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  HAITI, UN DISASTRO ANNUNCIATO

Data di pubblicazione: Mercoledì, 24 Marzo 2010

TRAGUARDI SOCIALI / n.40 Marzo / Aprile 2010 :: HAITI, UN DISASTRO ANNUNCIATO

MICHELE GIUSTI

Forse non si conoscerà mai nel dettaglio il numero di vittime causato dal catastrofico terremoto che ha colpito Haiti il 12 gennaio scorso. Il presidente haitiano Rene’ Preval il 27 gennaio ha fatto un primo bilancio ufficiale: sono 170.000 i cadaveri recuperati dalle macerie, ma si tratta di un numero destinato a crescere almeno fino a 200mila.
Preval ha anche fatto il conto delle devastazioni materiali: 225.000 abitazioni e 25.000 edifici commerciali sono stati rasi al suolo, la capitale Port Au Prince rasa al suolo.
Non servono troppe parole per dire del disastro di questo piccolo Paese centramericano, abitato da 9 milioni di abitanti e fra i più poveri del mondo. Haiti occupa la metà occidentale dell’isola di Hispaniola, dove Cristoforo Colombo attraccò al termine del suo grande viaggio, nel 1492. Il Paese, inizialmente possedimento spagnolo, divenne colonia francese nel XVII secolo e nel 1804 è stato la prima repubblica ‘nera’ ad ottenere l’indipendenza.
Di questo tragico gennaio resteranno nei cuori di tutti le immagini di quanto accaduto nelle ore e nei giorni immediatamente successivi al terremoto, con i cadaveri ammonticchiati nelle piazze in attesa che qualcuno decidesse che cosa farne. Sembravano bambolotti ed erano esseri umani, accatastati come legname prima di essere sepolti o bruciati, in attesa di una decisione di qualche autorità. Ma ad Haiti non c’erano più autorità, se non sulla carta.
Sbriciolati i palazzi del governo e dei ministeri, della polizia, crollati pure gli ospedali e le scuole, i pochi centri commerciali. Insieme con il naturale dolore per le perdite umane, gli haitiani si sono dovuti far carico della peggiore delle situazioni che possano accadere a un essere umano: ritrovarsi totalmente vulnerabili e indifesi, preda della sofferenza, della fame e della sete, della paura di altre scosse, e non sapere dove andare, cosa fare, non trovare i propri cari, non trovare i propri bambini.
Ad Haiti in quelle ore è venuto fuori di tutto.
Pensiamo ai saccheggi delle povere case, pensiamo all’assalto ai convogli dei soccorritori, pensiamo al terrore di migliaia di bambini rimasti soli e affamati, in mezzo a quell’orrore, a vagare senza meta fra le macerie. Nel quarto giorno dal terremoto che ha distrutto il Paese, dopo tre notti trascorse in strada fra rovine e cadaveri alla ricerca di acqua e di cibo, la tensione è esplosa e sono state viste anche barricate e blocchi stradali eretti usando anche i cadaveri. E le vittime del sisma si sono rivoltate contro i loro stessi soccorritori, giunti in forze da tutto il mondo, soprattutto dagli Usa. Un paradosso mostruoso. Un paradosso che ha portato alcuni soldati ad aprire il fuoco contro gli sciacalli, e a ucciderli. I soccorritori che sparano addosso a disperati che rubano povere cose fra le macerie delle case di altri poveri. Esiste una mostruosità maggiore? Per fortuna di tutti i soldati americani hanno ripreso in mano la situazione e le altre organizzazioni, specialmente quelle non governative, nonon militarizzate e quindi più avvezze a muoversi sul terreno sociale, hanno ripreso il bandolo della matassa umana aggrovigliata nel dolore e nella disperazione per condurlo lentamente verso un futuro dignitoso.
Ma il disastro di Haiti non è tutto terremoto, non solo terremoto. Che in quest’isola vivesse un popolo poverissimo lo sapevano tutti. Nove milioni di abitanti, costretti prima del disastro a condizioni di vita che noi non immaginiamo nemmeno: il 70% della popolazione viveva con meno di 2 dollari al giorno, disoccupazione al 70%. Mentre 60 bambini su mille non ce la fanno a vivere fino a un anno, una percentuale altissima. Un medico ogni cinquemila abitanti. Oltre 2 milioni di persone vivono nelle baraccopoli.
In questo Paese, un tempo ricchissimo di vegetazione, ogni anno vengono tagliate 30 milioni di piante, e la pioggia strappa la terra a colline e montagne che diventano fiumi mortali di fango. Per questo, come dice un proverbio locale, gli haitiani temono i temporali e i cicloni più delle pallottole. E li temono anche perché le loro case spesso non sono di cemento, e sono appoggiate sul fango. La catastrofe umanitaria dell’isola caraibica è un po’ anche causa del mondo occidentale. Se si fosse investita una piccola parte delle centinaia di milioni di dollari che oggi vengono destinati alla ricostruzione, forse oggi ci sarebbero state meno vittime.Quelli sono i soldi della nostra cattiva coscienza, sempre dubbiosa e renitente quando si tratta di investire per aiutare popolazioni in difficoltà, ad Haiti o altrove, salvo poi mostrarsi generosa a tragedia avvenuta. Certo, nessuno avrebbe potuto fermare il terremoto, ma case più solide, una sanità degna di questo nome, un maggiore sviluppo complessivo di questo sciagurato Paese, avrebbero mitigato le conseguenze della tragedia.
Chi pensava di aver visto tutto nella vita, con la vicenda di Haiti si è dovuto arrendere al famoso detto che la realtà supera sempre la fantasia. Mentre gli haitiani poveri erano in preda al terrore, alla fame, al bisogno di aiuti, molti grandi ricchi del Paese sono rimasti rinchiusi senza muovere un dito nelle loro mega ville con fortezza, costruite in cemento e quindi rimaste in piedi. Per non dire delle grandi navi da crociera che continuavano a sostare al largo delle coste haitiane, e i turisti a fare il bagno senza alcun pudore. E come non ricordare che la vicina Santo Domingo, il Paese che occupa l’altra metà della grande isola caraibica, è stata a guardare, come se la cosa non la riguardasse?
A questi brutti segni dei tempi si aggiunge un dato che fa pensare: nella corsa agli aiuti internazionali si sono distinti i Paesi islamici, specialmente quelli ricchi, per aver mandato quasi solo condoglianze e messaggi di solidarietà invece di dollari, uomini e mezzi. Forse perché la popolazione haitiana è quasi totalmente cattolica e cristiana.
La tragedia di Haiti può e deve essere il punto di partenza per una nuova chiave di lettura dei rapporti fra i popoli e delle politiche di sostegno a quelli più deboli.

Michele Giusti
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