fondamentali delle persone che emigrano, devono essere rispettati e promossi in ogni occasione, in primis, il diritto al ricongiungimento familiare, che rappresenta uno degli strumenti principali per farli sentire accolti e per permettere loro di integrarsi.

       La regolamentazione dei flussi migratori deve avvenire secondo “criteri di equità e di equilibrio” per poter garantire il rispetto della dignità della persona, incominciando da una corretta politica di aiuto allo sviluppo dei paesi di origine, coinvolgendo la società civile ed in particolare modo le ONG. La presenza degli immigrati rappresenta anche una sfida culturale.

      Per questo, dobbiamo fare uno sforzo in più per avviare un vero processo di integrazione, che passa attraverso l’accettazione dell’altro, in un contesto che necessariamente deve esse multietnico e multiculturale, nel rigoroso rispetto della nostra identità. Una particolare tipologia di povertà può essere rappresentata anche dalla situazione di molti giovani, senza lavoro, e di tanti anziani, spesso soli e costretti a sopravvivere con una misera pensione sociale.

      Una vera politica inclusiva non può assolutamente tralasciare i problemi di costoro. Occorrono adeguate politiche di sostegno, sia per i giovani che per gli anziani.

      Per i giovani, è indispensabile costruire un sistema formativo, disponibile per tutti, che sappia rispondere alle esigenze di un mondo del lavoro, sempre più flessibile e specializzato, ma è anche necessario, a breve termine, pensare anche a forme di sostegno economico, per aiutarli a continuare gli studi o ad inserirsi nel mercato del lavoro, sostenendo anche il loro legittimo desiderio di essere autonomi ed indipendenti e di formare una nuova famiglia.

       Per gli anziani, che vivono spesso in una condizione di marginalità che li fa sentire inutili, o in situazione sempre più prossime alla povertà, occorrono politiche mirate, con consistenti interventi sul fronte previdenziale e sul sistema sanitario, per   permettere loro, dopo una vita di lavoro, di vivere la terza età nella serenità ed in maniera dignitosa. E poi, occorre anche un particolare intervento sul fronte culturale, per riscoprire l’immenso valore di una vita matura e riconoscere quanto possa essere importante il ruolo degli anziani nelle famiglie e nell’educazione dei giovani.

       Sulle politiche da mettere in campo, per sconfiggere il flagello delle povertà, la società civile rivendica un preciso ruolo, per quel principio di sussidiarietà tanto conclamato da più parti, quanto eluso dai poteri pubblici. In questo settore, il volontariato, in particolare modo il volontariato cattolico, ha dato prova di efficienza, spinto “dall’amore preferenziale per i poveri” della Chiesa di Cristo.

       Favorire l’integrazione, accettare l’altro per quello che è, accogliere coloro che vengono dai paesi sottosviluppati o che fuggono da sistemi che umiliano l’uomo, significa agire in nome della carità cristiana.

       Quella carità, che diventa proposta politica per promuovere i diritti umani ed affermare il valore della dignità della persona, affinché possa costruirsi una società volta alla giustizia sociale ed al bene comune.


SU QUALI FONDAMENTA COSTRUIRE UNA VERA
CULTURA DELLA PACE?


       Affermare una cultura della pace significa, prima di tutto, riconoscere che essa non è “mera assenza di guerra”…ma pienezza della vita… un sommo dono Divino offerto a tutti gli uomini, che comporta l’obbedienza al piano di Dio” (Cfr compendio del DSC, n. 489). per vivere nella fratellanza ed in armonia con tutto il creato.

       Nella vita sociale, quindi, “la pace non è semplicemente assenza di guerra e neppure uno stabile equilibrio tra forze avversarie” (Cfr. Cost. Past. Gaudium et Spes), ma deve costituire un traguardo a cui tendere per promuovere ed affermare “senza se e senza ma” una civile convivenza, fondata sui pilastri della giustizia, dell’amore e della carità.

       La pace è opera della giustizia, perché senza la giustizia è difficile affermare le ragioni dell’umanità, che reclamano il rispetto dei diritti umani; la pace è opera dell’amore, perché senza l’amore verso l’altro è difficile comprendere le ragioni della giustizia; la pace è opera della carità, perché senza la carità è difficile manifestare la solidarietà, fino ad affermare che “l’altro nome della pace è lo sviluppo”.

       Vi sono nel mondo situazioni strutturali di ingiustizia, di sfruttamento, di miseria, che affliggono tanti popoli, che dovranno necessariamente essere rimosse se vogliamo veramente promuovere ed affermare una pace permanente. In questa visione, appare evidente come la pace, di cui la Chiesa Cattolica si fa promotrice, è ben diversa dalla cosiddetta ideologia della pace, causa spesso di un pacifismo violento spesso a senso unico.

       Nel Catechismo della Chiesa Cattolica si legge: “per prevenire conflitti e violenze, é assolutamente necessario che la pace cominci ad essere vissuta come valore profondo nell’intimo di ogni persona: così può estendersi nelle famiglie e nelle diverse forme di aggregazione sociale, fino a coinvolgere l’intera comunità politica”.

       Il problema della pace, quindi, è un problema che non potrà mai essere risolto se si prescinde dal suo profondo ed intrinseco significato valoriale.

       In tante altre occasioni, abbiamo avuto modo di sostenere che tutte le scelte sono direttamente o indirettamente riconducibili ai grandi valori.

       Pertanto, se la pace è un valore, essa va comunque ed in ogni caso perseguita politicamente, eliminando alla radice le cause che determinano i conflitti.

       Agire prima sulle cause e poi sugli effetti è, a nostro parere, il modo più corretto e coerente per affermare il valore della pace.

      Occorre però “coinvolgere l’intera comunità politica”, e ciò è un processo, prima di tutto culturale, tendente a fare maturare una coscienza della pace, che orienti le scelte politiche in funzione dell’affermazione di un valore assoluto (anche se sul fronte dei valori occorre sempre fare i conti con il relativismo culturale) introitato e vissuto come un imperativo categorico.

       Purtroppo, i tempi per affermare una nuova coscienza della pace, che agisca sulle cause, non sono a breve, per cui ci troviamo di fronte a confitti o micro conflitti che continuano a generare morti e sofferenze, a cui bisogna comunque porre termine.

       Non ci stancheremo mai di richiamare (per quanto possa essere ascoltata la nostra voce) l’attenzione dei Governi e dei responsabili delle Organizzazioni Internazionali di tentare con ogni mezzo di ricomporre i contrasti tra gli Stati con le sole “armi” della diplomazia: Il ricorso alle armi belliche deve essere l’ultima ratio.

       Per questi motivi, riteniamo che le Istituzioni internazionali, in primis l’ONU, vanno sostenute ed incoraggiate e che gli eventuali interventi militari devono essere subordinati al preventivo assenso degli Organismi internazionali, appositamente creati, a cui compete anche un rigido controllo sulle operazioni belliche, per impedire che possano essere commesse ingiustificate atrocità o crimini contro l’umanità.

       Esistono delle situazioni in cui l’uso della forza può essere legittimo, anche se deve essere sempre circoscritto e deve sottostare a dei precisi limiti che rispecchiano sostanzialmente i caratteri della cosiddetta “dottrina della guerra giusta” , anche se riteniamo che ogni guerra sia sempre il fallimento della pace.

       Ci sono situazioni, come la legittima difesa, in cui difendersi diventa un dovere. La guerra di aggressione è intrinsecamente immorale e lo Stato aggredito ha il diritto ed il dovere di organizzare la propria difesa anche attraverso l’uso della forza, benché non tutto sia lecito fra i belligeranti.

       I recenti eventi hanno fatto emergere l’attualità della cosiddetta guerra preventiva, sulla cui legittimità giuridica e morale è lecito nutrire qualche dubbio.

       Per proteggere la popolazione civile, i vari gruppi etnici e religiosi, spesso vittime innocenti di sconsiderati obiettivi bellici, occorre un completo rispetto del diritto umanitario, superando, nel rispetto del diritto internazionale, il principio di sovranità nazionale. Il disarmo è un altro obiettivo che la Comunità internazionale deve porsi per il mantenimento della pace. Difatti la corsa agli armamenti, la produzione ed il commercio di armi convenzionali e di distruzione di massa, non possono essere visti come strumenti per eliminare il rischio della guerra, secondo la vecchia teoria della deterrenza. Infine, “ il terrorismo va condannato nel modo più assoluto. Esso manifesta un disprezzo totale della vita umana e nessuna motivazione può giustificarlo, in quanto l’uomo è sempre fine e mai mezzo”

       A noi non resta che accogliere con profonda convinzione questo forte grido che il Santo Padre Giovanni Paolo II ha lanciato in occasione della giornata mondiale della pace del 2002.


PERCHE' UN IMPEGNO PER UNA NUOVA FRONTIERA
DELLA SOLIDARIETA'?


       La solidarietà “non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la   determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti ”, scrive Il Santo Padre Giovanni Paolo II nell’Enciclica Sollicitudo Rei Socialis.

       Se è vero, come è vero, che la solidarietà “non è un sentimento di vaga compassione”, è d’obbligo il nostro impegno per una sana politica della solidarietà, che investa la nostra dimensione collettiva.

       Dobbiamo superare definitivamente l’esperienza della carità pelosa, del contributo offerto per un “onesto senso di pace interiore”.

      Dal formale perbenismo bisogna passare a politiche nazionali ed internazionali attive, che coinvolgano gli interessati in tutti i processi di sviluppo. Ciò vale, in particolare modo, per la cooperazione internazionale, che va riempita di contenuti attraverso precise scelte politiche ed economiche, capaci di integrare tutte le popolazioni del pianeta in una pan - umanità, che noi sogniamo, perché è storicamente possibile costruire.

       Per questo, abbiamo sostenuto che la politica è una espressione alta della carità e per questo riteniamo che occorra inserirsi nei meccanismi di formazione delle coscienze, per fare acquisire a tutti la consapevolezza che la solidarietà è un dovere politico per i governanti ed un diritto per i destinatari (siano essi singoli, gruppi o interi Paesi), semplicemente sulla base di un elementare diritto di cittadinanza.

       La stagione che il nostro Movimento sta vivendo, frutto di una scelta complessiva generale, deve caratterizzarsi sempre più in una dimensione di fedeltà ai valori che sono alla base del nostro agire, adeguando di conseguenza i nostri comportamenti alla coerenza.

       Le esperienze di questi anni in tema di solidarietà (dalle iniziative per la raccolta di fondi per la remissione del debito nei paesi del terzo mondo a quelle per sostenere i progetti del CEFA MCL, oltre alle molteplici azioni di aiuto per interventi specifici promosse dalle chiese particolari, dall’Africa alla Romania ed ai Paesi dei Balcani) devono considerarsi soltanto un punto di partenza.

       La nuova stagione che si apre, infatti, deve essere ricordata per una costante, concreta e convinta azione di solidarietà a tutti i livelli.

       Un Movimento come il nostro, infatti, deve avere “ogni giorno” l’obiettivo di fare qualcosa per chi è meno fortunato.

       Con costante incisività, si devono sviluppare azioni, in ogni direzione, per creare coscienze e sensibilità tali da poter perseguire politiche di sostegno pubblico adeguate alle necessità e strategie per una equa distribuzione delle risorse.

       Questo preciso impegno politico è spesso causa ed effetto dell’Amore per l’Altro,   che spinge tanti Cristiani ad agire individualmente, mettendo in comune con chi ha bisogno una parte del frutto del proprio lavoro.

       Solo così possiamo sentirci coerenti con i valori che incarniamo e con i principi che affermiamo, con la consapevolezza di offrire un modesto contributo allo sviluppo umano e sociale per quanti vivono nella miseria, nella disperazione e spesso senza futuro, e solo così possiamo diventare anche utili strumenti di pace.


PERCHE' LA CULTURA DELLA VITA IMPONE UN
LIMITE ETICO ALLA RICERCA?


       I quattro recenti referendum sulla legge 40 hanno alimentato un ricco dibattito, sostanzialmente incentrato sul problema della vita, con particolare riferimento alla ricerca scientifica collegata con l’embrione.

    La domanda di fondo è abbastanza problematica ed investe la concezione della vita ed il diritto della scienza di lavorare per la vita stessa.

       Noi, assieme ad altre associazioni cattoliche, abbiamo (come è a tutti noto) consapevolmente scelto l’astensione attiva, perché riteniamo la legge 40 il minore male possibile.

      Se ci sforziamo di andare oltre quella “dittatura del relativismo”, che alimenta un pensiero unico, sempre più pragmatico e secolarizzato, cercando di ragionare in termini di Valori Assoluti, non possiamo che pervenire, con molta semplicità e chiarezza, alla conclusione che la Vita (a prescindere) è un Valore Assoluto e non può che essere sentito come tale da tutti quanti gli uomini, indipendentemente dalla propria fede religiosa, dalla propria posizione politica o dalla propria formazione culturale. Infatti, nessuno ha mai messo in discussione il Valore della vita. Il problema si presenta quando entra in gioco il diritto alla vita, specialmente quando essa è allo stato embrionale.

      Su questo aspetto le opinioni divergono ed il Valore della vita perde l’aggettivo “assoluto” risucchiato dal quel relativismo etico, culturale e religioso di cui sopra.

       Ebbene, noi riteniamo che la vita sia un Valore Assoluto e che in quanto tale debba essere tutelata, come diritto inalienabile, fondamentale ed indisponibile dal “concepimento sino al suo esito naturale”.

      Riteniamo, ancora, che questa convinzione prescinda da qualsiasi credo religioso, perché appartiene alla sfera dei diritti naturali, patrimonio di tutta l’umanità.

       Da questo semplice ragionamento scaturisce il seguente sillogismo.

      Se la vita è un Valore Assoluto da tutelare; se l’embrione è vita (scientificamente accertato); noi, uomini di questo mondo, non possiamo, per nessuna ragione, accettare che venga soppressa, qualunque sia lo scopo.

       Ancora, una precisazione si impone: la legge 40 non è una “legge cattolica” (sarebbe veramente la fine della laicità dello Stato), ma è una legge dello Stato, che noi come cittadini rispettiamo (come rispettiamo le leggi sul divorzio e l’aborto), anche se riteniamo, nell’intimo della nostra individuale coscienza, di non poterla applicare.

    Con questo, non vogliamo assolutamente ostacolare la ricerca scientifica. Non lo vogliamo prima di tutto come cittadini attenti e sensibili al nuovo che avanza, ma non lo vogliamo nemmeno come cattolici perché la Chiesa a cui apparteniamo non è affatto contraria ai progressi tecnologici e scientifici, anzi in essi vede la partecipazione dell’uomo al progetto divino.

       E’, quindi, errato impostare il dibattito sulla libertà di ricerca come una contrapposizione tra il pensiero laico (illuminista) e quello cattolico (oscurantista).

       Non è sulla scienza e sulla tecnica (le cui scoperte ritornano all’uomo,   glorificando il Signore) che si devono porre accenti critici, ma su quell’ideologia scientista, che vorrebbe manipolare la vita e la natura secondo criteri utilitaristici, anche se a fin di bene.

       Questa mentalità positivista non possiamo accettarla, perché riteniamo che in fondo prescinda da qualsiasi riferimento etico.

       Per questo, riteniamo che il diritto alla vita costituisca un limite etico alla ricerca. Quando, per presunte ragioni di vita, si sopprime la vita dei soggetti più deboli, i quali dovrebbero invece trovare aiuto e sostegno da parte della scienza e degli Stati, non possiamo per ragioni umane ed umanitarie che opporci con ogni mezzo e con tutte le nostre forze di uomini liberi e concreti.


PERCHE' LA FAMIGLIA E' UN VALORE LAICO DA TUTELARE?


       In questi anni più volte ci siamo impegnati per affermare il valore della famiglia in una società fortemente caratterizzata da una cultura individualista, che tende ad emarginare il tradizionale istituto del matrimonio, relegandolo nella sfera di quella inciviltà giuridica che costringeva i coniugi a convivere, anche quando veniva meno il presupposto principale della loro unione: l’amore.

       La battaglia per l’introduzione dell’istituto del divorzio è stata definita una battaglia di civiltà, perché andava incontro alle esigenze, in alcuni casi comprensibili e legittimi, di quelle persone che di fatto avevano reciso il loro legame matrimoniale, convivendo “more uxorio” o comunque costrette, magari per esigenze economiche, ad accettare una situazione schiavizzante.

      Illuminati dai nostri Pastori, noi abbiamo sempre pensato, che l’indissolubilità del matrimonio fosse un valore comunque da tutelare anche con le leggi perché “la necessità di conferire un carattere istituzionale al matrimonio, fondandolo su un atto pubblico, socialmente e giuridicamente riconosciuto, deriva da basilari esigenze di natura sociale” (Cfr Compendio DSC, n. 225)

       Sono stati quindi ragioni di “natura sociale” che ci hanno spinto ad opporci alla introduzione di un istituto che avrebbe aperto le porte (come di fatto si sta già verificando) ad altre “battaglie di civiltà”, annacquando un impegno che noi ritenevamo, e riteniamo, irrevocabile, perché immanente in una unione che ha una sua soggettività intrinseca.

       Il divorzio è una legge dello Stato e noi la rispettiamo, come rispettiamo tutte le leggi, affidando alla coscienza di ognuno di noi le scelte che ci riguardano personalmente ed individualmente.

       Adesso ci troviamo ad affrontare il problema delle unioni di fatto e quello inerente al riconoscimento delle unioni omosessuali.

       Anche su questi problemi, con molta chiarezza, ribadiamo che per noi il matrimonio è quello tra un uomo ed una donna e che non è possibile annacquare ulteriormente il matrimonio con l’introduzione di accordi pattizi comunque riconducibili all’istituto matrimoniale.

       Ribadiamo, ancora, che la nostra ferma opposizione non è ha niente di “clericale”; è una opposizione fortemente motivata da ragioni laiche, perché il valore del matrimonio è un valore laico e come tale va rafforzato.

       Per tutte quelle situazioni “anomale” è possibile utilizzare altri strumenti giuridici (che esistono e che possono anche essere modificati). Ma, invero, riteniamo che la battaglia innescata sia un battaglia di principio, tendente a minare dalle fondamenta un antico istituto giuridico, nel suo fondamento valoriale.


PERCHE' IL NOSTRO MOVIMENTO RIVENDICA UNA SPECIFICA SOGGETTIVITA' POLITICA?


       Da tempo, rivendichiamo con forza uno spazio per affermare una specifica soggettività politica, considerando ciò un elemento qualificante della democrazia ed uno strumento importante, attraverso il quale si rende concreto il principio di sussidiarietà.

       Ciò richiede anche una legittimazione politica che, purtroppo, è difficile acquisire, perché gli “interessi contrapposti” impediscono di fatto un naturale allargamento della rappresentanza politica, ed anche sociale.

       Noi abbiamo sempre affermato (il presidente Costalli lo ha gridato con forza) che nessuno può rivendicare il monopolio della rappresentanza, perché tutti i soggetti sociali ( e di categoria) sono chiamati naturalmente a rappresentare gli “interessi” dei propri associati.

       Purtroppo, dobbiamo constatare che anche i sindacati (in particolare modo la GIL), di fatto contrastano ogni tentativo di allargamento della rappresentanza, per timore di essere ridimensionati nel proprio potere politico.

      Ebbene, noi riteniamo che la società del ventunesimo secolo sia profondamente cambiata, nuovi soggetti sono venuti alla ribalta, sono emersi nuovi interessi che hanno sostituito o modificato i tradizionali elementi aggreganti.

       Ancora, si sta affermando una nuova cultura della partecipazione responsabile, che alimenta un dinamismo sociale consapevole della importanza della società civile nei processi di trasformazione in atto nella politica, nell’economia, nelle istituzioni, nell’Europa, nei rapporti internazionali.

       Ciò, a nostro avviso, rappresenta un dato di fatto oggettivo. Non considerarlo è pura miopia politica.

       Se la politica non è in grado di intercettare il nuovo che avanza prepotentemente e se i tradizionali strumenti della rappresentanza sociale non sono in grado di riconvertirsi, modificando mezzi e fini del loro modo di operare, finiranno per estinguersi per un esaurimento “di ruolo”, con una inevitabile ricaduta in termini negativi sulla democrazia.

       Per questo, insistiamo affinché si instaurino più stretti rapporti di collaborazione   con tutte le altre associazioni ed i sindacati, in particolare modo con le associazioni cattoliche e la CISL, affinché l’intero mondo dell’associazionismo venga politicamente legittimato, riconoscendo una particolare e specifica soggettività politica.

       Per quanto riguarda il nostro Movimento, riteniamo che esso abbia maturato in trent’anni di storia la consapevolezza di rappresentare legittimamente un pezzo del mondo del lavoro, a noi aggregato dalla condivisione dei valori scaturenti dalla Dottrina Sociale della Chiesa e dagli insegnamenti del suo Magistero.

       Lo strumento che abbiamo utilizzato, e che intendiamo continuare ad utilizzare, per affermare i diritti inalienabili dell’uomolavoratore, è il “vangelo del lavoro”: uno strumento che ci legittima ad agire politicamente, perché i diritti si affermano attraverso lo strumento della Politica, che per noi (lo abbiamo detto più volte) è anche una espressione alta della carità.

       E’ vero (come qualcuno ha obiettato) noi non siamo un partito e non siamo un sindacato, non facciamo le leggi e non firmiamo i contratti di lavoro, ma è vero anche che le leggi ed i contratti sono atti finali di un iter politico che   necessariamente deve coinvolgere i soggetti attivi della società, sulla base della loro rappresentanza sociale. Escludere dalle trattative pre-contrattuali o dalla elaborazione dei progetti di legge questi soggetti, significa indebolire la democrazia, la cui forza si fonda sulla ricchezza della sua articolazione sociale.

      Questo è fare politica con la P maiuscola. Su questo tema, in particolare, vorremmo che si articolasse a tutti i livelli un ricco ed approfondito dibattito congressuale, per offrire al presidente nazionale ulteriori spunti di riflessione al fine di formulare una proposta conclusiva.



PERCHE' I NOSTRI SERVIZI DEVONO ANDARE NELLA DIREZIONE DEI NUOVI BISOGNI E DEL RUOLO “POLITICO” DEL MCL?


       La dirigenza del MCL, pur concentrando la propria attenzione sul ruolo politico del Movimento, ha dato un particolare rilievo alla politica dei servizi, perché, come è stato più volte affermato, essa rappresenta una componente strategica nella dinamica di un Movimento di lavoratori, attento alle trasformazioni in atto.

       I problemi che in questi anni sono stati affrontati e risolti hanno avuto una importanza vitale per tutto il MCL. Essi hanno riguardato non solo gli aspetti operativi nel contesto di una rinnovata “etica” comportamentale, ma hanno investito anche aspetti afferenti ad un necessario equilibrio organizzativo, al fine di armonizzare e ricondurre ad unità tutte le componenti associative e tutti i servizi.

       L’obiettivo di coniugare la tradizionale attività con la “nuova” vocazione al servizio, realizzando il passaggio da “sistema servizi” al “sistema MCL”,. ci ha spinto a fare scelte sotto alcuni aspetti radicali.

       Il lavoro deve continuare, perché vogliamo e dobbiamo intercettare anche i nuovi bisogni per rafforzare anche il ruolo politico del Movimento.

       Per questo, riteniamo che al centro di tutte le attività debba essere posta la comunicazione della nostra specifica “missione politica”.

       Deve essere comunque chiaro a tutti che, pur in una auspicabile condivisione, sinergia, integrazione, attraverso i servizi non si fa “organizzazione”; semmai si aiuta e si supporta il Movimento in tutte le sue iniziative per crescere, e radicarsi sempre di più e meglio sul territorio.

       Il ruolo politico ed organizzativo spetta soltanto ed esclusivamente al MCL, il quale determina, con le sue decisioni, la politica dei servizi, in funzione della domanda dei bisogni vecchi e nuovi e del rafforzamento della sua azione politica nella società, fondata sulla cultura della partecipazione e della responsabilità.

       Noi siamo convinti che la soluzione di tutti i problemi (individuali o collettivi) si trova nel disegnato passaggio al “sistema Servizi integrati MCL”, valorizzato e coordinato da una unica regia MCL.

       Ciò è indispensabile, se non vogliamo recidere quel riferimento alla Dottrina Sociale della Chiesa che sta alla base di tutta la nostra azione politica sociale, sia che venga indirizzata verso interventi concreti nel mondo del lavoro e dei lavoratori, sia che venga indirizzata verso la politica e le Istituzioni.

       Per questo, riteniamo improcrastinabile l’esigenza di realizzare un rapporto ancora più stretto fra l’azione politica sociale del Movimento e l’attività dei servizi, in una logica associativa che veda coinvolti tutti i soggetti interessati.

       Con ciò pensiamo di potere offrire un servizio sempre migliore a tutti i lavoratori e di rafforzare una presenza nella società per affermare politicamente i valori di cui siamo portatori, senza comunque mai dimenticare che il nostro impegno è fondamentalmente basato sul volontariato.

       Ci troviamo, quindi, di fronte ad una duplice sfida, che ci impone di fare un salto di qualità per rispondere alle domande sempre crescenti di servizi e per riarticolare la nostra rappresentanza organizzativa.

       Solo così, potremo offrire risposte ai lavoratori, ma anche a chi cerca lavoro e/o a chi vuole cambiare lavoro; a chi vuole tutelarsi meglio sul piano previdenziale; a chi vuole conciliare meglio lavoro e famiglia.

      Offrire queste risposte in modo integrato e personalizzato, anche attraverso convenzioni con soggetti esterni “vicini” (agenzie di lavoro interinale, associazioni dei consumatori, degli immigrati, degli inquilini, dei pensionati ecc.), significa creare un “luogo” (stesso marchio MCL), dove la persona si senta “al centro” dell’attenzione, con la consapevolezza di offrire un servizio che certamente qualifica e rafforza tutto il Movimento.


PERCHE' E' NECESSARIO APPROFONDIRE IL RAPPORTO TRA I NOSTRI CIRCOLI E LE COMUNITA' PARROCCHIALI?


      Un Movimento ecclesiale che vuole vivere (singolarmente e comunitariamente) la propria esperienza di fede non può prescindere da un organico rapporto con le comunità parrocchiali.

       I nostri circoli non potranno essere un autentico strumento di evangelizzazione se non diventeranno componente attiva della Chiesa locale, mettendo al servizio dei fratelli la loro esperienza associativa, con tutta la struttura organizzativa e con tutta la rete dei servizi che il Movimento offre.

         Sarebbe anche interessante e auspicabile che ogni circolo trovasse anche momenti per la Celebrazione della Parola e partecipasse comunitariamente alla Celebrazione Eucaristica domenicale.

       Ciò vuol dire semplicemente che siamo veramente un Movimento Ecclesiale, che fa un cammino di fede nell’ambito della propria Chiesa locale e che assolve ad una funzione evangelizzatrice nello specifico campo del mondo del lavoro attraverso le opere (che non sono solo i nostri servizi) e la carità della politica. Riteniamo, quindi, necessario fare questo ulteriore passo, decisivo per riempire di contenuti, astratte formulazioni di principio. Ci rendiamo conto che qualche dirigente locale potrebbe incontrare qualche difficoltà, ma siamo profondamente convinti che la disponibilità al servizio e l’amore per la Chiesa di Cristo ci permetteranno di superare tutti gli ostacoli, comprese le eventuali pregiudiziali pseudo politiche o di schieramento, che esistono in tutti, noi compresi.

       Per facilitare questo ulteriore passo decisivo, il nostro Assistente Ecclesiastico Nazionale don Checco Rosso, sarà certamente un aiuto prezioso a cui ricorrere, non solo per essere orientati ed illuminati dal suo carisma sacerdotale, ma anche per trovare strumenti e mezzi per facilitare il rapporto con le parrocchie.

      Occorre, però, precisare che questo nuovo impegno, non è assolutamente alternativo a quello ricreativo ed assistenziale dei circoli, ma integrativo e complementare, che ci qualifica sul piano di una presenza multiforme.


PERCHE’ TUTTI DOBBIAMO IMPARARE AD AGIRE “GIOVANE”?


      Oltre all’approfondimento del rapporto con le comunità parrocchiali di cui al punto precedente, riteniamo che vadano attentamente e seriamente presi in considerazione altri due importanti problemi: i giovani e gli anziani. Di solito i due problemi vengono trattati separatamente; ma noi abbiamo voluto prenderli in considerazione insieme, perché riteniamo che rappresentino due facce della stessa medaglia.

    Infatti, sia i giovani che gli anziani rappresentano due categorie riconducibili alle cosiddette fasce deboli di cui al precedente punto 11, politicamente considerati solo nei momenti elettorali. Noi riteniamo che trattasi delle due fasce estreme della popolazione adulta, che hanno un particolare bisogno di essere egualmente tutelate, perché gli uni (i giovani) rappresentano la futura classe dirigente e gli altri (gli anziani) hanno diritto a ricevere concreti e tangibili riconoscimenti materiali, ma soprattutto morali, per i servizi che hanno profuso durante la loro vita lavorativa.

      Considerato che su questo fronte c’è di fatto un disimpegno totale, spetta a noi coprire questo vuoto, sensibilizzando l’opinione pubblica e la classe politica a fare delle scelte concrete per aiutare i giovani a crescere, a formarsi ed a maturare e gli anziani a vivere l’ultima stagione della vita nella serenità, possibilmente nella serenità familiare. Questa considerazione di carattere generale, ben si cala (con gli opportuni adattamenti) nel nostro Movimento.

      In questi anni, si è fatto tanto sia per i giovani che per gli anziani. Ma occorre riprendere con forza questo argomento, per approfondire ancora di più la presenza degli anziani ( coinvolgendoli maggiormente nei ruoli dirigenziali) e per sollecitare una più massiccia adesione giovanile a cui passare il testimone.

    Anche questo è un argomento da approfondire con particolare attenzione durante il dibattito congressuale, per fornire suggerimenti utili al fine di elaborare una proposta operativa da inserire nella mozione congressuale.

      Questo vuol dire pensare ed agire “giovane” e la sollecitazione in questo senso proviene proprio da coloro che tanto giovani non sono più.


VOGLIAMO GUARDARE AL FUTURO O ESAURIRE
LA NOSTRA EREDITA’?


       Un Movimento dinamico, che vuole incidere nella società, che vuole avere un ruolo attivo nella politica, che vuole prestare servizi sempre più efficienti; ma soprattutto un Movimento che vuole essere “Ecclesiale”, non può appiattirsi su posizioni conservatrici, nella nostalgia di un passato, certamente carico di gloria, ma che non c’è più.

       La storia ha dato ragione alle nostre scelte, noi siamo contenti, ma dobbiamo necessariamente guardare al futuro, perché altrimenti la ricca eredità del passato si esaurirà.

       Con il precedente congresso abbiamo avviato un processo che ha segnato una svolta progettuale ed organizzativa; con la elezione dell’ultima presidenza nazionale, siamo riusciti a comporre alcune situazioni interne (che esistono in tutte le buone famiglie), trovando una sintesi politica organizzativa; con la nomina di un Assistente Ecclesiastico Nazionale abbiamo rafforzato i nostri rapporti con la Conferenza Episcopale Italiana; con il “trentennale” di Firenze (dicembre 2002) si è chiusa definitivamente una stagione.

       La stagione che si apre, sarà carica di sogni e di attese e la nuova dirigenza, a tutti i livelli, dovrà essere capace di fare propri i sogni e di rispondere concretamente alle attese, per essere sempre fedele alla Chiesa, alla democrazia ed al mondo del lavoro.


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