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  Il tempo del silenzio e il tempo della parola

Data di pubblicazione: Giovedì, 11 Giugno 2015

TRAGUARDI SOCIALI / n.72 Giugno / Luglio 2015 :: Il tempo del silenzio e il tempo della parola

di Pier Paolo Saleri

“Il sorpasso”, “Chi ha paura della Germania”,” Senza industria non è Italia” sono i titoli dei primi tre capitoli con i quali Enrico Letta apre, ed inquadra nella cornice di una visione di ampio respiro, il suo recente libro Andare insieme, andare lontano. Il libro con cui, dimostrando di ben conoscere il tempo del tacere e quello del parlare, ha rotto il silenzio “autoimpostosi” per più di un anno, dopo la frettolosa brutale liquidazione del suo governo delle larghe intese. Una liquidazione avvenuta “come se le ‘larghe intese’ fossero un capriccio di chi venne incaricato di dar loro corpo e non la conseguenza inevitabile di uno stallo prodotto dall’esito elettorale, dalla vergogna dei centouno del Pd, dal rifiuto del Movimento 5 Stelle di ogni soluzione che non fosse l’opposizione più inflessibile”.
Quei primi tre capitoli inquadrano il libro in una prospettiva profonda ed ampia perché nel primo capitolo, “Il sorpasso”, non tratta di sorpassi elettorali, come ci si potrebbe aspettare da un qualsiasi politico italiano di oggi, ma di quello che succederà nella prospettiva di anni a venire, non lontani, quando nel 2016 “il Brasile, insieme agli altri cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India Cina) sarà protagonista del sorpasso forse più clamoroso della storia dell’economia. Dopo una rincorsa durata poco più di un ventennio questi Paesi supereranno quello che un tempo chiamavamo Occidente (Stati Uniti ed Unione europea) come potenza economica complessiva”. Il secondo capitolo “Chi ha paura della Germania” affronta, in modo appassionato ma equilibrato, il tema dell’egemonia di fatto cui il peso economico-politico della Germania ha dato luogo, nell’ambito dell’Unione Europea, a prescindere dalla volontà degli stessi governanti tedeschi. Letta tratta il tema non nell’ottica, riduttiva e sbagliata, delle “contrapposizioni/rivendicazioni” nazionalistiche ma in quello, ben più consapevole, di “spingere molto di più, anche con una dialettica dura, affinché questa egemonia nei fatti si metta responsabilmente al servizio dell’Europa”. Perché, spiega chiaramente, “in Europa nessuno si salva da solo” e c’è, altrimenti, il rischio concreto che questa situazione si ritorca contro la Germania stessa: che la corda infine si spezzi con ripercussioni nefaste per tutti, anzitutto per la Germania”.
Il terzo capitolo, infine, è già nel titolo un accorato appello a non lasciar cadere la vocazione industriale dell’Italia: “Per anni – scrive Letta – abbiamo ascoltato analisi sciatte sul tramonto della politica industriale, quasi fosse un tabù in tempi di economia immateriale e di erosione delle sovranità economiche. Nel mentre la crisi scavava nella nostra capacità di fare industria, rivoluzionandone i connotati. Con il risultato che il rischio desertificazione industriale è ancora incombente e la polarizzazione del sistema produttivo italiano è sempre più marcata”.
Tre temi forti, di ampio respiro e di grande visione che smarcano il libro da ogni riduttiva polemica da cortile, pur senza mai adottare atteggiamenti “buonisti” nei confronti della pericolosa situazione politica e sociale nella quale il “renzismo” sta rischiando di imprigionare l’Italia. Se, infatti, nello scritto di Letta non vi è in nessun modo nessuna polemica diretta, né si lascia spazio ad alcun risentimento personale, è assolutamente fuori discussione che la visione culturale e politico-sociale che il libro esprime è quanto di più radicalmente antitetico vi possa essere rispetto all’atteggiamento frettoloso, furbo, senza scrupoli ed egocentrico che il renzismo sta, oggi, incarnando nella politica italiana. Potremmo anzi dire che la contrapposizione di fondo, e la distanza tra i due modi di pensare è talmente profonda che non vi è neppure la possibilità della polemica.
E, difatti, Renzi non è mai citato per nome nel libro o, se lo è, non più di una volta.
Di fronte ad una visione ampia e profonda delle cose e ad una concezione della politica inquadrata nell’ottica dei grandi movimenti della storia e della geopolitica i punti di radicale distinzione dal renzismo sono essenzialmente due. Il primo è la netta presa di distanza dal decisionismo parolaio, e spesso inconcludente, dell’attuale Governo: “l’esperienza mi ha insegnato – scrive Letta – che, in un sistema complesso qual è quello italiano, gli effetti delle decisioni non sono mai immediati. Le dinamiche sociali ed economiche hanno tempi più lunghi. Conta di più l’applicazione delle politiche nel medio periodo che l’accumulo, giorno dopo giorno, di interventi ex novo presentati a colpi di proclama”. Il secondo è il radicale rifiuto di ogni visione personalistica della politica. Letta rifiuta, in termini chiari ed inequivocabili, la visione egocentrica della politica che il renzismo trasuda e che egli percepisce chiaramente, già fin dall’assalto al “Palazzo d’inverno” contro il suo Governo che Renzi organizzò, senza tanti scrupoli né complimenti, nel febbraio del 2014. “Ciò che stava succedendo mi appariva come un errore non soltanto per le ovvie implicazioni personali, ma perché trovava il suo fondamento ideale in una tendenza che non rientra, né mai rientrerà, nella mia cultura politica: la funzione salvifica del demiurgo, l’affidamento a una persona sola. Una persona che, per quanto trascinante, sempre tale rimane. Sola appunto”. In questo modo Letta scava un fosso davvero incolmabile tra la propria visione della politica e l’avventura renziana che sta trascinando il Pd e l’Italia verso derive pericolose.
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