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  Europa: la mobilità dei lavoratori è ancora una chimera

Data di pubblicazione: Mercoledì, 15 Maggio 2013

TRAGUARDI SOCIALI / n.59 Giugno / Luglio 2013 :: Europa: la mobilità dei lavoratori è ancora una chimera

Commissione Europea: serve una direttiva per attuare l’art. 45 del Trattato

Prosegue anche in questo numero la corrisponde nza da Bruxelles, curata dal giornalista Pierpaolo Arzilla. ‘Una finestra sull’Europa’ questa volta si occupa della mobilità dei lavoratori nel territorio dell’Ue, che è ancora lontana dall’essere completamente attuata.

La crisi dell’Europa è anche crisi di mobilità.
Nel senso che, oltre o nonostante il rischio default incombente, i cittadini europei preferiscono restarsene a casa, magari con qualche sussidio di disoccupazione, piuttosto che fare capolino oltre confine per dare una svolta alla propria vita. E se proprio c’è da emigrare è perché non restano altre soluzioni disponibili. Lavorare all’estero, dunque, sembra ancora visto come una necessità più che un’opportunità. E pensare che uno degli elementi fondativi dell’Unione europea (articolo 45 del Trattato) è proprio la libera circolazione dei lavoratori e, nello specifico, il diritto “non negoziabile” a cercare lavoro in un altro Stato membro, “lavorare in un altro Paese Ue senza bisogno di un permesso di lavoro, viverci per motivi di lavoro, restarvi anche quando l’attività professionale è giunta a termine, godere della parità di trattamento, rispetto ai cittadini nazionali, per l’accesso al lavoro, le condizioni di lavoro e qualsiasi altro beneficio sociale e fiscale”.
La realtà però è molto meno seducente: solo il 3% della forza lavoro Ue, pari a circa 9,5 milioni di persone, lavora in un altro Stato membro, secondo i dati 2012 di Eurostat. L’Italia è in media Ue con 676mila connazionali (al terzo posto per numero di emigranti dopo romeni e polacchi) in giro per l’Europa, che diventa il 3,4% se si considera in rapporto all’intera popolazione nazionale.
Il “picco” lo raggiungono i Paesi dell’ex blocco sovietico più Portogallo e Irlanda. Il record è dei romeni, con il 13,1% (oltre 1,2 milioni) dei lavoratori impegnati nel resto dell’Ue; seguono portoghesi (11,7%), lituani (11,2) e irlandesi (10,7).
Numeri che confermano come la mobilità professionale tout court, e dunque non dettata da ragioni puramente emergenziali, nel 2013 in Europa resta un miraggio. Per colpa di chi?
A smontare gli entusiasmi, rileva la Commissione europea, è soprattutto la scarsa consapevolezza o la poca comprensione delle norme Ue da parte dei datori di lavoro sia pubblici che privati, a prescindere dal fatto che la legislazione nazionale sia conforme o meno, che crea dunque una discriminazione fondata sulla nazionalità.
Secondo una ricerca di Eurobarometro, il 15% dei cittadini comunitari afferma di non volere prendere in considerazione un lavoro in un altro Stato membro a causa dei “troppi problemi da affrontare”.
Gli “intoppi” sono almeno cinque: diverse condizioni di assunzione; requisito della nazionalità per accedere ad alcuni posti (come accade nel settore pubblico); condizioni di lavoro diverse nella pratica (come le retribuzioni, le prospettive di carriera e di livello); problemi di accesso ai benefici sociali subordinati a requisiti più facilmente soddisfatti dai cittadini nazionali rispetto agli altri cittadini dell’Unione europea (per esempio il requisito di residenza); scarsissima o differente (al ribasso) considerazione in patria delle qualifiche e delle esperienze professionali acquisite in altri Stati membri. Ostacoli, osserva Bruxelles, che oltre a comportare conseguenze professionali e personali per le singole persone coinvolte, incidono sulla loro integrazione nel mercato del lavoro e nella società del Paese ospitante.
La principale restrizione all’occupabilità, oltre a quelle “per motivi politici, di sicurezza pubblica e salute pubblica”, si attua, come si accennava, nella pubblica amministrazione. I 27 hanno deciso di riservare alcuni impieghi del settore pubblico ai propri cittadini, derogando così alla regola generale della libera circolazione dei lavoratori, deroga che va quindi interpretata “in modo restrittivo”. Ai cittadini nazionali possono essere, dunque, riservati “soltanto gli impieghi che comportano la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dell’autorità pubblica e la responsabilità di salvaguardare gli interessi generali dello Stato”. Per tutti gli altri impieghi non riservati ai cittadini nazionali, ricorda la Commissione, i cittadini degli altri Paesi Ue devono essere trattati allo stesso modo di quelli nazionali per quanto riguarda: l’accesso al pubblico impiego (ad esempio le procedure di assunzione), le condizioni di lavoro (come retribuzione e grado), il riconoscimento dell’esperienza professionale e dell’anzianità di servizio. Chi si candida a un impiego nella pubblica amministrazione di un Paese Ue diverso dal proprio, può però avere delle difficoltà a farsi riconoscere l’esperienza professionale e l’anzianità maturata in altri Paesi europei.
Per i lavoratori dei nuovi Paesi aderenti all’Ue, poi, il diritto alla libera circolazione può essere limitato per un periodo massimo di sette anni dall’adesione, restrizione che per il momento interessa i lavoratori di Bulgaria e Romania (che hanno aderito all’Ue il 1° gennaio 2007), e che terminerà il 31 dicembre 2013.
La Commissione propone ora una direttiva per applicare meglio o mettere in pratica l’articolo 45, chiedendo agli Stati membri di “creare punti di contatto nazionali che forniscano informazioni, assistenza e consulenza, in modo che i lavoratori migranti e i datori di lavoro dell’Ue siano meglio informati dei loro diritti”, fornire “adeguati mezzi di ricorso a livello nazionale”; consentire a sindacati, Ong e ad altre organizzazioni “di avviare procedimenti amministrativi o giudiziari per conto di singoli lavoratori nei casi di discriminazione”, fornire, infine, “una migliore informazione ai lavoratori migranti e ai datori di lavoro dell’Ue in generale”.

Pierpaolo Arzilla
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